Caro Ferrara non sono d’accordo, sbagliato chiamare Salvini il Truce

È difficile ricordare – ha scritto Ginevra Cerrina Feroni – un tale concentrato di smisurati paragoni, di risibili esagerazioni, di attacchi forsennati fino alla psichiatrizzazione del nemico come quello in atto contro il nuovo Governo. Specificamente contro Malteo Salvini, nella sua carica istituzionale di Ministro dell’Interno e di Vicepresidente del Consiglio. Si azzardano paralleli grotteschi tra questa situazione politica e quella del nazifascismo, tra la questione dei migranti e l’olocausto (Oliviero Toscani), si assimila Salvini a Hitler e a Mussolini (Luigi De Magistris) o al nazista sterminatore Eichmann (Furio Colombo). E per non essere da mono, anche noti philosophes, attivissimi nel talk show, abbracciano lo stesso registro».

Come sul Fatto Quotidiano Silvio Berlusconi è tout court il “Pregiudicato”, così sul Foglio Salvini è “il Truce”. È uno stile “comunicativo” al quale non riesco ad abituarmi, anche se non sono un elettore di Salvini e populisti e sovranisti non fanno parte della mia mite famille spirituelle. Non della Lega e del governo gialloverde, intendo, però, parlare bensì del passaggio dell’articolo di Ferrara in cui, in polemica con Giovanni Orsina, si rivendica la lucidità nei confronti dei populisti di oggi e dell’altroieri. «In un recente editorialissimo sull’Espresso, Orsina afferma che i rivoluzionari napoletani del 1799 erano anche loro fuori della realtà, e ne patirono le conseguenze come sempre l’intellighenzia quando è disutile e non s’incontra con il popolo, come ricordò Vincenzo Cuoco nel suo famoso saggio. Giusto. Qui abbiamo pubblicato pezzi paradossali e molto borbonici del compianto Ruggero Guarini, uno che i giacubbini se li mangiava per colazione, tanto per dire che vedevamo i limiti dei democratici e liberali del ’99». L’ex comunista Ruggero Guarini era quello che scriveva a Dell’Utri: «La rivoluzione napoletana del 1799, con cui si pretende che sia incominciato il mio Risorgimento, non avvenne mai. Quel che avvenne fu una vittoria dei conquistatori francesi che dopo aver sbaragliato l’esercilo borbonico, messi in fuga il re e la regina e soffocato nel sangue la resistenza dei Lazzaroni, permisero ai giacobini locali, che non avevano mosso un dito, di fondare una repubblica fantoccio. II Risorgimento non fu, come il termine lascia credere, un movimento di popolo, ma una lunga serie di cospirazioni e sommosse, ordite da movimenti elitari, sfociate in una serie di guerre di conquista combattute e vinte dal Piemonte (col sostegno di un’esigua minoranza di “patrioti” e di alcuni Stati europei) per annettersi tutti gli altri staterelli preunitari. «Quale Italietta liberale?». Gli anni «dopo l’unità, dipinti come sereni e operosi dai suoi apologeti, furono segnati dal terrorismo di stato e dell’accresciuta miseria delle sue popolazioni più derelitte».

Non me ne voglia Ferrara se non mi associo al rimpianto per la perdita di uno dei padri spirituali di Pino Aprile, di Angela Pellicciari e della storiografia dei “panni sporchi dei garibaldini”. I miei maestri continuano ad essere – non me ne vergogno – Gaetano Salvemini, Rosario Romeo, Renzo De Felice (autore, quest’ultimo, di due saggi stupendi sulla nazione), Giuseppe Galasso, persino il “fascista” Gioacchino Volpe, un gigante della storiografia moderna. Ma de gustibus non est disputandum e ciascuno si tenga e onori i suoi santini.

Non posso non reagire, invece, come storico del pensiero politico, nel vedere messi sullo stesso piano Vincenzo Cuoco e i neoborbonici, uniti dalla critica all’astrattismo rivoluzionario. Il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 è il primo grande documento storico del liberalismo italiano non un processo al proto Risorgimento. Come il suo contemporaneo Benjamin Constant, Cuoco condannava il democratismo astratto alla Rousseau ma rendeva omaggio ai valori dell’89 e a quanti si erano immolati per la libertà dei popoli. «Salviamo da tanta rovina taluni esempi di virtù: la memoria di coloro che abbiamo perduti è l’unico bene che ci resta, è l’unico bene che possiamo trasmettere alla posterità. Vivono ancora le grandi anime di coloro che Speziale ha tentato invano di distruggere; e vedranno con gioia i loro nomi, trasmessi da noi a quella posterità che essi tanto amavano, servir di sprone all’emulazione di quella virtù che era runico oggetto dei loro voti. Noi abbiamo sofferti gravissimi mali; ma abbiam dati anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posterità obblierà gli errori che, come uomini, han potuto commettere coloro a cui la repubblica era affidata: tra essi però ricercherà invano un vile, un traditore. Ecco ciò che si deve aspettare dall’uomo, ed ecco ciò che forma la loro gloria».

Che cosa tutto questo c’azzecchi con Guarini e i nostalgici dei gigli borbonici è un mistero. Il fatto è che Ferrara ha una formazione culturale che non gli consente di intendere la genesi, la natura, le funzioni civili svolte dallo stato nazionale. Ogni discorso identitario per lui puzza di orbanismo e non a caso, negli anni passati, spalancò le porte del Foglio a tutti i “revisionisti” (chiamiamoli così, l’anima di De Felice ci perdoni) della Vandea storiografica che il tema della gramsciana “conquista regia” e dei delcarriani “proletari senza rivoluzione” mischiarono con nostalgie e rimpianti per il Regno delle Due Sicilie (quello di Ferdinando II, beninteso, non quello di Carlo III che fece di Napoli una delle capitali europee dell’illuminismo).

Ognuno, ci mancherebbe altro, può pensarla come vuole ma a me sembra innegabile che queste demistificazioni del Risorgimento e dell’Italia unita abbiano contribuito a quello “sfascismo” che cancellando la memoria storica, la pietas storicistica appresa alla scuola di Benedetto Croce, ha fatto del nostro popolo qualcosa di informe, di plasmabile à merci, privo di identità e di tradizioni condivise e disposto a votare per chiunque sia disposto a fare ammuina. Forse al successo del Truce anche Ferrara ha portato il suo granello di sabbia.

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