La lezione dimenticata di Raymond Aron

Il Saggio sulla destra, il conservatorismo e la democrazia liberale, ora ripubblicato da Historica, a dodici anni dalla ormai introvabile prima edizione italiana (ed. Guida), può essere una buona occasione per ripensare la magistrale lezione etico-politica di Raymond Aron, in un’era segnata dall’apparente trionfo della civiltà liberale.

Il curatore delle due edizioni, Alessandro Campi, ha riproposto la sua Postfazione del 2006 facendola precedere da una densa prefazione che traccia la storia ideologica della destra italiana, a partire dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi, con le illusioni e le speranze che aveva suscitato e che non riuscirono mai a tradursi in una nuova political culture, per le difficoltà dei tempi e l’inadeguatezza degli uomini della vecchia destra, incapaci di dar vita a un new deal democratico-conservatore.

Se avessero letto e approfondito il saggio di Aron, è la tesi di Campi, forse il destino politico del paese sarebbe stato diverso. In effetti, le pagine scritte da un pensatore considerato tra i più lucidi del Novecento, sono un invito alla tolleranza, alla comprensione delle ragioni degli altri, all’esercizio critico della ragione, che cerca di non lasciarsi sopraffare dai pregiudizi e delle passioni nell’osservare quanto accade in questo nostro pianeta «bello e terribile», come lo definì un tormentato Paolo VI.

È una lucidità che si manifesta soprattutto in uno stile malinconicamente ironico, scettico ma non cinico, che porta a far giustizia dei miti radical chic. «Non credo scriveva ad esempio- che l’uomo di sinistra, in quanto tale, sia più intelligente, generoso o disinteressato di quello di destra. Mi viene risposto che l’intellettuale di sinistra assume la difesa dei poveri e degli oppressi. A ciò ribatto affermando che egli difende soprattutto una categoria di vittime (…). Per l’intellettuale di oggi, la protesta contro le ingiustizie non comporta alcun rischio. Anzi: comunisti e progressisti fanno carriera nella stampa o in ambito universitario».

Se dovessi indicare l’insegnamento più prezioso che si ricava dal Saggio non esiterei a porlo nella messa in guardia dalla tentazione di poter restaurare l’autorità del passato e rafforzare l’unità nazionale ricorrendo ai sistemi totalitari. Che il fascismo sia la negazione della democrazia è un’ovvietà ma che esso rappresenti un pericolo mortale per gli stessi valori tradizionali non è altrettanto scontato. «Sfortunatamente, nelle società moderne il rifiuto opposto a elezioni, istituzioni rappresentative e libera discussione in materia di politica è, per sua stessa natura, responsabile dell’estremismo(…). è nei regimi rappresentativi, piuttosto che in quelli a partito unico, che esistono maggiori possibilità di realizzare i valori autentici che invocano i conservatori».

Debbo dire, però, che le tesi di Aron non sempre convincono.

Trovo corretta la critica a Russell Kirk, per il quale l’essenza del conservatorismo è «la salvaguardia delle antiche tradizioni morali dell’umanità» giacché, in tal modo, una sensibilità etica e un’attitudine politica diventano quasi delle ipostasi ontologiche; mentre mi lascia perplesso la critica rivolta a René Rémond che, in un’opera fondamentale sulle destre in Francia, aveva distinto tre destre, quella tradizionalista e controrivoluzionari, quella orleanista liberalconservatrice e quella democratico-autoritaria: una distinzione, a mio avviso di grande utilità, che aiuta, tra l’altro, a comprendere i diversi destini storici delle tre famiglie spirituali.

«Destra e sinistra – scrive Campi in linea con Aron – non si sono mai presentate, se non in particolari circostanze e per ragioni momentanee, come realtà omogenee e unitarie, sono state invece attraversate da contrasti politico-ideologici interni per molti versi insuperabili. Il che implica due conseguenze: la prima è la necessità, dal punto di vista dell’analisi storica, di parlare delle destre e delle sinistre, rigorosamente al plurale e non tutte compatibili tra di loro; la seconda, è la consapevolezza che la vera linea di demarcazione politico-ideologica non passa, genericamente, tra destra e sinistra (e nemmeno tra le destre e le sinistre, globalmente e genericamente considerate), ma tra gli estremisti e i moderati (ovvero tra i radicali e i riformisti) presenti all’interno dei rispettivi blocchi».

Può essere vero ma perché allora definiamo fenomeni pur molto diversi destre e analogamente altri fenomeni sinistre? Come altri autori, Aron ritiene che la distinzione destra-sinistra non aiuti a capire la realtà giacché i temi che si credevano caratteristici dell’una o dell’altra -a cominciare dal patriottismo che da idealità rivoluzionaria diventa la bandiera di una destra nazionalista spesso cambiano campo, sennonché, a ben riflettere, è il destino di tutti i valori umani: verità e onestà non si sono riempiti nei secoli di contenuti diversi e forse per questo diventano problematici?
Le radici, la comunità, l’etica del destino, che impone doveri che non sono oggetto di una scelta libera e razionale saranno sempre (per quanto rimossi dallo scientismo illuministico) un’insopprimibile dimensione dell’umano.

Il problema è trovare forme di convivenza civile che non consentano all’appartenenza di degenerare in tribalismo razzista e allo scientismo tecnocratico di realizzare la distopia orwelliana del 1984. È l’equilibrio tra comunità e società, tra tradizione e innovazione, tra fedeltà e libertà che spiega il successo dei popoli anglosassoni.

Gli aroniani sarebbero sicuramente d’accordo ma dovrebbero guardarsi dalla tentazione di fare del «conservatorismo bene inteso» il famulus della democrazia liberale. L’incontro tra i valori è fecondo di risultati quando ciascuno conserva la forza delle proprie ragioni e la mette al servizio della comunità politica. Non è la tradizione della libertà che fa grande l’Occidente ma è la libertà nella tradizione ovvero la libertà radicata nel terreno della storia, dei costumi, dei beni preziosi trasmessi dagli antenati.

 

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