L’articolo 18 della Costituzione Italiana

Trascrizione dell’intervento dell’Avv. Andrea Pruiti Ciarello sull’art. 18 della Costituzione Italiana, nell’ambito del convegno “Liberi di associarsi”, organizzato dal Grande Oriente d’Italia, con il patrocinio dell’Assemblea Regionale Siciliana, a Palermo il 9/01/2019 nella Sala Piersanti Mattarella di Palazzo dei Normanni (Palermo).

Sono trascorsi quasi novecento anni dal momento in cui il parlamento siciliano divenne, primo tra tutti gli stati europei, moderno strumento di amministrazione del regno, somma assise deliberativa e regolatoria dei rapporti civili, esempio di innovazione politica ed amministrativa e ritrovarsi oggi, in questo luogo così significativo, a parlare della Costituzione Italiana e, in particolare, del diritto di associarsi liberamente, sancito dall’art.18, potrebbe sembrare quasi un vuoto esercizio retorico.

Così non è, però, i fatti dimostrano che occorre impegnarsi nel dare corpo alle fredde norme costituzionali, perché quelli che sembrano diritti inviolabili dell’uomo corrono quotidianamente il rischio di essere gettati nell’oblio o di essere calpestati. Tale rischio cresce al crescere del disinteresse dei giovani alla politica, cresce al crescere della demagogia e del populismo nella retorica politica, cresce quando il rigore normativo cede il passo alla ricerca pervicace ed indiscriminata del consenso.

Ci si trova quindi a discutere dell’effettività del diritto di associazione, giacché lo scorso 4 ottobre 2018, l’Assemblea Regionale Siciliana ha approvato la Legge Regionale n.18/2018, la quale per un perverso scherzo del destino, va a intaccare proprio quel diritto che l’art.18 della Costituzione riconosce e garantisce.

La nostra bella Costituzione prevede che “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”. Questo testo, apparentemente semplice, esprime in realtà tutta la polemica e la frustrazione del popolo italiano, contro la censura fascista. Durante il regime dittatoriale, proprio la libertà di associazione, subì una drastica compressione.

L’Assemblea Costituente, nel redigere quel testo ancora oggi vigente, deliberò di dare alla libertà di associazione, la formulazione più ampia possibile di libertà positiva, cioè quella di essere riconosciuta all’interno dell’Ordinamento con il minore intervento potestativo dello Stato. Così il testo base sul quale lavorarono i deputati della I sottocommissione, ovvero “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione preventiva, per scopi che non contrastino con le leggi penali e con le libertà garantite dalla Costituzione” subì delle censure e delle profonde modificazioni, al fine di rendere quanto più ampio possibile il diritto di associarsi.

L’Aggettivo “preventiva”, dopo la locuzione “senza autorizzazione”, fu fortemente censurato dall’On. Roberto Lucifero d’Aprigliano (monarchico e liberale) che propose di sopprimerlo, giudicandolo limitativo, poiché poteva fare pensare che il legislatore, pur non potendo imporre autorizzazioni preventive, ne potesse tuttavia imporre di successive alla costituzione della associazione.

La parte finale del primo comma, ovvero quella che prevedeva che la libertà di associazione dovesse essere riconosciuta per scopi che non contrastino “con le libertà garantite dalla Costituzione” fu proposta dall’On.le Giorgio La Pira, Democratico Cristiano, con il supporto del collega di partito On.le Aldo Moro, il quale proponeva come variante di specificare “libertà democratiche” ma, paradossalmente, anche tale formulazione si prestava ad interpretazioni restrittive della libertà di associazione. L’On.le Elio Basso, avvocato e socialista, criticò aspramente la proposta dei colleghi democristiani perché tra le libertà che la Costituzione garantisce vi è il diritto di proprietà (art.42) e subordinare la libertà di associazione al rispetto delle libertà garantite dalla Costituzione, avrebbe potuto in qualche modo limitare il diritto di associazione di movimenti politici come il partito socialista ed il partito comunista, i quali avevano una concezione non liberale della proprietà privata e “si riunivano per ridurla o vietarla” (cit. On.le Basso). Quella formulazione, pertanto, si poteva prestare ad abusi, consentendo astrattamente di vietare le riunioni dei partiti socialista e comunista, prendendo a pretesto un contrasto, vero o presunto, con le libertà garantite dalla Costituzione.

Alla fine, la I sottocommissione dell’Assemblea Costituente esitò il testo che noi oggi conosciamo, respingendo tanto la proposta dell’On.le La Pira, quanto l’emendamento dell’On.le Moro, al fine di non restringere in nessun modo la libertà di associazione; sul punto l’On.le Pietro Mancini, socialista, fece osservare che “il concetto di libertà è il concetto informatore di tutta la nostra Costituzione”.

Quel testo venne poi approvato dall’Assemblea Costituente senza nessuna modifica o integrazione.

La portata escatologica dei principi generali sanciti dal primo comma, trova un argine nel secondo comma del medesimo art.18, il quale nel testo vigente prescrive: “Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”.

Gli On.li La Pira e Basso proposero di vietare “le associazioni segrete a carattere militare” ma l’On.le Mancini fece osservare che costituire un’associazione segreta a carattere militare era già vietato dall’Ordinamento Penale e che sarebbe stato più opportuno attribuire alla norma un carattere politico e propose di integrare il lemma con “carattere militare fascista”. L’On.le Concetto Marchesi, accademico, socialista, catanese, si espresse in modo quasi vaticinante, rilevando che il fascismo tende a rispuntare sotto altre denominazioni e, pertanto, la formulazione proposta dal collega Mancini non sarebbe stata sufficiente allo scopo.

L’attuale formulazione la dobbiamo all’iniziativa dell’On.le Moro e dell’On.le Meucio Ruini, i quale ebbero la lungimiranza di evitare specifiche attribuzioni di carattere politico, che di fatto avrebbero limitato la portata generalista della norma.

L’altro limite, imposto dal secondo comma dell’art.18 della Costituzione è quello relativo alla proibizione delle associazioni segrete.

L’aggettivo “segreta”, privo di una precisa delineazione d’ambito, generò un vivace dibattito nella I sottocommissione; l’On.le Ugo Della Seta propose all’Assemblea un emendamento chiarificatore: segrete sono da considerarsi quelle associazioni che celano la propria sede, non compiono atti pubblici e celano i principi che professano.

Quell’emendamento non venne approvato ma trovò sostegno da parte dell’On.le Lucifero d’Aprigliano, il quale riconobbe che, senza quelle specificazioni, sarebbero stati possibili arbitrî successivi nell’interpretazione della norma costituzionale.

Termina qui l’analisi dell’art.18 e della sua genesi, utile a comprendere l’estrema sensibilità dei membri dell’Assemblea Costituente e dell’importanza centrale e baricentrica della libertà di associazione nell’impianto costituzionale.

Tale libertà, nella sua applicazione pratica, trova sostegno anche nell’art.3 della Costituzione, ove viene esposto il principio di non discriminazione.

La libertà di associarsi liberamente ed il diritto di non essere discriminati, trovano un’ulteriore affermazione negli artt. 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950, dai 12 stati al tempo membri del Consiglio d’Europa.

La Legge Regionale 18/2018 limita il diritto di associarsi liberamente e di non essere discriminati per avere legittimamente esercitato quel diritto sociale?

A parere degli On.li Catalfamo e Lo Curto e anche secondo il sottoscritto, tale limitazione sussiste drammaticamente.

Nella storia recente, l’appartenenza alla massoneria o, in termini giuridici, l’iscrizione ad una associazione massonica è stata oggetto d’attenzione di parecchie norme regionali:

  1. R. Friuli Venezia Giulia 15 febbraio 2000, n.1, che modifica ed integra la L.R. 23 giugno 1978, n.75;
  2. R. Marche 1 dicembre 2005, n.27;
  3. R. Marche 5 agosto 1996, n.34;
  4. R. Toscana 29 agosto 1983, n.68;
  5. R. Toscana 6 novembre 2012, n.61;
  6. R. Toscana 5 giugno 2017, n.26.

Due di queste sono state impugnate dal Grande Oriente d’Italia innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e, per entrambe le leggi delle regioni Friuli e Marche, la Corte Europea ha accolto il ricorso e condannato lo Stato Italiano, dichiarando le norme impugnate violative dei diritti di libertà di associazione e di non discriminazione.

La Corte, in casi come quelli, procede con il verificare se c’è stata un’ingerenza dello stato nel godimento del diritto in questione; se il vaglio è positivo successivamente valuta se detta ingerenza è giustificata o meno. Il giudizio sulla giustificabilità dell’ingerenza si basa sulla previsione di Legge, sulla finalità legittima di tale legge e sulla valutazione se quell’ingerenza sia necessaria in una società democratica. Questo tipo di giudizio mira all’accertamento del principio di proporzionalità.

Seguendo questo schema, sussistendo l’ingerenza (per un eventuale pregiudizio in termini di perdita di prestigio con conseguente aumento dello stigma sociale avverso la massoneria e, in termini pratici, con l’eventuale perdita di membri), la Corte valuta se ricorrono nel caso di specie i motivi giustificatori: 1) legalità; 2) fine legittimo; 3) necessità dell’intervento normativo in una società democratica.

Nei due casi sottoposto al vaglio della CEDU, la legalità è stata soddisfatta dalla natura di legge regionale; quanto al ricorrere di un fine legittimo, la Corte ha dato dignità all’interesse delle pubbliche autorità di «rassicurare l’opinione pubblica in una fase in cui era forte la questione sul ruolo dei massoni nella vita del paese», come ingerenza tendente alla protezione della sicurezza nazionale e della difesa dell’ordine pubblico.

Ma è il successivo vaglio – la necessità di tale ingerenza in una società democratica – che ha portato alla condanna dello stato italiano.

La Corte in quei due casi ha ritenuto che la libertà di associazione rivesta una tale importanza da non potere subire alcuna limitazione, sia pure per una persona candidata ad una carica pubblica, nella misura in cui l’interessato non commetta egli stesso, in ragione della sua appartenenza all’associazione, alcun atto irreprensibile. In conclusione, l’obbligo di dichiarare la propria appartenenza alla massoneria e soltanto alla massoneria, per la CEDU non appare “necessario in una società democratica” e risulta discriminatorio perché viola il principio di parità di trattamento tra le associazione massoniche e tutte le altre associazioni ammesse dall’Ordinamento, senza una ragionevole ed obiettiva giustificazione.

La Legge Regionale 18/2018, da un punto di vista tecnico è manchevole sotto molteplici aspetti. L’art. 1 che impone l’obbligo dichiarativo di appartenenza alla massoneria o ad associazioni similari contrasta con l’art.3 della Costituzione e costituisce una evidente discriminazione tra le associazioni massoniche e tutte le altre associazioni ammesse dall’Ordinamento, la partecipazione alle quali non dovrà essere dichiarata ai sensi di questa norma regionale.

Questa discriminazione, peraltro, era già stata evidenziata ai deputati dell’ARS, prima dell’approvazione della Legge, dal Servizio Studi dell’Ufficio per l’attività legislativa in materia istituzionale dell’Assemblea Regionale Siciliana, in un documento datato 3 ottobre 2018.

L’Art.2 della medesima Legge Regionale stabilisce che in caso di mancato deposito delle dichiarazioni di appartenenza alla massoneria, previste dall’art.1, il nominativo del soggetto che si è sottratto all’obbligo dichiarativo venga comunicato all’Assemblea Regionale ovvero al Consiglio comunale di appartenenza e che tali comunicazioni vengano pubblicate sul sito internet dell’ARS o del comune di riferimento.

A questo punto viene da chiedersi, se l’obiettivo della Legge Regionale 18/2018 dovesse essere quello di rendere trasparenti e conoscibili gli interessi anche culturali dei rappresentanti eletti del popolo, come mai la norma prevede solo la pubblicazione dei nominativi dei soggetti che si sono sottratti all’obbligo di dichiarare la propria appartenenza ovvero la non appartenenza alla massoneria? E non, piuttosto, la pubblicazione delle dichiarazioni positive di appartenenza rese dai deputati o consiglieri comunali eletti?

Le domande, invero legittime, non possono trovare risposta, giacché la Legge Regionale occulta la propria finalità, non vi è nessun articolo che specifica quale sia l’interesse pubblico superiore da tutelare, per giustificare un atto normativo tecnicamente discriminatorio.

Se decidessimo di vagliare la nostra legge regionale, alla luce dei criteri utilizzati dalla CEDU cioè 1) legalità; 2) fine legittimo; 3) necessità dell’intervento normativo in una società democratica, dovremmo tutti riconoscere che solo il primo vaglio sarebbe positivo, giacché lo strumento utilizzato è di rango legislativo ma il secondo criterio, quello del fine legittimo, non sarebbe valutabile, perché rimasto occulto nella lettera della Legge. È evidente, pertanto, che il giudizio finale comporterebbe una sicura censura della Legge, perché discrimina dei cittadini e non consente loro di esercitare il diritto di associarsi liberamente, senza nemmeno specificare qual è l’interesse che la legge mira a tutelare.

Consapevoli di tutto questo, gli On.li Antonio Catalfamo ed Eleonora Lo Curto si sono opposti strenuamente all’approvazione della Legge e hanno dichiarato che la impugneranno avanti al Tribunale competente, non appena sarà loro consentito, al fine di sollevare la questione di legittimità costituzionale.

Noi, dal canto nostro, possiamo dire che il più antico parlamento d’Europa ha dato pessima testimonianza di sé ma fin quando vi saranno donne e uomini liberi, nelle istituzioni e nella società, pronti a difendere i più alti principi della nostra Costituzione, la fiaccola della libertà splenderà sempre e la luce della speranza rimarrà accesa nella nostra coscienza.

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