La reazione alla scalata MPS–Mediobanca è la fotografia fedele di un Paese che non è ancora adulto sul piano finanziario. Un Paese che interpreta ogni operazione ambiziosa come un complotto, ogni strategia come una trappola, ogni movimento di mercato come una minaccia. E infatti l’apertura del fascicolo da parte della Procura di Milano è il punto esatto dove si vede questa immaturità trasformarsi in azione istituzionale. Un’azione che, per impostazione e per parametri giuridici, sta colpendo il bersaglio sbagliato.
L’accusa parla di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza. Due reati che per esistere richiedono una prova rigorosa della volontà dolosa di manipolare il mercato o di nascondere informazioni alle autorità. Non basta che ci siano stati contatti, non basta che ci sia stata una visione condivisa tra soci, non basta che l’operazione sia stata preparata con attenzione. Serve provare l’occultamento consapevole. Serve un documento, una mail, una conversazione che dimostri che BCE, BI o Consob siano state scientemente ingannate. Ad oggi non esiste nulla di tutto questo. E questo è un fatto, non un’opinione politica.
Tutte le comunicazioni obbligatorie sono state effettuate. Gli organi di vigilanza erano consapevoli della trasformazione in corso. Nei dossier dell’Ops non c’è nulla che assomigli a una trama clandestina. La Procura, invece di attenersi ai requisiti della fattispecie, sta leggendo ciò che è fisiologico come se fosse patologico. Sta interpretando la normale preparazione di un’operazione industriale come un movimento occulto. Sta confondendo la strategia con il dolo. È un errore metodologico prima ancora che giuridico.
Per capire il quadro bisogna inserire un fattore che nessuno vuole ammettere: MPS non è una banca neutra. È una banca politica. È stata salvata dallo Stato, commissariata, ricapitalizzata, protetta e lentamente riportata alla normalità. Porta sulle spalle il peso del referendum del 2016, dei dirigismi senesi, del decennio più imbarazzante della storia bancaria italiana. Che il Governo non abbia attivato la golden power non è una svista. È il risultato di una valutazione politica e strutturale. MPS è ancora percepita come un’emanazione dello Stato. Bloccarla avrebbe significato contraddire il percorso di uscita dal perimetro pubblico costruito dal 2017 a oggi.
Poi, se vogliamo parlare di Golden Power, possiamo dire senza esitazioni che il governo l’ha applicata in maniera arbitraria. Possiamo rimproverare che, mentre su Unicredit è intervenuto in modo rigido, su Iveco non l’ha neanche sfiorata. E questo non è un dettaglio: dimostra che le scelte non seguono una logica industriale coerente, ma sembrano dettate da centri di interesse.
Non si tratta di divieti o blocchi. Il problema è il metodo: davanti a operazioni complesse e di respiro sistemico, lo Stato dovrebbe essere chiaro, prevedibile, leggibile dagli investitori. Invece la Golden Power si accende e si spegne senza criterio, mandando segnali confusi e indebolendo la credibilità dello Stato come attore strategico.
E a dimostrazione che non c’era nessuna emergenza strategica basti un fatto: i soci di Mediobanca, gli unici titolati a decidere, hanno valutato bene il da farsi e hanno scelto autonomamente come reagire all’operazione. Non serviva certo un intervento pubblico per spiegare a un azionariato sofisticato come tutelare i propri interessi.
Invece di leggere la realtà, il dibattito si è perso nel sospetto. E la Procura ha finito per alimentare una narrazione tossica, dove ogni mossa viene vista come un abuso. È la stessa cultura che da anni ci condanna al nanismo economico. L’Italia continua a ragionare come una domenica pomeriggio paesana. Una comunità chiusa, diffidente, che guarda con sospetto chiunque osi alzare la testa. È un atteggiamento che nella vita sociale può persino avere una sua poesia, ma nel mercato finanziario è letale. Le economie moderne vivono di aggregazioni, di fusioni, di riassetti. Vivono di velocità, non di processi inquisitori.
L’operazione MPS–Mediobanca appartiene alla fisiologia dei mercati maturi. È aggressiva, certo, ma non clandestina. È ambiziosa, ma non criminale. È industrialmente logica, perché ricompone un sistema bancario italiano che ha bisogno disperato di scale più grandi e di strutture ibride tra credito commerciale e merchant banking. Il Paese però continua a trattare ogni innovazione come una minaccia. E continua a delegare alla magistratura ciò che dovrebbe essere governato da politica industriale, vigilanza tecnica e capacità manageriale.
La Procura ha il diritto di indagare. Ma l’errore è trasformare un’operazione legittima in un teorema penalistico. È l’ennesima prova che l’Italia non sa più distinguere il rischio dai reati, il mercato dal complotto, la strategia dall’occultamento. Se continuiamo così, l’unica cosa che riusciremo a proteggere è il nostro provincialismo. Non le nostre banche. Non i nostri investitori. Non la nostra credibilità internazionale.
Questa operazione non era opaca. Non era impropria. Non era eversiva. Era un passo avanti possibile, forse necessario. E il vero scandalo non è ciò che è stato fatto, ma ciò che il Paese non riesce ancora a fare: guardare una grande operazione per ciò che è, invece che per ciò che le nostre paure ci fanno immaginare.
Si è laureato in Banking and Finance presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da molti anni lavora nel mondo della finanza tra Londra, Milano e Parigi. È membro del BNP Innovators Program, iniziativa dedicata allo sviluppo di progetti di innovazione tecnologica nel settore bancario. Appassionato di economia, tecnologia e politiche pubbliche, partecipa attivamente a iniziative di volontariato e di partecipazione politica.