Il caso Weinstein e il neofemminismo che alimenta la discriminazione

Condannato dalla società prima ancora di finire in tribunale è ciò che accade a molti e oggi a Weinstein. Ma è prematuro scomodare il garantismo, anche perché le 40 denunce sono pervenute solo alla stampa, ad oggi nemmeno una alla polizia.
Che non si ricordino più in che cassetto hanno piegato per bene le prove?
Qui il problema è di più ampio respiro, soffoca lui ma è ossigeno che alimenta trasversalmente mezzo mondo sul piano etico: destre e sinistre, conservatori, femministe, liberali e liberal. L’approccio politico sarebbe il più realistico, ma non abbastanza pruriginoso per i media alla ricerca dell’impatto emotivo di basso profilo.
Chi non ha scheletri nell’armadio? Il mezzo asservito al fine inchioda sul vizietto il nemico di turno con l’ausilio del moralismo popolare, il vero perno ipocrita e perverso su cui gira la faccenda.
La ciliegina sulla torta è l’espulsione di Weinstein dalla Légion d’honneur, che pensavamo si occupasse di meriti militari e professionali e scopriamo invece allargarsi sul divano del produttore al buio prima ancora della luce sui fatti. Più politico di così.
Speriamo abbia almeno verificato che le promesse del produttore alle povere ragazze siano state disilluse, il vero disonore sarebbe piuttosto quello.
A soffiare sul fuoco abbiamo le neofemministe, orfane di battaglie vere, che grazie a un istinto di sopravvivenza impressionante, si aggrappano agli stereotipi acutizzando la discriminazione anziché dirimerla.
Difatti, la tutela della donna in quanto tale sottintende l’appartenenza a una specie bisognosa di protezione.
Come potrebbe ambire a posizioni di responsabilità? Anzi, necessita dell’aiuto delle istituzioni, di cui certo non potrà farne parte. Se le paladine della parità si impuntano sulle quote rosa, qualcosa non torna nella considerazione della donna.
Si pensi inoltre alla maggiorenne non in grado di reagire a una molestia priva di coercizione fisica: un caso di fragilità psicologica (nulla di male, intendiamoci), ma la fragilità richiede ulteriore tutela.
Sotto tutela dovrebbe finirci ora anche Weinstein, usato, gettato e massacrato da tutti. Il pessimo stile nell’approccio con le donne non è ancora reato, ma sorge il dubbio che presto lo possa diventare: tra la violenza fisica, la molestia e il complimento il confine è sempre più brumoso.
Non occorre uno stupro per finire sotto accusa (mediatica oggi, domani chissà), è sufficiente che la donna si senta offesa in qualche modo, dilatando il senso del pudore, faccenda strettamente individuale e variabile, su scala collettiva.
Il paradosso è che per difendere un principio o un comportamento assurto a legge morale buona e giusta per la collettività si parta da casi specifici e individuali.
Ogni attrice esordisce e si afferma a modo suo, che Asia Argento sia più prossima a un caso patologico (e ancora più meritevole di tutela per fragilità o squilibrio personale) che a una vittima tout court è innegabile, e non esclude peraltro che ci siano esordienti grate al couch casting come scorciatoia, un do ut des che, esecrabile o meno purché consensuale, si esprime potenzialmente in qualsiasi ambito lavorativo.
A riprova che il vittimismo collettivo “di genere” non funziona.
Riprovevole è casomai la complicità di queste attrici nell’affossamento della meritocrazia: scavalcare talenti forse accantonati perché non inclini a una pratica nota e alimentata da donne in concorrenza tra loro è uno schiaffo alla sbandierata solidarietà femminile.
Lo scandalo vero è che si scandalizzi mezzo mondo per questioni arcinote, un’offesa ulteriore alle vere vittime delle violenze di ogni genere nei confronti di tutti i “gender” del globo.
Pur rispettando il ciclone di sensibilità che di botto ha travolto Hollywood, da chi ha tratto vantaggio dal sistema Weinstein attendiamo il colpo di coerenza finale a chiusura della partita doppia: che Hillary e i democratici rimborsassero il malloppo ricevuto e le attrici offese restituissero oscar e carriera.
Solo così i conti tornerebbero.

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