La cultura è di destra o di sinistra?

Si chiama un po’ enfaticamente “Stati Generali della cultura di destra” l’incontro organizzato, per il prossimo 13 ottobre, da un agguerrito e folto gruppo di giovani riuniti sotto le insegne dell’Associazione “Nazione futura”. Sono conservatori, ma nel senso moderato e liberale del termine. E sono stati organizzati a livello nazionale da un giovanissimo studioso, editore e ideologo di Cesena di nome Francesco Giubilei.

L’occasione porta a interrogarsi sulla possibilità stessa che possa esistere, in un senso profondo e non empirico, una “cultura di destra” opposta e diversa da una “di sinistra”. In linea di principio, direi proprio di no: la cultura, nella sua giusta pretesa di universalità e nel suo essere disinteressata, sembrerebbe non sopportare aggettivi di sorta. Il fatto però è che l’ideale dell’avalutatività e quello dell’ “autonomia della cultura” sono stati nel Novecento minoritari. La cultura, nel secolo scorso, si è messa al servizio del potere e della politica: si è fatta partigiana, quando non si è addirittura “militarizzata”, Quelli che si sono affermati sono stati gli ideali dell’impegno sociale dell’intellettuale e persino dell’intellettuale organico. Questo processo ha toccato le vette della cultura novecentesca ma si è poi trasmesso in tutto il vasto ambito della cultura media e diffusa (editoria, generando stilemi e modi di ragionare che fanno ancora oggi parte, in maniera più o meno consapevole, del mainstream, del bagaglio culturale di chi si occupa in senso lato di faccende intellettuali (editori, organizzatori di eventi, giornalisti, ecc.).

In modo irriflessio, noi stessi siamo portati a chiedere all’uomo di cultura linee guida per l’azione e non come sarebbe più logico linee guida per capire qualche aspetto del reale, nei limiti della precarietà e finitezza umana. I cosiddetti “intellettuali”, pur di avere successo, si sono attrezzati, e raramente hanno la capacità e la volontà di uscire fuori dal seminato, di contraddire ciò che il pubblico medio da loro stessi formato vuol sentirsi dire. Anzi, il conformismo intellettuale tende ad escludere chi non segue la corrente del luogo comune, un po’ per opportunismo e un po’ per convinzione.

Quella che domina è perciò una Mezza Cultura, che pur essendo intrinseca alla società di massa è altra cosa, come ci ha insegnato Dwight McDobald, dalla “cultura di massa” propriamente detta perché anzi si atteggia senza poterselo permettere ad alta cultura. Non è Mezza Cultura quella, ad esempio, del “politicamente corretto”, che pretende di riscrivere la storia secondo gli ideali delle quote di genere e razziali o altri parametri di siffatta natura? Gli intellettuali della Mezza Cultura sono poi – guarda un po’! – i più agguerriti contro quella che definiscono l’incultura e di massa, quelli sempre pronti a dare patenti di incompetenza ai “barbari populisti”. La Mezza Cultura è, a ben vedere, figlia di quel processo di assalto alla cultura e al canone occidentale a cui loro per primi hanno messo mano. Ma tant è.

Quello che qui mi preme piuttosto sottolineare è che il mainstream è ancora oggi, in Italia ma non solo, quello dettato dalla sinistra. A cui è sbagliato e vano opporre, a mio avviso, una cultura di destra, che si proponga di promuovere una cultura diversamente atteggiata ma comunque di parte. Il compito della Destra, ma io preferisco dire di una forza conservatrice e liberale, deve invece essere quello di ripristinare il sacro valore della cultura, nella sua autonomia e quindi anche, come conseguenza, nella sua libertà e spregiudicatezza (nel senso di non avere pregiudizi che non si possano mettere in discussione).

Una cultura alta, ovviamente, classica, che non dà formule e “ricette” a buon mercato ma instilla dubbi. Una cultura che esige quel “travaglio del concetto” di cui parlava Hegel. Una cultura non (solo) tecnica, ovviamente, ma da far apprezzare e rispettare da tutti e da divulgare in modo semplice e serio (sarebbe un errore anche che gli studiosi si rinchiudessero nella turris eburnea dei loro studi). Certo, un ideale, ma un buon ideale a cui, con realismo, tendere da avere come guida.

Un esempio di un modo di fare cultura non partigiano è stato, ad esempio, il neonato Festival della Politica, organizzato il 10 e l’11 settembre scorsi dall’ Associazione culturale Isaiah Berlin a Santa Margherita Ligure (una località in cui il pensatore inglese, che quanto a anticonformismo intellettuale non era secondo a nessuno, era di casa). Esso, pur essendo passato sotto silenzio sui giornali (solo “Il Giornale” ne ha parlato), ha rotto con quel modo di fare, che a volte assume aspetti parossistici, che Marcello Veneziani ha così ben sottolineato in un perfido ma veritiero tweet qualche giorno fa: “il Festival della Filosofia di Modena come il Carnevale di Viareggio: sono sfilati i carri ideologici della sinistra filosofica. Pensiero Unico, sempre più uniforme, sempre meno pensiero”. L’organizzatore del Festival della Politica, Dino Cofrancesco, pur essendo ascrivibile al milieudegli uomini di cultura conservatori e liberali, o anzi proprio per questo, ha avuto invece il merito di mettere attorno ai vari tavoli in cui si discutevano i temi del Festival relatori ascrivibili a tutte le posizioni teoriche e politiche, provenienti fra l’altro da diversi settori disciplinari o con diverse competenze (gli argomenti affrontati: la proliferazione dei diritti, la corruzione percepita e quella reale, la crisi e il futuro della democrazia, dazi e libero commercio, sovranità nazionale, globalismo e Europa. il futuro della sinistra). L’incontro è stato la dimostrazione che l’ideale berliniano del pluralismo è possibile e che per rendere vivace un dibattito basta ragionare con onestà intellettuale e senza pregiudizi. I temi affrontati sono stati quelli dell’attualità politica .

Che dire? Rompere, in ambito culturale (non ovviamente in quello politico), il tavolo gioco destra vssinistra, un tavolo imposto dalla sinistra, è oggi una battaglia che una forza conservatrice, che ha come bussola e riferimento la Tradizione, dovrebbe far propria. E dovrebbe farlo anche una forza liberale perché solo in quella battaglia è riposta la speranza di ridare vigore a quell’ Occidente che, con i suoi valori, deve continuare ad essere il nostro spazio ideale e non solo geografico.

 

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