Il ’68 di Foucault tra folli, Maggio parigino e biopolitica

È una bella occasione per riflettere su un pensatore veramente rilevante la ripubblicazione da parte dell’editore Castelvecchi di quelli che, nella prima edizione del 1981, si chiamavano Colloqui con Foucault. Ne era autore Duccio Trombadori, che aveva incontrato l’ “ultimo maitre à penser ” francese qualche anno prima nella sua casa parigina. Oggi il libro, una vera e propria intervista filosofica a tutto campo, esce con il titolo: Esperienza e verità. Colloqui con Duccio Trombadori, con il grande filosofo francese (era nato a Poitier nel 1926) che figura direttamente come autore (pagine 126, euro 12,50).

È una piccola forzatura, ma è giustificata dal fatto che il volume, che è stato tradotto negli anni in diverse lingue e ha circolato un po’ in mezzo mondo, è diventato un classico, utile ancora oggi soprattutto per capire in che ordine di idee Foucault si muoveva e come egli venne gradualmente costruendo il suo universo mentale (e anche morale). Purtroppo il libro non mette a tema per ovvi motivi cronologici la parte più sostanziale e originale, oltre che più attuale, dell’opera foucaultiana, emersa in tutta la sua ampiezza di orizzonti e originalità di prospettive negli ultimi anni, man mano che, a cavallo fra l’ultimo decennio del Novecento e il primo del Duemila, venivano pubblicati i corsi tenuto al Collège de France (che Foucault tenne dal 1970 fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1984). Ma procediamo con ordine.

Fin dalle pime pagine di questa intervista, Michel Foucault fa presente di non considerarsi un filosofo. È la stessa affermazione che, in universi di pensiero molto differenti, hanno fatto altri grandi “filosofi” novecenteschi, ad esempio Isaiah Berlin o Hannah Arendt. In verità il problema segnalato è che è oggi impossibile fare filosofia seguendo i canoni con cui essa è nata e si è sviluppata dai presocratici fino, diciamo, ad Hegel. “Non sono un teorico – afferma il nostro – non sviluppo sistemi deduttivi da applicare uniformemente a campi diversi di ricerca”. E aggiunge: “quando scrivo, lo faccio soprattutto per cambiare me stesso e non pensare più la stessa cosa di prima”. Qui, più che sull’elemento esperienziale, come si dice con brutto termine, l’acento va posto, a mio avviso, sul “metodo” di conoscenza, il modo di procedere che contraddistingue il filosofo post-metafisico. Costui, infatti, segue il filo dei ragionamenti facendosi trasportare da essi, senza avere una meta prefissata, lasciando emergere la “verità” dalle “cose stesse”, come direbbe un fenomenologo (anche se Foucault è un critico della fenomenologia, che giudica ancora inscritta nell’orizzonte dell’umanismo e del soggettivismo).

La giovinezza tumultuosa

Un interesse di studio specifico, in verità, Foucault lo matura subito dopo una tumultuosa giovinezza, ed è quello per la storia. Lo concepisce però in modo del tutto diverso da come potrebbe concepirlo uno storico di professione. Più che tumultuosa, la sua giovinezza fu in verità ambigua, essendo divisa fra i successi scolastici e universitari (fu ammesso brillantemente all’ École Normal Superieure) e i problemi psicologici connessi alla sua identità omosessuale.

Per un paio di anni (1950-52), si impegna pure politicamente nel Partito Comunista, ma si sente uomo troppo libero per continuare. A un certo punto, si volge allo studio delle malattie mentali e dei fenomeni devianti, a diretto contatti con gli operatori del settore. Li vede però dal punto di vista dello storico, concentrandosi sula nascita e sviluppo, in età moderna, di istituzioni e luoghi detentivi che tendono a separare il mondo dei “folli” da quello dei “savi”, i “sani” dai “malati”, i “normali” dagli anormali”: manicomi, carceri e altre “istituzioni totali”.

L’attenzione per i “folli” e il ’68

I suoi libri, per quanto generalmente criticati, diventano subito oggetto di discussione e acquistano enorme visibilità: Storia della follia nell’età classica (1961); Nascita della clinica (1963); Le parole e le cose (1966); L’archeologia del sapere (1971). Dietro il trionfo in età moderna di una certa idea rigida di “razionalità”, codificata soprattutto nelle scienze mediche e umane, si delineano, secondo Foucault, in primo luogo rapporti di potere e esigenze di organizzazione sociale che vengono organizzandosi e sedimentandosi. Sono questi gli aspetti del suo discorso, che, insieme all’attenzione per “folli”, detenuti e “malati”, hanno fatto di Foucault uno dei pensatori di riferimento del Sessantotto inteso in senso lato. Anche se, soprattutto con il Maggio parigino (che non ha vissuto direttamente essendo in Algeria), egli fu, come è chiaro in alcuni passaggi di questo libro, molto critico: prima di tutto per l’uso di un linguaggio e di sistemi di pensiero antiquati, per il pampoliticismo e la strabordante presenza del marxismo. “ I mutamenti in corso – dice Foucault a Trombadori – avvenivano anche in rapporto a tutto un insieme di sistematizzazioni filosofiche, teoriche, e a tutto un tipo di cultura che aveva segnato, all’incirca, la prima metà del nostro secolo”. Il Maggio fu, ancora, un “momento di smisurata esaltazione di Marx, di ‘iper-marxistizzazione generalizzata”.

I problemi che interessano Foucault in questa prima fase del suo pensiero sono da una parte molto concreti e specifici, perché la follia, il processo di medicalizzazione, la nascita delle carceri, sono studiate in periodi storici e contesti spaziali determinati, e con l’aiuto di esempi e documenti altrettanto circostanziati; dall’altra, presentano aspetti “epistemologici” molto interessanti che egli va sempre più ponendo in risalto. “Più o meno – dice nell’intervista – mi ponevo il problema così: una scienza non potrebbe essere analizzata e concepita un po’ come un’esperienza, cioè come un particolare rapporto che i stabilisce in modo tale che il soggetto stesso dell’esperienza si trovi ad essere modificato? Detto altrimenti: nella pratica scientifica non si verrebbero a costituire tanto il soggetto quanto l’oggetto della conoscenza?”. È questa la cosiddetta “archeologia del sapere”, cioè il ricondurre ogni volta da parte di Foucault le pratiche scientifiche (ad esempio la psichiatria) al momento in cui si sono costituite come tali, stabilendo con ciò stesso il proprio oggetto (nel nostro caso la “follia”) e valutandolo con i propri criteri (la “razionalità” e la “normalità”).

La “medicalizzazione” della “follia”, da questo punto di vista, si svela come fenomeno non “normale” ma tutto moderno, inscritto nella logica della modernità (idee che incrocieranno quelle della cosiddetta antipsichiatria e porteranno in Italia alla “legge Basaglia” e alla chiusura dei manicomi). Si tratta, a ben vedere, di una particolare interpretazione del metodo “genealogico” di Friedrich Nietzsche, che, attraverso la mediazione di Georges Bataille e Maurice Blanchot, diventa presto l’autore di riferimento di Foucault. Anche il soggetto, in questo ordine di discorso, diventa il punto di arrivo di una costruzione sociale.

La riflessione sul potere

Foucault insiste molto con Trombadori su questo allontanarsi del suo pensiero dalle filosofie soggettivistiche e umanistiche, e quindi anche dall’esistenzialismo di Sartre (a cui in verità lui personalmente mai era stato vicino): un processo che è comune a tutti quei pensatori francesi degli anni Sessanta che a torto, egli dice, vengono chiamati “strutturalisti” (una etichetta che si addice invece al solo Claude Lévi Strauss). L’istituzione di una forma di scienza, o meglio di un sapere, corrisponde anche alla messa in atto di determinati rapporti di potere all’interno della società e fra gli uomini. E sul tema del potere Foucault è venuto sempre più concentrandosi negli ultimi anni, come è attestato dalle sue lezioni e come si evince anche da questa conversazione. Prima di tutto, egli pone l’attenzione sul carattere molecolare che lo contraddistingue, mai così evidente come in una società post-moderna (parla di una “microfisica dei poteri”); sulla sua non riducibilità a un rapporto unidirezionale (del tipo “servo” versus “padrone” per intenderci); sul suo proporsi non più oggi come potere statale, più o meno dispotico, ma come “governamentalità”, cioè come un insieme di regole comportamentali interiorizzate dai singoli in cui il potere, sempre più astratto e assoluto (che qualcuno potrebbe compiacersi di apostrofare come “neoliberale”), si pone di fronte alla “nuda vita” senza più le mediazioni della vecchia democrazia rappresentativa e della società “borghese” della prima modernità.

È il tema affascinante, diventato poi moda filosofica e accademica anche in Italia (ma Foucault non c’entra), del “biopotere” o della cosiddetta “biopolitica”. Un argomento che, ovviamente, non è nemmeno vagamente accennato in questa intervista. Riflettendo su tutto questo, e anche su quel che il libro ora ripubblicato afferma, non mi sentirei però di avvicinare, come fa Trombadori nella prefazione apposta a questa edizione, l’“eredità intellettuale” di Foucault “a coloro che hanno distinto l’istanza dell’umanesimo liberale nella cultura contemporanea: penso soprattutto a Benedetto Croce, ma anche al tanto diverso Karl Popper, per la convergente idea dell’impresa conoscitiva per via di ipotesi, esperienze, tentativi ed errori; e la comune convinzione che non si possa predeterminare il processo storico e convenga soprattutto affidarsi alle vie imprevedibili suscitate dalla libertà umana”.

Sicuramente questi elementi sono presenti in Foucault, come in tanti altri pensatori, ma egli contesterebbe alacremente l’avvicinamento a qualsiasi forma di umanesimo. Direi che, sviluppando in modo radicale e profondo la riflessione sul potere e sui suoi complessi e spesso non evidenti o intuitivi meccanismi di determinazione, egli, che liberale non è, può essere considerato un pensatore utile ad un liberalismo filosofico che si riscrive dopo la crisi delle categorie del moderno (in cui il cosiddetto “liberalismo classico”, da uesto punto di vista “superato”, era pienamente inserito).

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