La relazione tra libertà e grado di complessità normativa. Il rischio giustizialista e il ruolo della Costituzione italiana.

“Giustizia non esiste là ove non vi è libertà”.

La frase del compianto Presidente della Repubblica Luigi Einaudi oggi torna attuale più che mai.

Un concetto lucido, chiaro, Costituente fino all’ultima lettera.

A giusta ragione d’altronde.

Come può esserci giustizia senza libertà?

Domanda di assoluto valore e di timbro profondo.

Profondità tipica di chi nelle parole traferisce più di quanto esse siano visibili come forma.

Soffermarsi sull’Einaudi pensiero, invertendo per un attimo l’ordine delle parole utilizzate (che poi ritroviamo nel principio della negazione della verità in “Prediche inutili”), è necessario per percepirne la portata d’attualità incredibile.

Senza libertà può esserci vera giustizia?

La prima è, oggettivamente, prerequisito della seconda perché solo se un sistema è ordinato all’affermazione del Giusto può dirsi, effettivamente, garante dello spazio di ognuno.

Il punto di riflessione è, certamente, come è possibile ordinare un sistema in tale direzione: la regola è, con ogni probabilità, una risposta attendibile.

L’Uomo, però, è libero solo nella regola?

Non è un parolone retorico, anzi la regola è modernità ciclica.

Quest’ultima, immaginata specificamente come una sorta di “livella”, a sua volta deve essere partorita incline al garantismo: non per volere soggettivo del legislatore, ma in primis per ossequio al dettato Costituzionale.

Quando un legislatore non utilizza questo parametro succede che il frutto normativo non abbia forza ed equilibrio. Ha, invece, in sé tutto l’opposto. Diventa dirompente e distruttiva. Si pone, la norma, come arma di parte.

E quando una “parte” ha più armi si gioca impari.

È qui che la regola fallisce il proprio scopo etimologico, sociale, giuridico.

Da qui passa la percezione (effettiva) della libertà e la sua affermazione nella vita reale: dal rapporto di eguaglianza.

Cosa accede, però, se l’intervento della “Giustizia” è inficiato da uno sbilanciamento tale da invalidare o, quantomeno, mettere in discussione la fiducia riposta dal cittadino nei confronti dell’Istituzione (rappresentata, ovviamente, dal magistrato)?

Questione delicata la cui risoluzione è data proprio dall’intensità valoriale con cui si è iniziata questa breve dissertazione.

Nel nostro paese, norme alla mano, esistono giudizi che fanno stato (cioè sentenze) in cui un Magistrato dell’Ufficio di Pubblico Ministero può svolgere, al contempo, il ruolo di membro del Collegio Giudicante nel processo tributario.

Non solo.

Nel nostro paese, dopo anni ancora, non si riesce a comprendere che la separazione delle carriere, nel sistema penale, non si traduce per forza di cose in deficit di potere del giurisdizionale. Tutto l’opposto. Rafforzerebbe la credibilità dell’intero sistema, soprattutto, se è vero come è vero che il P.M. “siede difronte” al Giudicante e, al contempo, si pone “al lato dell’imputato e delle parti civili”.

Inoltre, nel nostro paese, il dramma dei tempi della giustizia non è una questione di poco conto: è specificamente il conto da pagare giorno per giorno.

Saldo che si riversa, direttamente, su investimenti, su capacità attrattiva del sistema-paese, ma molto di più sui cittadini italiani ai quali, più di tutti, questo ritardo riformatore pesa.

Il bivio è davanti a noi: o si va verso il becero giustizialismo oppure si ha il coraggio di rinfrescare la cultura del garantismo.

Il “come” possiamo farlo cercando di contemperare le cose con la necessità di contrastare le illegalità, condannando il soggetto reo (tendendo al suo recupero sociale, anzitutto, formandolo) od assolvendo il cittadino con tutta la serenità e certezza di buon diritto.

Compito assai delicato a cui, però, non può rinunciarsi per comodità giuridica.

Ecco, il problema della comodità giuridica è il fulcro dell’Einaudi pensiero poiché con essa, velatamente, si insinuano le flotte di illegalità.

È giusto condannare un Uomo mediante l’applicazione di una norma sbagliata ed incostituzionale?

È giusto assolvere un Uomo, invece intimamente reo, mediante l’applicazione di una norma sbagliata che non prevede punibile la specifica condotta del cittadino?

Qui veniamo al dunque: cioè verificare se la libertà passa dal come il legislatore scrive le regole del gioco affinché il sistema “Giustizia” sia quanto più equo, credibile, stabile, funzionale alle garanzie Costituzionali (di eguaglianza, difesa effettiva, imparzialità/terzietà del giudicante, ecc.).

È giusto farsi giudicare da chi, nello stesso momento, ricopre il ruolo di accusatore (riferimento al processo tributario)?

È giusta l’incriminazione e poi il giudizio di chi siede solo per forma su banchi diversi da chi decide (riferimento a sistema penale)?

Chiaro che i magistrati non hanno, grossomodo, colpe ordinamentali se il legislatore italiano non attua in tutte le sue sostanze i c.d. “Principi di Giusto Processo” che in Costituzione si stadiano all’art. 111.

Però, non può assolversi pienamente lo stesso “giurisdizionale” laddove non ha coraggio (almeno questo) di sollevarne questione d’illegittimità costituzionale per l’appunto.

Per questo motivo non si può esser concordi con chi dice che la magistratura comanda nel paese.

No la magistratura è succube di un pensiero politico-legislativo-giurisdizionale di matrice giustizialista insinuatosi nel tempo tramite correnti deviate.

Qui si nasconde, ancora una volta, l’insidia vera per il nostro paese.

Insidia che Einaudi ben identifica nel perimetrare il concetto di “libertà effettiva” in relazione al come la Giustizia opera e si afferma al cospetto del cittadino.

Preoccupazione che anche Aldo Moro condivise quando ebbe a descrivere che “la libertà si vive faticosamente tra continue insidie”.

Purtroppo la variabile (più indecifrabile che mai) funzionale a questo tipo di derivazioni politico-istituzionali è costituita proprio dal tipo di legislatore che, volta per volta, ci si ritrova.

Non è un caso che leggendo il rapporto dell’Osservatorio sulla legislazione italiana[1] della Camera dei Deputati, al 2018 (primo anno della Legislatura XVIII), si possa constatare come, nonostante fossimo in periodo pre-Covid, la complessità normativa sia aumentata percentualmente rispetto allo stesso periodo della legislatura XVII.

Inclinazione dettata anche da un forte decisionismo di Governo che, di fatto, ha spiazzato il Parlamento; ciò se da una parte può segnare un punto positivo nella scelta dell’esecutivo, dall’altra parte può tradursi in limitazione della discussione politica in sede (genetico) naturale legislativa (d’altronde si ricordi che il Governo può utilizzare solo Decreti legge e Decreti legislativi per normare).

Il risultato è che l’alimentazione del dibattito sui termini da inserire in legge, sulle necessità del paese, sulle finalità e sugli equilibri di cui la “regola” deve farsi portatrice è praticamente immatura ed acerba (se non quasi inesistente laddove in sede di conversione dei decreti legge, ad esempio, si dovesse porre la fiducia ripetutamente).

Nel 2020 questo problema di complessità normativa è stato ulteriormente decifrato nel lavoro pubblicato con il quarto fascicolo[2], sempre dall’Osservatorio di cui innanzi, relativo all’esame del “Comitato per la legislazione”.  

Sicché, nel gioco delle parti, dinanzi a tale evidenza ci si pone un ultimo punto di riflessione.

Perché il Parlamento, data la complessità normativa maggiormente alimentata nell’ordinamento ove vi sia intervento del Governo, non legifera in via ordinaria con le discussioni, anche accese, di cui la democrazia necessita?

Un minor costo della democrazia equivale a un maggior grado di complessità sistemica.

Questo è il risultato.

E se a tale dato si aggiunge anche il grado di complessità economica del sistema-paese che l’OEC (Observatory of Economic Complexity) ha stadiato per l’Italia a 1,31 (altissimo rispetto ad altre potenze mondiali) è chiaro che ci si trova dinanzi a due facce della stessa medaglia.

Ecco come regole più snelle e meno macchinose, meno sbilanciate e più in equilibrio, meno legiferanti (in quanto tali) e più riformatici, potrebbero migliorare la capacità di sviluppo del paese liberandolo dalla complessità, ormai, dilagante.

Ne va della certezza del diritto; ne va del crescente potere delle burocrazie legate ai governi.

Questo tempo di marcia però è dettato, come ogni ciclico periodo sociale, da cosa il Popolo vuole e dal come lo vuole.

L’Italia vuole o meno riformare la Giustizia partendo dall’assumersi la responsabilità di avere coraggio perché serve coraggio? Mi si perdoni il gioco di parole.

Relegare quest’attività ad una mera delega ai Governanti, invece, di maturare un senso sociale sulla questione è una fuga in avanti in cui resta indietro il Parlamento. Cioè tutti noi.

Se oltre al taglio della democrazia vi sarà, poi, anche quello del giurisdizionale cosa ci si deve aspettare? Che la politica temporalmente occupante il potere esecutivo detti anche le sentenze per decidere chi è colpevole e chi no?

Si sa che “Quando la politica entra nella giustizia, la giustizia esce dalla finestra”.

Lo diceva, anche questo, Luigi Einaudi.

Un monito, quest’ultimo, che se dimenticato non ci porterà che verso il giustizialismo totalitario in cui anche i magistrati saranno soggiogati al potere esecutivo al pari del popolo.

Il tutto a causa di regole che non puntano alla libertà quale condizione di esistenza dell’Uomo, ma al controllo di quest’ultimo.

Umanamente ingiusto.

[1] Accessibile liberamente al seguente link https://www.camera.it/leg18/397?documenti=1137

[2] Datato 04 marzo 2020 ed anch’esso liberamente accessibile al seguente link https://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/CL004.pdf?_1583505427550 – si noti che il rapporto è basato sull’analisi di due leggi ed un decreto legge a campione.

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