Società di massa e abbrutimento individuale

«Se ripenso a me, mi faccio orrore da solo». Così esordisce Mattia Feltri nel suo pezzo – “Le vacanze deficienti” – del 23 agosto su “La Stampa”. Il giornalista, penna felice, mordace e mai banale, non di rado riesce a strappare un sorriso anche quando la reazione più corretta sarebbe semplicemente mettersi le mani nei capelli, e per l’ignoranza che dimostriamo e per la spocchia con cui ce ne vantiamo. Raccontando di una sua vacanza in Portogallo, dipinge in maniera esemplare un tipico individuo massificato che, grazie alla tanto bistrattata società aperta e a quel mostro luciferino che è il capitalismo, visita la Torre di Belém a Lisbona e si trova a non sapere che la scala a chiocciola è regolata da semafori e percorribile, dunque, a orde turistiche alterne: o in discesa o in salita. Violando le regole di viabilità, ripreso, caso vuole, da un gruppo di integerrimi tedeschi e ragguagliato da un altro turista italiano, il nostro incontra un gruppo di romani che, però, dopo essere stati biasimati dal nostro, non hanno alcun problema a rispondere che loro le regole non le rispettano nemmeno in Italia. Apparentemente insignificante, l’episodio fa riflettere Feltri sulle straordinarie possibilità che il mondo contemporaneo ci serve, ma che, al contempo, senza una decente umiltà individuale e un’adeguata capacità di andare oltre la massificazione generale, ci abbrutiscono.

Qui non si vuole assolutamente criticare il capitalismo o, se si preferisce, l’economia di mercato, sia chiaro. Esso, infatti, ha consentito un prodigioso miglioramento delle condizioni sociali delle masse, checché ne dicano marxisti, fautori della decrescita felice e simili. Con le parole di Mises, esso è «produzione di massa per soddisfare i bisogni delle masse» e permette oggi di godere di beni e servizi che un tempo erano inimmaginabili, poi sono divenuti fruibili da una sparuta minoranza di persone oltremodo abbienti e, infine, per l’appunto sono diventati beni e servizi di massa. Si vuole, al contrario, mettere in luce come, di pari passo col sistema economico capitalistico sia necessaria una reazione individuale e interiore che ci scampi dalla massificazione universale e impedisca di renderci, per dirla con Röpke, un anonimo «mucchio di sabbia, della quale i granelli sono rappresentati da individui più che mai asserviti, impersonali, isolati, abbandonati e socialmente disintegrati». Questa è, ahimè, il destino di una società che, anziché incentivare la diversità, elogiare il pluralismo, perno della prosperità e della civiltà occidentale, promuove l’eguaglianza, si fa piatta e ci fa regredire.

L’ “uomo massa”, ci dice efficacemente il giornalista, «dà un’occhiata a tutto e non vede niente», quando gira il mondo «esporta sé invece di importare sapienza». In altre parole, l’ebbrezza di poter viaggiare a poco, visitare anche il paese più remoto e i monumenti più spettacolari, ci ha illuso che automaticamente questo ci rendesse individui migliori e più colti. Nulla di più sbagliato.

Non è la possibilità di fare ciò che un tempo era un’attività tipicamente aristocratica che ci eleva; non è che la democrazia, con l’inclusione sociale e politica delle masse, ci rende individui più dignitosi. Spetta piuttosto a noi, individualmente, evitare l’abbrutimento conformistico verso cui le nazioni democratiche, come osservava Tocqueville, sono spinte mediante il materialismo sfrenato e il desiderio di totale eguaglianza. Questi, infatti, caratterizzano lo spirito democratico. Esso, come in un circolo vizioso, contemporaneamente brama una sempre maggior eguaglianza e coltiva tale famelica smania.

Gli anticorpi e gli argini alla degenerazione democratico-materialistica vanno trovati interiormente, nella consapevolezza dell’importanza della diversità, della tradizione e del passato, dello spirito comunitario e di ciò che va «al di là dell’offerta e della domanda». Ancora con Röpke, «l’uomo deve anzitutto esistere come essere etico-spirituale». «Se gli uomini giungessero a contentarsi solo dei beni materiali», ammonisce Tocqueville, «c’è da credere ch’essi perderebbero a poco a poco l’arte di produrli e finirebbero per goderne come brutti senza discernimento e senza progresso». Per non perdere la strada della civiltà, per non dover più rabbrividire al nostro progressivo abbrutimento – ammesso che ne siamo consapevoli – e per non tornare cavernicoli, direi che tocca ascoltare chi, come il tedesco e il francese, ci ha visto lungo.

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