Servirebbe il “buono scuola”

La scuola italiana va cambiata: è una delle cause del declino italiano. È necessario lasciare libertà alle famiglie nella scelta della scuola (statale, paritaria, cattolica, privata, internazionale ecc.) consegnando loro un buono-spesa prestabilito (tecnicamente “costo standard di sostenibilità per allievo”.) da spendere per ogni studente nella scuola prescelta.

In questo modo si creerebbe una sana competizione tra scuole e la valutazione degli insegnanti secondo criteri meritocratici selezionando i migliori nel rispetto di regole prestabilite.

Lo Stato dichiara di spendere 8mila euro a studente ma in realtà il costo effettivo in alcuni gradi di insegnamento è molto più basso: un bambino che frequenta la scuola dell’ infanzia costa 3.200 euro (4.573 euro famiglie disagiate). Si possono risparmiare 17 miliardi con l’introduzione dei costi standard.

Gli insegnanti della scuola italiana sono troppi, un insegnante ogni 12 studenti: in Europa c’è un insegnante ogni 15 studenti. Gli insegnanti sono pagati poco perché sono troppi: la voce che pesa di più nel bilancio della scuola, utilizzata come postificio, ufficio di collocamento, ammortizzatore sociale, è quella del personale. La soluzione è limitare l’accesso alla professione attraverso una maggiore selezione.

A che cosa servono altri docenti se il tasso di natalità è in calo? In Italia la scuola è creata per soddisfare le esigenze degli insegnanti che vogliono essere assunti e pagati ma non vogliono essere valutati, non vogliono essere sottoposti a criteri meritocratici, anno dopo anno. Ma quello dell’insegnante non è un posto a vita.

Dalla pagella stilata dall’Ocse sul livello dei 15enni italiani emerge che sono il fanalino di coda della classifica dei Paesi europei (Estonia e Finlandia si trovano in testa) ma soprattutto sono lontani anni luce dagli studenti dei Paesi asiatici come Singapore o Giappone. La scarsa preparazione degli studenti italiani è emersa ripetutamente da varie indagini tra le quali PISA-Ocse (Programme for International Student Assessment). Nonostante i dati abbiano messo in luce gravi lacune degli studenti italiani al termine del percorso dell’obbligo scolastico, ci si è invece concentrati sulle critiche al metodo di analisi, per non ammettere lo stato oggettivo dell’istruzione italiana.

È necessaria una certificazione a livello nazionale, con standard comuni di riferimento, i cui risultati debbano essere resi pubblici e accessibili agli studenti “clienti” delle diverse scuole. In questo modo genitori e studenti, che già in questi ultimi anni hanno assunto un inconsapevole comportamento valutativo, interrogandosi sulla “produttività culturale” di ogni singolo istituto, avrebbero la possibilità di attingere ad un sistema informativo in grado di raccogliere, di ordinare e di documentare tutte le informazioni sugli esiti qualitativi del sistema di istruzione.

I dirigenti scolastici prenderebbero coscienza del fatto che essere al top della graduatoria significa attrarre più studenti e quindi contributi aggiuntivi per la formazione e la didattica. Si verrebbe a creare in questo modo un circolo virtuoso e il sistema potrebbe divenire competitivo e quindi efficiente.
I processi di valutazione devono coinvolgere, oltre agli istituti e agli studenti, anche gli altri attori coinvolti, cioè gli insegnanti. Questi ultimi dovrebbero essere retribuiti non automaticamente e acriticamente in base all’anzianità di servizio, bensì in base al merito.

Ogni scuola in autonomia dovrebbe stabilire la retribuzione in base ad una valutazione, a cui partecipino anche gli studenti, effettuata sulla base della attività svolta e dei risultati raggiunti: con una procedura partecipativa che non serva però a trasformare la valutazione in una sorta di seduta di “autocoscienza didattica” – secondo le logiche che guidano un certo pedagogismo fine a sé stesso – ma ad aiutare tutti a comprendere e a condividere i problemi del loro lavoro comune.

 

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