Legalizzare è una questione (anche) di diritto. La mia risposta a Bonetti

Io sono per la depenalizzazione di tutte le droghe. Se questo fa di me un libertario e non un liberale, pazienza. Non sono particolarmente attaccato alle etichette.

Ma l’idea che un vero liberale debba essere a favore del proibizionismo è curiosa, specie quando il liberale in questione si richiama alla dottrina del liberalismo classico di John Stuart Mill.

È questo il caso di Paolo Bonetti, che conclude il suo articolo a favore del proibizionismo con queste parole accondiscendenti: “Dispiace dirlo, perché i libertari sono spesso umanamente simpatici, ma l’etica libertaria è soltanto la scimmia di quella liberale.”

 

Bene, vediamo allora qual era l’opinione del liberale classico Mill sul proibizionismo.

Mill ne parla nel suo saggio classico On Liberty che, sono sicuro, Bonetti conosce bene. A un certo punto, Mill si occupa di un movimento politico chiamato “Alleanza”, il cui scopo era quello di vietare la vendita e il consumo di alcolici nell’Inghilterra dell’epoca (On Liberty è del 1859).

Lord Stanley, portavoce dell’Alleanza, difendeva con queste parole le ragioni del proibizionismo: “Come cittadino, rivendico il diritto di legiferare ovunque i miei diritti vengano lesi dalle azioni sociali degli altri […]. Se c’è qualcosa che lede i miei diritti sociali, di sicuro è il traffico di bevande alcoliche.

Distrugge il mio diritto fondamentale alla sicurezza, creando e stimolando continuamente il disordine sociale. Viola il mio diritto all’uguaglianza, perché trae profitto dalla creazione di una miseria che poi mi viene accollata con le tasse. Impedisce il mio diritto a un libero sviluppo morale e intellettuale, disseminando pericoli sulla mia strada, indebolendo e demoralizzando la società, dalla quale ho il diritto di aspettarmi aiuto reciproco e reciproca collaborazione.” (in Mill, 1859, p. 189)

Fin qui Lord Stanley.

Vediamo adesso cosa pensa Mill di questa caratterizzazione dei “diritti sociali”: “Probabilmente questa teoria dei «diritti sociali» non era mai stata formulata in termini così chiari; essenzialmente essa si riduce a questo: è diritto sociale assoluto di ogni individuo che ogni altro individuo agisca, in tutto e per tutto, esattamente come dovrebbe; e chiunque non lo faccia, anche nel più piccolo dettaglio, viola il mio diritto sociale e mi autorizza a pretendere dalla legge la rimozione del torto.

Un principio così mostruoso è di gran lunga più temibile di qualsiasi singolo caso di interferenza nella libertà: non c’è violazione di libertà che non riesca a giustificare; non riconosce alcun diritto a nessun tipo di libertà, salvo forse quella di avere delle opinioni di nascosto, senza mai esprimerle: perché nel momento stesso che alle labbra di qualcuno affiora un’opinione a mio parere nociva, costui viola tutti i «diritti sociali» che l’Alleanza mi assegna.” (Mill, 1859, pp. 189-190)

Torniamo adesso all’articolo di Bonetti. Egli afferma di non essere persuaso dalla tesi di Mill per cui possiamo fare tutto ciò che ci pare del nostro corpo, a condizione che non danneggiamo gli altri.

Secondo lui, infatti: “Ogni nostra azione e ogni nostro pensiero appena manifestato, incide sulla vita degli altri e la ferisce. Non ci sono manifestazioni del nostro io moralmente neutre, perché la vita di ogni uomo si intreccia a quella di ogni altro, e l’individuo isolato è una pura astrazione.”

L’argomento di Bonetti ha tutta l’aria di essere una reductio ad absurdum della tesi di Mill. Ridotto all’osso suona così:

(1) Secondo Mill è giusto vietare quelle azioni che danneggiano gli altri;

(2) ma ogni nostra azione o pensiero danneggiano (o possono danneggiare) gli altri, quindi

(3) Mill dovrebbe voler vietare ogni azione o pensiero.

Il problema, qui, è che Bonetti tratta il principio del danno di Mill come se avesse valore incondizionato. Ma Mill non è Kant. Il principio del danno è vincolato da una soglia, cioè vale a partire da un certo punto in poi.

Mi spiego.

Supponiamo che io faccia un discorso a favore della legalizzazione delle droghe e che Bonetti abbia un famigliare, al quale è molto legato, il quale è caduto nel tunnel della droga. Il mio discorso potrebbe urtare la sua sensibilità e farlo star male.

Possiamo dire allora che il mio discorso gli ha arrecato un qualche tipo di danno psicologico? Certamente, se prendiamo la nozione di “danno” nella sua accezione più ampia possibile. Ma il punto non è questo.

Il punto è: il fatto che io abbia offeso i suoi sentimenti è una ragione sufficiente per impedirmi di fare il mio discorso? L’entità del danno che gli ho arrecato giustifica l’uso della forza nei miei confronti?

Ora, non conosco nessun liberale che risponderebbe “sì” a questa domanda. Tanto meno Mill, per il quale la libertà di espressione va tutelata anche a scapito delle delle anime belle. Il principio del danno, quindi, non si applica sempre, non ha valore incondizionato, ma vale a partire da una certa soglia. E questa soglia è il danno fisico che un individuo può arrecare a un altro contro la sua volontà.

Per Mill io sono libero di fare il mio discorso a Bonetti, quello che non sono libero di fare è costringerlo ad ascoltarlo. Né posso percuoterlo, tenerlo prigioniero o violare la sua libertà.

In conclusione, la teoria liberale non è una forma di assolutismo morale, ma una forma di contributivismo, nell’accezione di William D. Ross (Cfr. Ross, 1930). Secondo questa interpretazione, le norme morali vanno interpretate come se avessero una sorta di peso specifico.

Ciascuna norma ha un proprio peso specifico. Quando abbiamo una situazione in cui due norme confliggono tra loro, noi dobbiamo confrontare il peso specifico di ciascuna norma, come faremmo con due pesi sul piatto di una bilancia, e vedere da quale parte pende l’ago.

Ad esempio, secondo l’interpretazione contributiva, la regola: “Non mentire” va interpretata come se dicesse: “Mentire è un wrong-making factor, cioè un fattore che contribuisce a rendere sbagliata un’azione, ma che lascia aperta la possibilità che l’azione nel suo complesso sia giusta”.

Così, se un’azione non contiene solo il fattore della menzogna, ma anche quello di salvare una persona, allora il fattore della menzogna è soverchiato dal fattore per cui salvare una vita è più importante. Nel complesso l’azione è giusta, a dispetto del fatto che viola la regola pro tanto contro la menzogna.

Andiamo avanti.

Bonetti è contrario, dicevamo, alla legalizzazione delle droghe. Riconosce però che: “Il problema della droga […], non si risolve con la prigione, ma neppure con la legalizzazione. Come nel caso paradigmatico dell’alcolismo, il semplice proibizionismo sperimentato in alcuni paesi non ha risolto il problema, ma neppure l’ha risolto la liberalizzazione.”

Qui siamo di fronte alla fallacia dell’uomo di paglia. Perché io non ho mai sostenuto che la legalizzazione farebbe sparire il problema della droga nel senso che la gente smetterebbe di drogarsi. Lo risolverebbe nel senso che si farebbe della droga un problema medico e non più un problema giudiziario.

Se drogarsi non è un crimine, ma un problema medico, allora arrestare un tossico per detenzione di stupefacenti significa arrestare un innocente, violare un suo diritto.

Per Bonetti, però: “Drogarsi e ubriacarsi non è un diritto, è semplicemente un comportamento moralmente e socialmente riprovevole, verso cui è inutile fare del moralismo predicatorio, ma che non va incoraggiato con una indulgenza che attenua nei ragazzi il senso della responsabilità.”

Qui sarei curioso di sapere cosa intende Bonetti per “diritto”. Per quel che mi riguarda, io mi attengo alla nozione classica per la quale un diritto è un nihil obstat morale. Thomas Hobbes ne dà una caratterizzazione perfetta, in questo passo:

“il DIRITTO consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la LEGGE determina e vincola a una delle due cose; cosicché la legge e il diritto differiscono come l’obbligo e la libertà che sono incompatibili in una sola e medesima materia.” (Hobbes, 1651, p. 134)

Che cosa vuol dire la parola “diritto” in questo contesto? Vuol dire che sono libero di compiere una certa azione. E cosa vuol dire “essere liberi”? Vuol dire che l’azione in questione non è vincolata ad alcuna norma o prescrizione morale. Se lo fosse, non sarei libero fare quell’azione, ma avrei piuttosto l’obbligo o il dovere morale di farla, oppure di non farla. Dove c’è un diritto c’è, dunque, una libertà, e dove c’è una libertà non ci sono leggi morali.

C’è un secondo punto che è importante evidenziare. Se avere un diritto significa essere liberi di fare (o di non fare) una certa cosa, chiunque mi costringa a farla (o a non farla) sta violando la mia libertà.

Se ad esempio ho il diritto di farmi un tatuaggio, chiunque mi costringa a farmelo (o a non farmelo) sta violando un mio diritto. Quindi: laddove esiste un diritto per l’individuo x, esiste anche un corrispondente dovere da parte degli altri individui di non interferire con quel diritto.

La mia affermazione di poco fa, per cui dove c’è un diritto non c’è una norma morale va precisata in questo modo: dove c’è un diritto per me, vi è una corrispondente norma morale per gli altri, la norma che prescrive loro di rispettare il mio diritto.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

HOBBES, THOMAS (1651), Leviathan or The Matter, Form and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil. Tr. it. Leviatano, Rizzoli, Milano 2016.

MILL, JOHN STUART (1859), On Liberty. Tr. it. La libertà in La libertà, L’utilitarismo, L’asservimento delle donne, BUR, Milano 2013.

ROSS, WILLIAM D. (1930), The Right and the Good, Clarendon Press, Oxford.

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