L’impervio cammino per poter dire “io”

L’uomo è per sua natura un essere sociale. Egli, per dirla con A. Smith, è destinato a “sussistere solo in società”. Come mostrato da K.R. Popper, pare inverosimile ritenere che esista un’entità soggettiva, l’“io”, distaccata e anteriore all’esperienza. In altre parole, per dirla con le parole dello stesso epistemologo, “non nasciamo come io, ma […] dobbiamo imparare a essere degli io”.

La nostra soggettività viene sviluppata, dunque, solamente a partire dalle relazioni che instauriamo, intenzionalmente ed inintenzionalmente, con gli altri. L’individuo, così, entrando in contatto con altri soggetti, genitori in primis, e reagendo agli stimoli che gli pervengono dall’esterno si avvia verso il lungo e impegnativo percorso che lo condurrà alla conoscenza di se stesso e alla formazione della sua ineffabile unicità.

Non è, quindi, pensabile che un individuo sia veramente tale, se non si mescola agli altri individui, se non pensa tra altri soggetti pensanti, se non agisce in mezzo ad altri agenti. L’“io”, potremmo dire, non è altro che il prodotto, soprattutto inintenzionale e inconsapevole, delle varie esperienze che un soggetto conduce durante la sua vita. J. Habermas sostiene che “l’io si può bensì intendere come una costruzione sociale”, ma tale affermazione sembra trascurare l’inintenzioanlità, l’inconsapevolezza e la casualità nella formazione del soggetto. Alla base di tale convinzione si può forse intravedere quello che rispettivamente F.A. von Hayek ha chiamato “scientismo” o “razionalismo costruttivista”, e Popper ha denominato “razionalismo ingenuo”, ovvero l’idea che qualsiasi cosa di questo mondo sia il frutto di un piano deliberato, di un’azione cosciente, di un pensiero consapevole.

Le conseguenze di una siffatta credenza sono oltremodo funeste, in quanto non si ammette che vi sia qualcosa che sfugge a una qualsivoglia direzione razionalmente pensata. L’“io”, in tal modo, sarebbe l’esito di una o più decisioni prese a monte, stabilite in precedenza, ma questo risulta inaccettabile.

Chi può stabilire in toto chi sarà in futuro?

La realtà è troppo complessa e articolata per essere imbrigliata in un riduzionismo così miope. Alla luce di tutto ciò, non si può che concordare con Hayek e rifiutare “la convinzione che l’individualismo postuli (o basi i suoi argomenti sull’ipotesi del) l’esistenza di individui isolati o indipendenti”. Al contrario, non si può che “partire da uomini la cui natura e carattere vengano complessivamente determinati dalla loro esistenza nella società”. Ovvero, considerare l’ “io” come esito non programmato e non programmabile, frutto delle innumerevoli esperienze fatte con altri esseri a noi simili. Parimenti, non si può nemmeno prostrarsi di fronte alla diversità, ovvero rinnegare il proprio passato e calpestare il proprio presente.

A tal proposito, Sergio Belardinelli (“Il Foglio”, 17 gennaio) ha messo in luce come sempre più l’uomo (fondamentalmente occidentale) sia incapace di vivere da “animale sociale”, non si più in grado di percepirsi e considerarsi come “un animale relazionale”, e si comporti, invece, come “una monade autoreferenziale”. Ma, continua, l’uomo “ha bisogno degli altri per diventare ciò che è”.

Perché questo smarrimento?

Come aveva già espresso nel recente passato (L’altro Illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica della verità, Rubbettino, 2009), è in crisi l’idea di uomo in sé, cioè a dire che, se l’individuo occidentale si è smarrito e non riesce più a (ri)trovare la strada, è perché ha tagliato i ponti con la sua storia e rinnega il pensiero filosofico che lo ha reso unico e irripetibile. In nome di una insipiente e stolida apertura incondizionata verso le altre culture, egli ha perso di vista la sua essenza, la sua intrinseca e consustanziale identità.

Ed è pacifico che, se non si vuole perdere “la capacità di relazionarsi continuamente con ciò che è altro”, bisogna ripartire dalla “consapevolezza di ciò che si è”. Non è distruggendo ed eliminando i propri riferimenti culturali, religiosi e storici che si può riaffermare la propria identità. Un sistema educativo (e informativo) che china il capo davanti al multiculturalismo politicamente corretto non va di certo incontro a un futuro roseo e promettente. Sarebbe allora il caso di ripartire dai fondamentali, avendo ben chiaro il passato per meglio comprendere il presente, affrontare il futuro e confrontarsi con ciò che è diverso. Tenendo a mente che l’idea antropologica di uomo “europeo” non è amorfa e anodina, bensì caratterizzata dalla convinzione dell’endemica ineffabilità e dignitosa unicità di ciascuno di noi. E che, appunto, la nostra naturale diseguaglianza non è un prodotto deliberatamente costruito, ma l’esito di esperienze che sfuggono (quasi totalmente) al nostro controllo.

La società aperta dimostra la sua superiorità rispetto a una società chiusa proprio perché si fonda sulla tolleranza e sulla possibilità data a ciascuno di dispiegare liberamente la propria personalità, realizzare i propri piani e raggiungere, ciascuno a suo modo, la propria felicità. Senza ovviamente urtare con le sfere individuali altrui. Come ebbe a dire A. Ferguson, infatti, “la libertà non è, come l’origine del termine può forse suggerire, una mancanza di qualsiasi restrizione, ma piuttosto la più efficace applicazione di ogni giusta restrizione a tutti i membri di uno stato libero, siano essi governanti o sudditi. È soltanto in presenza di giuste restrizioni che ogni persona è sicura, e non può essere violata la sua libertà, nella proprietà o nelle azioni che non provochino danno agli altri”. E, ancora, riprendendo Hayek, “buoni steccati fanno buoni vicini”.

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