Madame de Staël, genio e libertà

Figlia d’arte, Anne-Louise Germaine Necker baronessa di Staël-Holstein (Parigi, 1766-1817) visse in un ambiente culturale che dire straordinario è poco. Sua madre, Suzanne Curchod, teneva un salotto frequentato da scienziati, storici, letterati e filosofi come Buffon, Marmontel, Edward Gibbon, l’abate Raynal, François de la Harpe. Il padre Jacques, banchiere, economista e uomo di Stato, scriveva libri sull’amministrazione delle finanze, sul potere esecutivo nei grandi stati, sulla rivoluzione francese. Dio, il padre e la libertà furono i grandi amori di Germaine, la più eminente personalità femminile della sua epoca, considerata, negli ultimi anni dell’impero napoleonico, una delle tre grandi potenze europee, assieme all’Inghilterra e alla Russia.

Una sensibilità romantica e una passione inesausta per la libertà le procurarono molti nemici a destra e a sinistra. Invisa ai tradizionalisti, nostalgici dell’Ancien Régime, non lo era meno ai democratici giacobini, i cui metodi di governo calpestavano le forme della convivenza civile. Per questo dovette lasciare Parigi nel periodo del Terrore facendovi ritorno solo per qualche tempo dopo Termidoro e dopo l’ascesa politica di Napoleone, di cui fu critica implacabile. Lontana dalla capitale francese, tuttavia, nella residenza svizzera di Coppet riaprì il suo salotto letterario di Rue du Bac, dove si sarebbero incontrati i più alti ingegni della repubblica europea delle lettere, da Goethe a Schiller, da Schlegel a Constant, da Sismondi a Chateaubriand. È non poco significativo che nei suoi viaggi a Vienna, in Russia, in Svezia, in Inghilterra sia stata ricevuta con tutti gli onori riservati a un capo di Stato, a conferma di un prestigio che portò J. Christopher Herold a intitolare la biografia a lei dedicata Mistress to an Age (Amante di un secolo).

Madame de Staël, scrive Francesco Perfetti nella magistrale Prefazione alle Considerazioni sui principali avvenimenti della Rivoluzione francese riproposte ora dall’editore Aragno, era «l’incarnazione del principio della lotta contro il dispotismo, e, al tempo stesso, la bandiera di una coscienza culturale e politica dell’Europa. E lei stessa divenne non soltanto il riconosciuto alfiere del Romanticismo ma anche una specie di ideale ambasciatrice dello spirito europeo, di un’Europa che avrebbe finito per coniugare l’amore per la libertà con la scoperta o riscoperta dei valori nazionali e diventare protagonista di quella rivoluzione delle nazionalità che avrebbe interessato tutto il continente».

Madame de Staël è nota, soprattutto, per aver fatto conoscere all’Europa il romanticismo tedesco, con il libro De l’Allemagne (1810), ma come storica e teorica la sua figura appare come appiattita su quella del suo amante Benjamin Constant, il principe del liberalismo francese del primo Ottocento, erede di Montesquieu. E tuttavia leggendo le sue opere vien quasi da credere a quanto scrive la sua biografa, Lady Blennerhassett – sulla testimonianza di un ospite di Coppet, Charles-Julien Lioult de Chênedollé – che Constant non riusciva a tenerle testa se non nei suoi momenti migliori e che comunque riceveva da lei più di quanto le restituisse.

In effetti le Considerazioni ci consegnano un altissimo ingegno al quale, purtroppo, raramente è stata riservata una nicchia adeguata nella storia del liberalismo europeo. Molte sono le intuizioni geniali che vi si ritrovano, a partire dalla tesi che la Rivoluzione francese non fu un drammatico evento fortuito, bensì il risultato di secoli di dispotismo, di privilegi ingiustificati, di compressione dei diritti e delle libertà degli individui. «Quel re – scriveva di Luigi XIV – che ha pensato che le proprietà dei suoi sudditi gli appartenevano, e che si è permesso tutti i generi di atti arbitrari, non poté mai concepire che cosa fosse una nazione». Il legame tra il dispotismo dell’antico regime, il terrore giacobino e la dittatura napoleonica – sostanzialmente «la tesi della continuità centralistica della storia di Francia attraverso la rivoluzione» – sarà il tema centrale del Tocqueville de L’antico regime e la Rivoluzione, ma è la de Staël a metterlo a fuoco per prima.

Un aforisma particolarmente illuminante rivela tutta la sua profondità di pensiero: «il n’y a de vraiment détruit que ce qui est remplacé»: «si chiude davvero una fase quando se ne apre un’altra»; abbattere un regime senza sostituirlo con uno diverso significa perpetuare i mali del primo, cambiando solo le classi politiche e le retoriche ideologiche: le leggi della Convenzione contro gli emigrati hanno lo stesso carattere delle ordinanze emanate dopo la revoca dell’editto di Nantes nel 1685.

Voltare pagina davvero, per la de Staël, significava instaurare un autentico pluralismo nella società civile come nelle istituzioni, prendendo esempio dal costituzionalismo inglese e dalla saggezza americana (la de Staël guardò sempre con ammirazione a Washington ed ebbe cara l’amicizia di Thomas Jefferson), avere coscienza dei «tre poteri» che «sono nell’essenza delle cose, la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia» ed «esistono in tutti i governi, come l’azione, la conservazione e il rinnovamento nel processo della natura». Ne derivava la necessità di una grande riconciliazione tra la Francia di Giovanna d’Arco e la Francia della Presa della Bastiglia. «Il bene – pensava – non si può operare in Francia se non per la sincera riunione dei realisti dell’antico regime con i realisti costituzionali».

Diffidente nei confronti del republicanism, dell’apologia delle virtù antiche e di una libertà garantita solo dalle lotte tra le fazioni (vedi il Machiavelli dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio), la de Staël rilevava, nell’opera termidoriana Sulle circostanze attuali che possono terminare la Rivoluzione, che «la maggioranza della specie umana ha bisogno di riposo per praticare la virtù» e che tutto è perduto «quando si altera l’equilibrio che la natura ha fissato tra il sacrificio e il godimento, tra il timore e la speranza».

 

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