Elezioni, 2 dati che ci riportano al 1994

Bastano due dati molto semplici per comprendere come questa campagna elettorale sia probabilmente solo il preludio ad una nuova, ennesima, fase di transizione, proprio sulla falsariga di quanto accaduto nel 1994.

1) Le leggi? Quasi tutte per decreto

Dei leader degli schieramenti, infatti, solo Piero Grasso e Luigi Di Maio siedono in Parlamento e sono entrambi alla loro prima legislatura mentre né Berlusconi, né Renzi (senza dimenticare Beppe Grillo, nonostante il suo recente secondo “passo di lato” senza dimenticare lo stesso Matteo Salvini) fanno parte del massimo organo rappresentativo del Paese.

Un fenomeno che fa riflettere su quanto il potere legislativo nelle ultime legislature sia stato ormai relegato ad un ruolo di secondo piano rispetto all’esecutivo che, viceversa, non è mai stato così centrale nella storia repubblicana quanto oggi.

301, infatti, sono i progetti di legge di iniziativa governativa licenziati da questo Parlamento mentre, solo 97, sono quelli di matrice legislativa. Un bilancio che, in caso di stallo dopo il 4 marzo, porterà probabilmente o ad un ritorno preponderante delle due Camere, vista l’esiguità di qualunque maggioranza possa uscire dalla consultazione elettorale oppure, sulla scia di quanto già avvenuto nel 2013, ad un nuovo ruolo centrale del Governo, la cui composizione politica è oggi ben lungi dall’essere prevista con una relativa certezza.

2) Il Rosatellum e l’ingovernabilità

Il secondo aspetto poi, ancora più originale, riguarda la nuova previsione del Rosatellum 2.0 relativamente al “capo politico” del partito che si presenta alle elezioni. Non è un mistero come, con ogni probabilità, nessuno dei “capi” indicati dalle forze in campo ha già oggi concrete chance di guidare il prossimo governo.

Due paradossi, questi, che già tracciano la grande novità dello scenario post-voto. Ma quali saranno le opzioni in campo, soprattutto se il centrodestra, la coalizione data avanti da tutti i principali istituti di rilevamento, non dovesse arrivare al fatidico 40% che con ogni probabilità blinderà la maggioranza?

“L’impossibile maggioranza”

Va detto anzitutto che, pallottoliere alla mano, anche con una cifra inferiore al 40%, non è possibile escludere, e lo studio del Sise lo conferma, che attorno al 38-39% non vi sia un relativo spazio di manovra per comporre una maggioranza chiara, per quanto non imponente.

Nonostante ciò, tuttavia, anche in caso di maggioranza autosufficiente, permangono molti dubbi sul mantenimento dello schema politico disegnato dai partiti del centrodestra per il nuovo Governo. Mai come oggi, infatti, anche all’interno delle coalizioni (e quella di centrosinistra, per quanto meno variegata e più formato bonsai non fa eccezione) a prevalere sono le battaglie e i programmi delle singole forze politiche.

Di “programma comune”, stile scrivania di Porta a Porta del 2001, c’è oggi ben poco e a fare la differenza non sarà più la coalizione e il suo programma ma i rapporti di forza al suo interno e, soprattutto, i rispettivi cavalli storici dei partiti. Ma se il centrodestra, con Forza Italia in primis, oggi molto più avanti rispetto al Pd e ai suoi cespugli, sulla carta ha a disposizione un relativo margine di manovra anche per alleanze politiche post-voto. 

Nel campo centrosinistra ci si interroga su come operare in caso di sconfitta, soprattutto se si confermerà, come rilevano i sondaggi, il terzo posto del Pd e della sua coalizione dopo il centrodestra e il MoVimento Cinque Stelle.

In campo c’è la prassi, che per quanto non risalente nel tempo, potrebbe sbloccare l’impasse: nel 2013, con percentuali analoghe e rapporti di forza simili (anche se il centrodestra oggi è ben sopra la percentuale poi effettivamente confermata nelle urne per la ex coalizione di centrosinistra “Italia bene comune”) l’incarico di formare il governo andò proprio al Pd, nonostante fosse arrivato secondo, dietro ai cinque stelle.

E il primo esperimento politico, non tecnico, di governo di larghe intese si risolse, dopo l’incarico esplorativo a Bersani e quello a Enrico Letta, con un governo Pd-Pdl-Scelta civica. Nonostante uno scarto minimo (29,55 il centrosinistra e 29,18% il centrodestra) nel nuovo governo furono 8 i ministri di provenienza Pd mentre solo 4 vennero assegnati al PdL berlusconiano. Uno schema, dunque, molto utile a sbrogliare a matassa in caso di stallo.

Rimane poi in campo una terza ipotesi, quella di un completo rimescolamento delle carte, che con sé decreterebbe la fine del Rosatellum già all’inizio della neonata XVIII legislatura: M5S, Lega e altre forze politiche minori potrebbero raggiungere da soli, in caso di una discreta affermazione nella quota uninominale di entrambi i partiti (il vero premio di maggioranza “occulto” di questa legge elettorale), la maggioranza relativa e quindi reclamare la possibilità di formare il nuovo governo.

Se nel 2013 i risultati portarono ad una situazione senza alcun precedente nella storia parlamentare italiana, lo scenario rischia di far sembrare lo stallo di cinque anni fa un lontano ricordo. Da mesi al Quirinale si esamina con dovizia ogni possibile sfumatura per prepararsi, dopo l’insediamento del nuovo Parlamento, al prossimo giro di consultazioni che già si preannuncia unico e forse irripetibile.

Ma sarà un’altra scadenza, che spesso passa sotto traccia, a determinare gli equilibri dei colloqui che il Capo dello Stato intratterrà con le forze politiche: le elezioni dei presidenti delle due Camere.

Come con l’elezione di Franco Marini e Piero Grasso, sarà infatti questo passaggio a indirizzare la scelta del Quirinale. Per la prima volta da anni lo spauracchio di due presidenti eletti due maggioranze diverse si fa sempre più concreto, forse perché, come temono al Colle, in questo caso la XVIII legislatura repubblicana, nascerebbe già morta.

E con una legge elettorale tutta, ma tutta, da rifare.

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