Buonismo e forze dell’ordine

Il buonismo, il politicamente corretto è imperante in tutti i Paesi occidentali, e in quelli europeo continentali sta assumendo tratti totalitari dato che non sembra avere alternative praticabili a livello politico e giuridico.

In Italia però si verificano certi episodi estremi di cui non si ha notizia negli altri Paesi (Francia, Germania) coinvolti nella stessa tendenza culturale e politica: in particolare  è frequente che agenti appartenenti alle forze dell’ordine, ma anche privati cittadini che si oppongono alle violenze e alle prevaricazioni (che spesso mettono a rischio i loro beni e la loro vita) di chi delinque violando la legge si trovano a dovere pagare delle conseguenze pesanti, cioè ad essere sottoposti a lunghi procedimenti penali, talora addirittura condannati penalmente e civilmente a risarcire i danni a chi quegli atti criminali, da cui si erano difesi, aveva posto in essere, quasi che la vittima diventasse delinquente e il delinquente vittima.

Ciò vuol dire che in Italia l’ideologia buonista è più forte, più estrema che negli altri Paesi? Probabilmente no: la differenza la fa la cultura civica italiana, una cultura legata al compromesso, alla “casuistica”, che non conosce l’applicazione uniforme della legge, ma che adatta le norme in maniera sempre diversa da caso a caso.

Il trapianto dell’ideologia buonista e del politicamente corretto su tale terreno produce effetti devastanti a livello della posizione dei singoli.

Facciamo qualche confronto. Di fronte ad esempio ad una manifestazione di piazza di   ‘centri sociali’, o ad una sommossa di immigrati, la polizia può comportarsi in maniere molto diverse che vanno dalle cariche, agli arresti, alla semplice osservazione passiva.

In Paesi a legalità ‘forte’e predefinita, come ad esempio Francia e Germania, le linee di condotta degli agenti sono stabilite dall’alto, dai politici competenti, in base a regole certe, di modo che quale che sia l’atteggiamento deciso (il pugno di ferro o il guanto di velluto), il singolo agente è comunque tutelato dal fatto di avere rispettato gli ordini.

A loro volta i pubblici ministeri (spesso legati in un modo o nell’altro all’esecutivo) e i giudici sono vincolati dalle stesse norme certe e prestabilite, di modo che è molto difficile che decidano anche solo di indagare sul comportamento del singolo agente che si è attenuto alle disposizioni, anche se la sua condotta ha recato danni ai manifestanti violenti.

Lo stesso discorso vale in sostanza sia per l’azione delle forze dell’ordine nei confronti di atti criminali compiuti da singoli, sia anche per gli atti di autotutela posti in essere dai privati minacciati  nella persona e/o nei beni, dato che almeno certi principi sono certi ed il singolo sa in anticipo cosa può fare e cosa non può fare, senza contare che l’azione della forza pubblica garantisce una maggiore copertura ai privati e li costringe ad autodifendersi molto più  raramente di quanto avviene da noi.

In Italia, dove la legalità varia da caso a caso e il potere pubblico interviene solo ‘eventualmente’ se ne ravvisi l’interesse, la situazione è profondamente diversa: nessun agente della forza pubblica e nessun privato cittadino ( a parte ovviamente le situazioni estreme)  è mai del tutto certo se agisce nella legalità  o contro la legge, e questo in situazioni drammatiche dove si deve decidere, spesso a  rischio della vita propria e/o altrui, in pochi secondi.

Di fronte alle sommosse, di fronte a coloro che delinquono distruggendo le cose altrui e minacciano le persone come si deve reagire? Quasi mai gli operatori delle forze dell’ordine possono contare su ordini precisi (a costo di ripeterci, gli ordini suonano sempre nel senso di ‘eventualmente decidere cosa fare’) né su norme chiare che stabiliscano cosa è lecito fare e cosa no, e tutto ciò vale a maggior ragione per il privato che cerca di autotutelarsi di fronte alle aggressioni.

Questa situazione di legalità variabile era sempre stata tenuta insieme dal buon senso e da certe prassi costanti degli operatori, nonché dal fatto che a tali prassi sostanzialmente si rifacevano pubblici ministeri e giudici nei casi in cui la reazione dell’aggredito o il comportamento delle forze dell’ordine avesse recato danni agli aggressori, o ai manifestanti violenti ecc.

Venute meno queste prassi costanti e più in generale i criteri di buon senso che (per quanto ampiamente discutibili) fornivano comunque dei parametri di azione, l’azione degli operatori è lasciata sempre più alle decisioni personali, che dipendono in sostanza dalla posizione dal ‘peso’ che la posizione di chi agisce ha nell’ambito del potere pubblico. Andando ad impattare su questa situazione, la diffusione delle concezioni buoniste hanno effetti distruttivi per l’autonomia del singolo.

Se infatti non esistono non solo norme certe (che in Italia non sono mai esistite) ma nemmeno prassi affidabili, allora tutto  è lasciato alle decisioni degli individui: al poliziotto spetta la scelta se e come affrontare il violento, al privato la scelta se e come reagire, al magistrato la scelta se e come perseguire penalmente l’uno e/o l’altro.

Se però la maggioranza dei singoli operatori (politici, amministratori, pubblici ministeri e giudici) o è di stretta osservanza buonista oppure non ritiene di opporsi (a livello di interpretazione della normativa, a livello di proposte legislative, a livello di prassi amministrative ecc.) alle concezioni buoniste predominanti, ecco che l’operatore della polizia o il privato che ha affrontato l’aggressore in maniera non conforme a tali concezioni viene inevitabilmente innanzi tutto sottoposto a giudizio e talora addirittura condannato.

La particolarità  italiana per quanto riguarda questa materia non è costituita quindi da un buonismo ancora più spinto di quello degli altri Paesi, ma piuttosto dal fatto che, mentre in questi ultimi le decisioni buoniste si impongono a priori a tutti, e quindi ciascuno sa come comportarsi, nel nostro Paese (anche) le decisioni buoniste dei poteri pubblici (soprattutto del potere giudiziario) variano da caso a caso e molto spesso si impongono a posteriori ‘ex post facto’ andando pesantemente ad incidere sulla posizione dei singoli, sanzionandoli (ma a volte anche un processo con assoluzione finale, ma durato anni  è una sanzione) per comportamenti che dovrebbero essere considerati legali, o che comune dovrebbero essere chiaramente definiti (come legali o illegali) prima che gli stessi siano posti in essere.

Insomma mentre negli altri Paesi europei continentali i principi del buonismo e del politicamente corretto vengono applicati secondo le regole di un apparato pubblico che tratta tendenzialmente tutti allo stesso modo ed agisce secondo regole definite, in Italia gli stessi principi sono applicati in maniera variabile, e sotto la spinta dell’ideologia, in maniera sempre più ‘implacabile’, e in base a regole e principi spesso tanto astratti da permettere qualunque interpretazione.

Tutto questo porta ad una posizione di debolezza di coloro che, come agenti delle forze dell’ordine o come privati cittadini che reagiscono affrontano i criminali, una posizione di debolezza che non ha riscontro paradossalmente nemmeno in ordinamenti in cui il valore delle regole ed il ruolo delle autorità pubbliche sono ancora più vaghi e variabili che in Italia quali quelli sudamericani, dove la polizia spesso svincolata da regole rigide è di fatto soggetta a ben pochi controlli esterni sul suo operato.

Il presente scritto riflette un nucleo di pensiero condiviso con il collega Fabrizio Borasi e contenuto negli otto volumi della ricerca ‘Il sistema corporativo’ per i tipi della casa editrice Giappichelli

 

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