L’economia circolare all’italiana. Per quadrare il cerchio manca almeno un lato

Trascorsi quasi quarant’anni dalle prime timide applicazioni ai sistemi produttivi, e dopo svariate direttive europee, di cui le ultime quattro entreranno in vigore a luglio, possiamo permetterci alcune considerazioni sull’economia circolare in Italia, per analizzare con maggior concretezza i cambiamenti più evidenti che riguardano le nostre abitudini quotidiane.

L’economia, a partire da quella domestica,  può migliorare notevolmente la propria performance ambientale se si rendono più efficaci ed efficienti le azioni inerenti al fine vita delle cose, al recupero di energia e alla normativa sul riutilizzo dei prodotti derivanti dal ciclo dei rifiuti. L’ambiente non è solo un tema etico e morale ma è anche un importante tema economico.

I sacchetti bio per la spesa, in realtà, spesso non sono neppure monouso mentre, paradossalmente, i vecchi sacchetti non biodegradabili si impiegavano molte volte fino all’utilizzo ultimo come contenitore per i rifiuti. Inoltre, la materia prima di cui sono fatti può essere plastica biodegradabile ma non biocompostabile, di conseguenza non smaltibile con l’umido. Può cioè derivare dal petrolio, come il PBS (polibutilensuccinato), e non essere prodotta a partire dalle biomasse.

Il termine biodegradabile di per sé non individua un tempo stabilito, entro cui quel sacchetto, disperso nell’ambiente, viene completamente degradato dai batteri presenti nelle acque o nel terreno. Esistono infatti molte variabili, come la temperatura, l’umidità o la presenza o meno di microrganismi, che ne contribuiscono alla maggiore o minore persistenza nell’ambiente, che può protrarsi anche per vari mesi. La biodegradabilità, poi,  rischia di diventare l’alibi per gestire con leggerezza i rifiuti prodotti: la condotta migliore rimane sempre quella di utilizzare gli appositi raccoglitori per la raccolta differenziata, qualunque sia la natura dell’oggetto di cui vogliamo disfarci. Anche una comunicazione semplice e puntuale, finalizzata ad informare i cittadini dell’impatto potenziale delle loro azioni, contribuisce alla riduzione dell’impatto ambientale delle più semplici attività umane. Diventa essenziale, a maggior ragione, puntare sullo sviluppo tecnologico, che è lo strumento più efficace per la salvaguardia dell’ecosistema, per avere prodotti che siano biodegradabili, meglio se anche biocompostabili, e con un fine vita quanto più esteso possibile.

Se prendiamo come esempio di riciclo quello delle materie plastiche, bisogna tener presente che ogni passaggio comporta una riduzione della quantità di materia riutilizzabile.  In aggiunta, non è possibile ottenere un prodotto con una qualità o caratteristiche identiche a quello da cui deriva. Il destino degli scarti inutilizzabili della plastica può seguire solo due strade: conferimento in discarica o termovalorizzazione. La prima soluzione presenta almeno tre criticità evidenti: non si recupera nulla, c’è un impatto ambientale importante anche a livello paesaggistico ed infine, parafrasando la nota pubblicità, “una discarica è per sempre”.

L’impianto di termovalorizzazione, realizzato applicando le migliori tecnologie disponibili e gestito a norma di legge, permette il recupero di energia e, quindi, il risparmio di risorse naturali. È comunque possibile farne a meno e dismetterlo nel caso in cui le condizioni di mercato, o le scelte politiche, dovessero cambiare. Fermo restando che è sempre preferibile ed ecologicamente corretto gestire i rifiuti laddove vengono prodotti, il numero dei termovalorizzatori non può essere legato a parametri meramente territoriali.  Gli impianti per essere economicamente sostenibili in condizioni di libero mercato, devono trattare una adeguata massa critica di rifiuti che ne garantiscano la regolare operatività, senza bisogno né di incentivi statali, pagati da tutti i contribuenti, né di dover ricorrere a pratiche ai limiti della legalità per garantirne un adeguato ritorno economico. Dal punto di vista strettamente ambientale, è sempre meglio ridurre i punti di emissione in atmosfera, per avere controlli più efficaci e facilmente pianificabili.

Avere troppi impianti, o avere impianti sovradimensionati rispetto alle effettive esigenze del territorio, è un problema ambientale speculare a quello di non avere alcun impianto.

I rifiuti speciali prodotti in Italia, ovvero quelli di origine industriale, sono oltre quattro volte superiori a quelli urbani. Secondo l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), l’Italia – con il suo 75% di rifiuti speciali riciclati – è al secondo posto in Europa (la media Ue è pari a circa il 46%).

Alcuni dei Paesi europei più virtuosi, sottolinea il rapporto del 2018, sono prossimi a raggiungere l’obiettivo di azzerare il conferimento in discarica (0,6% in Svezia, 1% in Belgio, 1,3% in Danimarca, 1,4% in Germania e in Olanda) con una percentuale di rifiuti destinati alla termovalorizzazione di circa il 50%.

Nel Rapporto sull’Economia Circolare in Italia del 2019 del Circular Economy Network e di ENEA, è riportato il bilancio tra l’export e l’import del materiale riciclato nel nostro Paese, che vede un saldo negativo di 700.000 tonnellate. Importiamo più materiale riciclato di quanto ne esportiamo. Questo numero ci consente di fare due considerazioni di segno opposto. Da un lato abbiamo un sistema produttivo che riesce ad utilizzare il materiale riciclato e ne sostiene la domanda; dall’altro, il nostro Paese non riesce a soddisfare la domanda interna di materiale riciclato, poiché conferiamo quasi un quarto dei nostri rifiuti in discarica, a differenza dei Paesi da cui lo importiamo che hanno valori dei conferimenti prossimi allo zero.

L’importazione di una notevole quantità di materiale riciclato rende ancora più urgente un aggiornamento della legislazione per l’uscita dei rifiuti dalla normativa di settore, il cosiddetto “end of waste”. In Italia il D.M. 5 febbraio del 1998 che regola il recupero e il riciclo dei rifiuti e che istituisce le Materie Prime Seconde (MPS), sopravvissuto alle modifiche del 2006 richieste dalla Commissione Europea, dimostra la necessità di un adeguamento al mutato scenario economico,  per garantire un maggiore sviluppo dell’economia circolare, recependo la nuova Normativa europea sui rifiuti n.851/2018 che regola la materia in modo più razionale, con l’auspicabile devoluzione alle regioni, sotto il controllo del Ministero dell’Ambiente, delle autorizzazioni all’esercizio degli impianti per l’end of waste.

L’Italia è tra i Paesi più virtuosi per quantità di rifiuti riciclati ma restiamo carenti dal punto di vista impiantistico, perfino di quegli impianti necessari al trattamento delle frazioni differenziate.

Quando gli impianti della filiera non sono sufficienti, ritroveremo i rifiuti sparsi nell’ambiente, ad alimentare quei roghi dolosi utilizzati a volte come uno strumento per forzare l’adozione di politiche ambientali emergenziali che si rivelano quasi sempre inefficaci, perché puntano a tamponare gli effetti lasciando inalterate le cause del problema.

 

 

 

 

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