L’ombra del dollaro sula crescita economica

Il 28 settembre scorso è stata approvata dal Consiglio dei ministri la Nota di aggiornamento al DEF (NADEF) del 2022, nella sola parte relativa all’analisi delle tendenze in corso ed alle previsioni per l’economia e la finanza pubblica italiane a legislazione vigente. Com’era, dal mio punto di vista, fin troppo facilmente prevedibile il documento evidenzia una crescita tendenziale prevista dello 0,6% rispetto al 2,4% programmatico del DEF di aprile 2023.

Il quadro negativo, invero, si innesta in un quadro di recessione che investe l’Europa che prevede un Pil in riduzione e pari allo -0,4% (uno scenario ancor più negativo, lo fissa al -0,5%).

A condizionare il quadro negativo per l’Europa (e per il nostro Paese) contribuisce pesantemente la situazione internazionale che vede sui mercati dei cambi un rafforzamento del dollaro rispetto all’euro e, per tale strada, un peggioramento del quadro inflazionistico. Ma fermiamoci al dollaro. È noto come la moneta americana abbia assunto, a partire dal dopo guerra, il ruolo di bene rifugio e che quindi le tensioni internazionali (in primo luogo le guerre) contribuiscano al suo apprezzamento sui mercati internazionali.

Ma la situazione attuale vede alcuni “fondamentali” muoversi favorendone l’apprezzamento. In estrema sintesi, possiamo affermare che la domanda ed offerta di dollari di un Paese è governata dalla bilancia dei pagamenti, e ciò in quando una gran parte dei beni in acquisto (in particolare le materie prime) sono pagati in dollari. Ora è facile cosa verificare come la bilancia dei pagamenti dei paesi della U.E. peggiora drasticamente per l’aumento del prezzo dell’energia; ciò significa che l’U.E. si presenta sul mercato delle valute e chiede dollari per acquistare energia; d’altro canto, la bilancia dei pagamenti degli U.S.A. non peggiora e questo perché tale paese ha un saldo netto positivo della spesa per “energia”. Il risultato complessivo è, dunque, una spinta al rialzo della valuta americana.

L’ulteriore ragione che spinge a rialzo il dollaro è nella politica monetaria degli U.S.A.

Da ultimo, il 26 agosto scorso, in un discorso sugli sviluppi della politica monetaria americana, il governatore della Federal Reserve, “JPow” Powell, ha chiarito che la Fed continuerà ad aumentare i tassi di interesse in America fino a quando non ci saranno chiari segni che l’inflazione negli Stati Uniti stia rallentando. Ora, per nostra memoria, già a luglio, la FED aveva chiarito che l’obiettivo era quello di aumentare i tassi fino al 3.4% entro la fine del 2022, per proseguire poi nel 2023, fino ad arrivare al 3.8%. Ma oltre l’intenzione di portare avanti la stretta monetaria – nonostante che il pericolo di recessione sia in quel Paese alle porte – va osservato come la politica monetaria U.S.A. è “girata” in senso restrittivo molto velocemente (certamente molto prima di quanto abbia fatto la B.C.E.) e ciò anche per il fatto che la spirale inflazionistica si è certamente affacciata prima sull’altra sponda dell’Oceano.

In effetti, già nella riunione del 14-15 dicembre 2021, il Governatore della FED diede un forte segnale di aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti, fissandone l’inizio da marzo 2022 e, ancora prima, (nella riunione del 3 novembre 2021) si era annunciato che a partire dal mese di dicembre si sarebbero ridotti gradualmente gli acquisti di titoli sul mercato secondario in America e che gli acquisti di titoli sul mercato da parte della FED sarebbero terminati entro la metà del 2022.

Quindi, definitivamente, detenere dollari è più conveniente che detenere euro e questo a causa dei punti sopra esaminati che, come visto, muovono tutti a favore di un rialzo della moneta americana.

I mercati finanziari, viceversa, non se la vedono bene. La borsa di N.Y., che negli ultimi tempi (dall’aprile del 2020 e fino al novembre del 2021) ha macinato buone performance, va certamente male per una serie di motivi. Il primo è legato, naturalmente, al rialzo dei tassi d’interesse che, come noto, riduce il valore delle azioni. È noto che prestiti più costosi scoraggiano le imprese e gli individui dalla spesa e riducono la domanda; in effetti, se un aumento dei tassi d’interesse ha come effetto positivo il fatto che il rapporto tra domanda e offerta si inclina verso un’offerta eccessiva determinando prezzi locali in diminuzione ed un’inflazione sotto controllo, la contrazione della domanda ha, purtroppo, un immediato effetto negativo sulle imprese che vedono aumentare le loro scorte. Conseguentemente i valori in borsa delle società crollano.

Ma c’è anche un’ulteriore ragione nel crollo dei mercati azionari. Un processo di riorganizzazione territoriale sta investendo molte imprese U.S.A., che stanno spostano i loro stabilimenti da paesi ora in guerra (Russia, Ucraina, ma anche estremo oriente) verso paesi (magari limitrofi) a minor rischio e, quindi, più sicuri, ma certamente a maggior costo, in particolare del lavoro. Ciò pesa, naturalmente, sulla capacità reddituale futura delle aziende e, quindi, sui corsi dei loro titoli sulle borse valori.

Bene, ora di fronte a tale quadro (certamente non positivo anche per il nostro Paese) una prima questione è di cosa farà la FED. È possibile prevedere a breve un’inversione della politica monetaria, atteso anche che con tutta la liquidità sul mercato che sta affluendo verso il dollaro si sta affacciando il rischio di una “bolla” del dollaro?

A stare alle dichiarazioni della FED, la previsione è che ancora per diversi trimestri la politica monetaria sarà restrittiva (e di conseguenza non potremmo che attenderci una politica in linea della BCE).

Ma la “bolla” sul dollaro e lo spettro della crisi economica, in congiunzione con le vicine elezioni di “mezzo termine”, mettono in dubbio la determinazione della FED nel proseguire con una politica monetaria così dura. D’altro canto, per le ragioni citate, c’è da attendersi, in un tempo non attualmente definibile con certezza, un calo sensibile del dollaro.

Molto però dipenderà, a mio modo di vedere, dalle tensioni geopolitiche (certamente Ucraina, ma anche Cina per l’affaire Taiwan) che hanno visto il dollaro essere l’attore dei conflitti internazionali. Per quello che ci riguarda, infine non può sottolinearsi come la politica economica per il nuovo governo italiano, dovrà prestare moltissima attenzione al quadro internazionale instabile e, proprio per questo capace, di coinvolgere (o meglio svolgere) il nostro Paese.

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