Leonardo Sciascia. Passione, Ragione e Ironia

L’opera di Leonardo Sciascia, come la sua vita, è sempre stata votata ad una incessante  ricerca della verità,  animata, con spirito illuministico,  dalla ragione critica e dal dubbio.  Questo stile di esistenza e di scrittura ha consentito a Sciascia di accostarsi a questioni che potevano riguardare la politica, la fede, il diritto, con un atteggiamento  profondamente laico, che non gli rese facile la sua breve esperienza di consigliere comunale (eletto come indipendente nelle liste del del P.C.I.) a Palermo, dal 1975 al 1977.

 

Candido, pubblicato proprio nel 1977, quando si conclude, con le dimissioni, la sua vicenda in consiglio comunale, esprime chiaramente la distanza di Sciascia da ogni concezione  ideologica della politica. Egli avverte un maggior senso di libertà in Hugo e Zola che in Marx.  I primi, a suo avviso,  sembrano guardare al passato, ma si proiettano in realtà verso il futuro, mentre Marx sembra indicarci il futuro, ricordandoci però il passato. E’ qui evidente che Sciascia attribuisce alla letteratura una dimensione utopica che non riconosce nei movimenti rivoluzionari, destinati, quasi sempre, a trasformare i sogni in incubi.  Sciascia non riusciva a comprendere come, dopo la rivolta ungherese del 1956 e dopo l’intervento sovietico  a Praga nel 1968, i comunisti non mettessero radicalmente in questione, in Occidente, il loro rapporto con l’Unione Sovietica. Non avrebbe mai potuto condividere la convinzione di Giancarlo Pajetta, per il quale  tra la verità e la rivoluzione sarebbe sempre stato giusto scegliere la rivoluzione. Non riusciva inoltre ad accettare la strategia  del compromesso storico, ritenendo che l’alleanza fra comunisti e democristiani avrebbe  consolidato un sistema di potere che, in Sicilia particolarmente, si manifestava in modo arrogante e violento. La sua avversione al consociativismo e il suo impegno in difesa delle libertà civili lo avvicinò così, sempre più, a Marco Pannella e ai Radicali.

 

Il Candido di Sciascia riprendeva il racconto filosofico volterriano, considerato un modello ineguagliabile di ironia  illuministica, da cui, come accade per ogni opera originale, avrebbero potuto derivare, per usare un’espressione di Montesquieu, altre cinquecento o seicento opere.  Candido, che si trova a vivere nell’Italia del secondo dopoguerra, tra ex fascisti divenuti devotamente democristiani o comunisti, si avvicina al P.C.I. con grandi speranze, che presto lasceranno il posto a profonde delusioni. Pensa  di donare una sua proprietà  in vista della costruzione  di un ospedale, ma prende atto che  il partito difende altri interessi,  e non gradisce la donazione.

Lasciata la Sicilia, Candido  si mette in viaggio e si ferma a Torino con la cugina  Francesca. Qui comincia a frequentare una sezione del P.C.I. Durante una riunione i compagni dicevano che bisognava essere pronti ad abbandonare l’Italia nel caso di un colpo di Stato,  ritenuto da loro imminente. Nel sentire che le mete indicate erano la Francia, il Canada, l’Australia, Candido chiese come mai nessuno pensasse all’Unione Sovietica.  Non ci fu risposta : “alcuni lo guardarono torvamente, altri mugugnarono”. Qualche giorno dopo seppe,  “che i compagni lo consideravano ormai, per le battute di quella sera, un provocatore”.  Ne rimase amareggiato fino a quando, tornando una sera da una di quelle riunioni, Francesca disse : “E se fossero soltanto degli imbecilli?”. Fu questo, scrive Sciascia, “il principio della liberazione, della guarigione”.

 

Giunto a Parigi, che appare come il luogo della ragione, libera da ogni principio d’autorità, Candido si sentirà svincolato da ogni appartenenza  e acquisirà pienamente la propria autonomia.  Ripenserà allora alle parole del proprio mentore, Don Lepanto, il quale, diversamente dall’ingenuo Pangloss del Candide volterriano, si proponeva, come un saggio scettico, di coltivare il proprio giardino, quel retrobottega, avrebbe detto Montaigne, che rappresenta il luogo privilegiato della nostra  libertà e della nostra autonomia, che dobbiamo difendere da ogni ingerenza esterna.

La scelta di allontanarsi dal comunismo, che costituì un trauma per molti intellettuali, diviene, per    Candido-Sciascia, una soluzione liberatoria, come dovette esserlo per quanti si sentivano  di nessuna chiesa, come avrebbe potuto dire Giulio Giorello. In una lettera al Cardinale Pappalardo del 1976 Sciascia scriveva che si è atei come si è cristiani,  imperfettamente sempre. Avrebbe condiviso l’opinione di Bobbio, secondo cui, piuttosto che tracciare la differenza tra credenti e non credenti, bisognerebbe distinguere tra chi cerca e chi non cerca.

 

Il 10 gennaio 1987 Sciascia pubblica, sul Corriere della sera, I professionisti dell’antimafia, in cui critica il criterio seguito dal Csm nella nomina di Paolo Borsellino a procuratore di Marsala. All’anzianità di servizio, come previsto, si era infatti  preferita la particolare competenza di   Borsellino nell’ambito della criminalità di stampo mafioso. Tutto ciò, secondo Sciascia, avrebbe creato un pericoloso precedente, favorendo una sorta di rendita di posizione per  quei magistrati che avessero avuto ambizioni di carriera. Divennero presto chiare, a Borsellino, le intenzioni di Sciascia, che non aveva sollevato riserve su di lui, ma sul metodo adottato. Possiamo cogliere, alla luce  di quanto in questi anni è accaduto, tutta la valenza profetica dell’analisi critica di Sciascia.

Il 15 gennaio 1987, su la Repubblica, Giampaolo Pansa si scagliò contro la presa di posizione di Sciascia, collocandolo nell’ “Italia della palude”. La critica di Pansa fu condivisa da molti settori della Sinistra e la risposta di Sciascia  non si fece attendere. Su L’Espresso del 25 gennaio del 1987 apparve così un suo graffiante epigramma: “ Pansa dice che mi pensa \ Dunque Pansa pensa? \ Ma se Pansa pensa cos’è mai il pensare? \ Forse è solo un pansare.

In questo rapporto conflittuale con l’ Intellighenzia “progressista”Leonardo Sciasia viene in mente che nel 1979, in Nero su nero, Sciascia, con grande spregiudicatezza, aveva individuato la figura del cretino di sinistra, “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero solo a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione”.

 

L’impegno civile di Sciascia si manifestò, con grande generosità,  in occasione del processo a Enzo Tortora.   Su Panorama  del 7 settembre 1986 criticò energicamente la requisitoria del pubblico ministero Armando Olivares, “bel nome da vice regno spagnolo”, denunciando, in base alle prove, l’infondatezza dell’accusa e l’errore giudiziario. Non si può non pensare, in proposito, a un passo de Il contesto. Il presidente Riches descrive all’ispettore Rogas la sua visione della giustizia, facendo ricorso al rito della messa.  Il sacerdote, afferma con convinzione Riches,  “può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri : ma il fatto che sia stato investito dall’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge : la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi”. Nello Stato di diritto,  quando i giudici godono del loro potere invece di soffrirne, scriveva Sciascia,  “la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli”.

 

Nel momento in cui il potere assoluto del giudice prevale sulle garanzie dell’imputato, avvertiamo il clima dei tribunali dell’inquisizione o degli stati totalitari.  Nel 1947, in Teoria della verità materiale del processo penale, il giurista sovietico Michail Solomonoviĉ Strogoviĉ si contrapponeva alla “verità probabile” delle concezioni  proceduralistiche. La verità materiale, sosteneva Stragovic, “è nel processo penale sovietico una verità nel senso proprio di questa parola…” . Si assiste qui alla messa in scena della transustanziazione del presidente Riches in versione staliniana.

Emerge allora la contrapposizione tra due modelli  alternativi del diritto. La verità cui aspira il modello sostanzialistico, e totalitario, ha scritto Luigi Ferrajoli, “è la cosiddetta verità sostanziale o materiale, cioè una verità assoluta … Viceversa, la verità perseguita dal modello formalistico quale fondamento di una condanna è a sua volta una verità formale o processuale …  Questa verità non pretende di essere la verità, non è conseguibile mediante indagini inquisitorie estranee all’oggetto processuale , è di per sé condizionata al rispetto delle procedure e delle garanzie di difesa”.

Si tratta dunque di una verità che può essere considerata opinabile, e che porta con sé i rischi, ma anche la forza emancipatrice, di quel pensiero critico e antidogmatico che l’illuminismo di Sciascia ha sempre incarnato.

 

 

 

 

 

 

 

 

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