Caso Al Masri

C’è da chiedersi il perché il caso Osama al-Masri riesploda proprio adesso, in clima referendario, e, soprattutto, se sono fondate le attuali critiche al governo, colpevole di aver usato un volo di Stato per rimandarlo da uomo libero in Libia, dove oggi è incriminato per gli stessi fatti per in quali è perseguito dalla CPI.

Forse è il caso di riportare alla memoria quanto accadde a partire dal gennaio di quest’anno.

A parte la “stranezza” della “blu notice” – attivata su al-Masri quando arrivò nel Regno Unito e via via si spostò in Francia, Belgio, Germania – che diventò “red notice” proprio quando il generale giunse a Torino, determinandone l’ordine di arresto, c’è da riconoscere che la CPI, dovendo diramare i suoi mandati agli oltre 190 Paesi aderenti, non può che interloquire con un unico rappresentante per ogni Stato, utilizzando il canale più vicino alla sede della Corte (nel caso di specie, l’ambasciata d’Italia in Olanda, che deve inoltrarla all’interlocutore designato, che è appunto il Ministro della Giustizia Nordio).

Premesso questo, il cuore del problema risiede nell’Ordinanza del 21 gennaio 2025 della Corte d’Appello di Roma, che dichiarò “irrituale” l’arresto di Osama al-Masri, effettuato dalla Digos di Torino il 19 gennaio sulla base di un mandato internazionale della CPI.

La Corte ha motivato la scarcerazione con il mancato rispetto delle procedure previste dagli artt. 2 e 11 della Legge n. 237/2012, che richiedono un’interlocuzione obbligatoria con il Ministro della Giustizia prima di eseguire un arresto su mandato della CPI.

Ebbene, l’art. 2 stabilisce che: Il Ministro della Giustizia ha un ruolo di coordinamento amministrativo per ricevere e trasmettere le richieste della CPI, fungendo da punto di contatto istituzionale.

L’art. 11, comma 1, statuisce che: spetta al Ministro trasmettere gli atti alla Procura Generale presso la Corte d’Appello, che poi decide sull’applicazione delle misure cautelari.

La Corte d’Appello interpretò queste norme in senso restrittivo, ritenendo che l’arresto “autonomo” della polizia giudiziaria, basato sull’art. 716 c.p.p., fosse inapplicabile, poiché la Legge n. 237/2012 avrebbe costituito una normativa speciale, “prevalente” rispetto al c.p.p. in materia di cooperazione con la CPI.

In realtà, tale interpretazione appare formalistica e ignora la “ratio” della normativa, che è quella di garantire una cooperazione efficace e tempestiva con la CPI contro crimini gravi come quelli di guerra e contro l’umanità.

Invero, l’art. 3, comma 2, della Legge n. 237/2012, stabilisce che le norme del c.p.p. si applicano “in assenza di disposizioni contrarie o incompatibili”, il che rendeva l’iniziativa della polizia giudiziaria (basata sull’art. 716 c.p.p.) perfettamente legittima in un contesto di urgenza, come quello di un mandato internazionale.

Le accuse di omissione di atti d’ufficio contro Nordio si basavano sulla ipotesi che il Ministro, consapevole del mandato della CPI e dell’arresto di al-Masri, non abbia attivato tempestivamente il coordinamento amministrativo richiesto dagli artt. 2 e 11.

Tuttavia, queste accuse apparvero fragili per diverse ragioni.

Il Ministro della Giustizia non aveva – come non ha – alcun ruolo operativo o decisionale nell’esecuzione dei mandati della CPI.

Il suo compito è di natura amministrativa: ricevere la richiesta, trasmetterla alla Procura Generale e coordinare l’iter.

Attribuire a Nordio una responsabilità diretta per la scarcerazione di Al Masri, decisa dalla Corte d’Appello, sembrò una forzatura, poiché la decisione finale spettava all’autorità giudiziaria, non al Ministro.

Peraltro, la trasmissione degli atti della CPI al Ministero non fu immediata né formalmente chiara.

Fonti vicine a Nordio – come riportarono “Il Corriere del Giorno” e “Libero Quotidiano” – indicarono che il mandato della CPI non era stato trasmesso ufficialmente al Ministero fino al 20 gennaio, e l’arresto del 19 gennaio è stato comunicato solo informalmente.

In un arco temporale di 48 ore (tra il 19 e il 21 gennaio), era tempestivamente difficile per Nordio coordinare un iter amministrativo complesso, considerate soprattutto le “anomalie” del mandato della CPI (per es. le incongruenze sulle date dei reati).

La Corte d’Appello adottò un’interpretazione rigida della Legge n. 237/2012, senza considerare la natura

“complementare” della giurisdizione della CPI e l’obbligo di cooperazione immediata previsto dallo Statuto di Roma (artt. 86 e 89).

L’art. 716 c.p.p., che consente alla polizia giudiziaria di agire “motu proprio” in presenza di un mandato internazionale, venne ritenuto inapplicabile senza una motivazione convincente sulla “prevalenza” della Legge n. 237/2012 rispetto al c.p.p., ma questo approccio discrezionale ignorò la necessità di una risposta rapida ed efficace contro un sospetto criminale di guerra.

Le accuse di omissione richiedono la dimostrazione di un’intenzione dolosa o di una grave negligenza.

Nordio dichiarò di aver compiuto valutazioni giuridiche e politiche, anche in virtù delle anomalie del mandato riscontrate, ma risultava assai difficile dimostrare che la sua inerzia potesse essere intesa come un’omissione dolosa.

Il trasferimento di al-Masri in Libia con un volo di Stato alimentò le accuse di favoreggiamento e peculato, avanzate dall’Avv. Luigi Li Gotti.

Tuttavia, queste accuse si scontrarono con la realtà dei fatti.

L’ordinanza della Corte d’Appello, dichiarando l’arresto “irrituale”, resero impossibile la custodia di al-Masri in Italia.

In assenza di un provvedimento cautelare valido, il Ministro dell’Interno Piantedosi non aveva il potere di trattenerlo, poiché ciò avrebbe configurato una violazione dei diritti fondamentali dell’individuo e del principio di legalità.

Il governo si trovò di fronte a un bivio: trattenere al-Masri illegalmente, rischiando ulteriori complicazioni giuridiche e diplomatiche, o rimpatriarlo in Libia.

La scelta del rimpatrio, pur discutibile sotto il profilo dell’opportunità politica, fu una conseguenza diretta dell’Ordinanza della Corte d’Appello, non una decisione arbitraria del governo.

L’accusa di peculato per l’utilizzo di un aereo militare apparve subito debole, poiché il rimpatrio era stato eseguito in esecuzione di un’ordinanza giudiziaria, non del governo.

Non c’erano elementi che dimostrassero un uso improprio o doloso delle risorse pubbliche, così come richiesto per la configurazione del reato di peculato.

L’osservazione sulla “leggerezza” di Alfredo Mantovano nel non attivare la procedura per apporre il segreto di Stato sulla vicenda espose il governo a critiche e a potenziali ritorsioni libiche, come nel caso di Cecilia Sala in Iran.

Tuttavia, questo non configura alcuna responsabilità penale e solleva molti dubbi sull’approccio discrezionale e selettivo di Lo Voi, in forza del quale la posizione di Giorgia Meloni era stata archiviata con la motivazione dell’“assenza di ogni sua partecipazione attiva nella fase ideativa o preparatoria” del rimpatrio.

Deve essere apparso eccessivo, anche all’opposizione – che difatti tacque sulla circostanza -, sostenere un attacco diretto e dall’evidente sapore eversivo contro la Presidente del Consiglio, che in un’operazione delicata come il rimpatrio di Al Masri, non poteva non essere coinvolta a livello decisionale collegiale.

Il riferimento al principio “non poteva non sapere”, sempre invocato contro Berlusconi, svelava il paradosso dell’archiviazione di Meloni rispetto alla richiesta di autorizzazione a procedere contro i ministri, che rifletteva una strategia giudiziaria “calibrata” per colpire il governo senza toccare direttamente la Premier – onde non apparire smaccatamente politica -, ma sufficiente a rendere più incandescente il clima già infuocato sulle riforme costituzionali.

La presenza di figure come Francesco Lo Voi (magistrato vicino a correnti di sinistra) e Luigi Li Gotti (avvocato con trascorsi politici) alimentò il sospetto di un’azione mirata, come suggerito da alcune fonti vicine al centrodestra (“Il Dubbio”, “Libero Quotidiano”).

Inoltre, la farraginosità della Legge n. 237/2012 pone il risalto l’eccessivo formalismo della normativa italiana, per nulla adeguata a rispondere con rapidità ed efficacia ai mandati della CPI.

La Corte d’Appello privilegiò un’interpretazione rigida e nello stesso tempo discrezionale a scapito della “ratio” della cooperazione internazionale, che deve garantire l’immediata cattura di sospetti criminali di guerra o contro l’umanità, e non autorizzò l’arresto di al-Masri, che così compromise di fatto l’efficacia dell’azione giudiziaria.

Attribuire al Ministro della Giustizia una responsabilità per i ritardi nel coordinamento amministrativo era una forzatura, poiché il suo ruolo era e rimane di natura formale e non decisionale.

La vera causa della scarcerazione di al-Masri va perciò imputata alla Corte d’Appello di Roma, che dichiarò l’arresto irrituale senza motivare adeguatamente la “prevalenza” della Legge n. 237/2012 sul c.p.p., in quanto il Ministro dell’Interno non poteva trattenere il generale libico in assenza di un provvedimento cautelare valido.

La decisione di rimpatriarlo, forse politicamente discutibile, era l’unica opzione giuridicamente praticabile dopo l’Ordinanza della Corte, che, per eccesso di discrezionalità e formalismo, fallì nel garantire la cooperazione con la CPI, ignorando la necessità di agire rapidamente contro un sospetto criminale di guerra.

La Legge n. 237/2012 va rivista per snellire le procedure, ribadire il lavoro impeccabile svolto dalla polizia giudiziaria e ridurre la discrezionalità interpretativa, che in questo caso portò a un esito paradossale: la liberazione di un sospetto criminale di guerra per un cavillo procedurale.

In ragione di tanto, la richiesta di autorizzazione a procedere contro Nordio, Piantedosi e Mantovano apparve fragile ed è stata perciò respinta in sede parlamentare, poiché basata su un’interpretazione discutibile delle loro responsabilità che ha ignorato totalmente il ruolo decisivo della magistratura nella scarcerazione.

Pertanto, le attuali critiche al governo, strumentali alla lotta per il “no” alla riforma referendaria, non si appalesano soltanto infondate, ma di dimostrano di tutta evidenza pretestuose anche sotto altri profili giuridici, sommersi da una marea di mistificazioni politiche di natura propagandistica.

Secondo le norme dello Statuto di Roma, istitutivo della CPI, la giurisdizione della Corte dell’Aja subentra solo in via “complementare”, allorquando lo Stato, di cui il soggetto incriminato è cittadino, non è in grado (o non vuole) sottoporlo a procedimento penale della propria giurisdizione.

Nel caso di specie, l’autorità giudiziaria di Tripoli ha spiccato mandato d’arresto contro al-Masri, per gli stessi fatti per i quali egli è perseguito dalla CPI, ragion per cui non si comprende perché la giurisdizione internazionale debba “prevalere” su quella nazionale (semmai può vigilare che il procedimento si svolga in modo trasparente e imparziale).

È opportuno rilevare, inoltre, che il governo di unità nazionale (GNU) con sede a Tripoli, rappresenta lo Stato libico attualmente riconosciuto dall’ONU, ragione per la quale l’autorità giudiziaria di quel Paese è perfettamente legittimata a perseguire penalmente al-Masri per i fatti a lui addebitati.

Dunque la polemica che sta montando in Italia sulla vicenda dell’utilizzo di un volo Stato per rimandarlo in patria da uomo libero, non trova alcuna giustificazione plausibile, anche perché nel gennaio scorso le autorità libiche non avevano richiesto alcun fermo del proprio cittadino, mentre girovagava per l’Europa.

Avrebbero dovuto emettere sin da allora un mandato d’arresto nazionale in Libia, per reati di tortura e crimini contro l’umanità commessi dal sospettato sul proprio territorio.

Dopodiché, avrebbero dovuto attivare la cooperazione internazionale, documentandola con prove preliminari (testimonianze delle vittime o rapporti sugli abusi in detenzione), al fine di chiedere l’intervento dell’Interpol con un avviso internazionale per localizzare e arrestare provvisoriamente il sospettato in attesa di estradizione.

Per quanto riguarda l’incresciosità venuta a crearsi in Italia sul caso al-Masri a causa dell’Ordinanza di scarcerazione della Corte d’Appello di Roma, l’unica opportunità di cui avrebbe potuto disporre la Libia poteva essere l’Accordo di Cooperazione Giudiziaria Italia-Libia del 2008, che contempla l’estradizione per crimini gravi, oppure, in via del tutto subordinata, la Convenzione Europea di Estradizione del 1957 (di cui la Libia non è ovviamente firmataria, pur potendone però invocare l’applicabilità per via di reciprocità).

Chiarito il tanto, il motivo per il quale il governo italiano ha rimandato al-Masri  in Libia è addebitabile alla decisione della Corte d’Appello di Roma che lo ha scarcerato, nonostante il mandato d’arresto della CPI.

In effetti, non era più possibile trattenere in istato di fermo giudiziario un soggetto (per quanto sospettato) che era stato rimesso in libertà; e se solo oggi le autorità libiche hanno ritenuto di procedere penalmente con il loro generale, non si comprendono le responsabilità politiche che si intendono addossare al nostro esecutivo (o meglio se ne comprendono le finalità di delegittimazione in chiave di lotta referendaria).

@RobertoFal96523, noto come Joe Turner, è un liberale formatosi con John Locke e, soprattutto, John Stuart Mill, impegnato in dibattiti su giustizia e politica italiana. Esalta l'imparzialità e la ricerca della verità senza favoritismi, critica la propaganda demagogica, difendendo il diritto internazionale e una sinistra moderna aperta alle riforme referendarie.
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