Lo sguardo kantiano sul mondo

Cosa il trascendentalismo ci dice di noi e del mondo

Approcciarsi alla filosofia kantiana — specificatamente alla fase cosiddetta “critica”, è sempre tanto gustosamente arduo quanto consistentemente illuminante, una volta compresa la sua impostazione teoretica. Con questo contributo che stiamo presentandovi, gradiremmo — in modo tanto sintetico quanto speriamo esauriente, delineare in modo efficace le fondamenta della filosofia kantiana; ci dedicheremo particolarmente alla proposta kantiana — esplicitantesi nella Critica della Ragion Pura, circa la questione conoscitiva: che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare?[1]

Seppure possa a ragione dirsi come la Critica della Ragion Pura sia il luogo concettuale di discussione e convergenza ordinata di teorie filosofiche già precedentemente enucleate — da Cartesio a Hume passando per Locke e Berkeley, l’apporto kantiano alla questione spinosa riguardante il rapporto tra le possibilità conoscitive del soggetto ed il mondo è semplicemente qualitativamente incalcolabile: attraverso una esposizione densissima e maniacalmente ordinata secondo una scansione logica che riguarda la costituzione trascendentale del soggetto, Kant rivede interamente la relazione soggetto-oggetto.

Di fatti, nella seconda prefazione all’opera (1787), ben conscio di come quanto avesse operato fosse letteralmente rivoluzionario, Kant, prendendo ad esempio la struttura concettuale della Rivoluzione Copernicana — la quale aveva invertito il secolare dato per assodato geocentrismo di matrice tolemaico-aristotelica, esemplifica così l’inversione del rapporto conoscitivo tra soggetto ed oggetto: se, dapprima, vi era l’oggetto al centro ed il soggetto che gli ruotava attorno conoscendolo, ora c’è il soggetto al centro il quale, con la propria struttura trascendentale, conosce l’oggetto nel modo in cui è predisposto a darselo. Kant chiama «trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli  oggetti in quanto questa deve esser possibile a priori» (Critica della Ragion Pura, Laterza, Bari, 2005, Introduzione, Sez. VII, p.48): in altre parole, il trascendentale evidenzia — concettualmente, tutto quanto riguarda la nostra costituzione in quanto soggetti conoscitivi; non riguarda, quindi, gli oggetti, bensì il nostro modo di conoscerli per come, costituiti a priori in un certo modo, siamo in grado di darceli. Kantianamente, l’apriori è ciò che è «[…] indipendente da ogni esperienza»[2], ovverossia è apriori tutto quanto non sia veniente da dal “di fuori”, dall’esperienza — altrimenti sarebbe kantianamente a posteriori. Focalizzati questi concetti preliminari, è possibile introdurre quelli di “fenomeno” e “noumeno”; ritengo che questa sia la parte più illuminante dell’intero sistema teoretico kantiano. Egli stesso identifica la struttura della propria filosofia trascendentale definendola attraverso la sfera concettuale dell’architettura: «La filosofia trascendentale è l’idea d’una scienza, di cui la critica della ragion pura deve architettonicamente, cioè per princìpi, abbozzare il disegno intero, con piena garanzia di solidità e sicurezza di tutte le parti che compongono un tale edificio» (ivi, p.49); ed infatti, anche solo dando uno sguardo superficiale all’ordinamento dell’opera attraverso i vari indici editorialmente proposti, questa risulta configurata come fosse una struttura della quale le parti si sorreggono vicendevolmente così da creare un edificio solidamente, fermamente, poggiantesi su sé stesso.

Da qui è possibile dedurre come l’intera costituzione del soggetto sia un’ordinata impalcatura le cui parti funzionano poiché presenti le une alle altre: ognuna funziona perché è combaciante con la precedente e la succedente, e tutte insieme, formando quell’edificio complesso ma ordinato qual è l’individuo, permettono a quest’ultimo di essere al mondo per come egli è predisposto ad esservici. Pertanto, il soggetto avrà a che fare solamente col fenomeno, e mai col noumeno: col primo termine, ci si riferisce kantianamente all’oggetto che si manifesta per come appare essere in quanto inerito alla costituzione trascendentale del soggetto che lo accoglie ontologicamente; col secondo, invece, ci si riferisce alla “cosa in sé”, all’oggetto per com’è in-sé-e-per-sé, in quanto irrelato al trascendentalismo del soggetto conoscente.[3] Come lo stesso Kant evidenzia[4], il concetto del noumeno è un concetto limite: delimita, infatti, la portata conoscitiva del soggetto; portata la quale comincia necessariamente con l’esperienza sensibile[5] — come viene adeguatamente argomentato nell’Estetica Trascendentale, e termina con un tentativo di ricontestualizzazione dei limiti della ragione nella Dialettica Trascendentale. Questi limiti, seppur sicuramente evidenzianti la limitatezza stessa della ragione, le offrono al contempo un percorso ordinato che la contenga solidamente entro le sue possibilità conoscitive. Ciononostante, viene esplicitamente da Kant espresso — tanto nella Prefazione alla Prima edizione (1781) quanto nella stessa Dialettica Trascendentale[6], come la ragione tenda ad oltrepassare la sua potenza conoscitiva in modo del tutto naturale: vi è come una tensione irrefrenabilmente sublime all’oltre, a quello che possiamo solo presentire come presente ma mai afferrare nel concetto.

Alla luce di quanto sinora è stato detto, possiamo riconsiderare interamente il senso del mondo — ora intendibile come “fenomenico”: il mondo nel quale viviamo, nel quale siamo gettati, è un mondo plasmato da noi stessi, dai nostri sensi (attraverso le forme pure dello spazio e del tempo) e dal nostro intelletto (attraverso le categorie ed i giudizi); pertanto, il trascendentalismo kantiano è un concetto dai contorni indefinitamente chiaroscuri: se da una parte evidenzia in modo ordinato la nostra struttura di soggetti conoscitivi, dall’altro porta alla disperata conseguenza per cui il soggetto non può che essere intrappolato nella conoscenza di un mondo il quale, più che parlare di sé, parla del soggetto stesso. Non c’è niente, nel mondo, che sia propriamente «del» mondo: tutto quanto viene soggettivamente esperito e conosciuto, è inerito solamente al soggetto; non si può uscire da sé stessi, non ci si può oltrepassare. Addirittura, anche la stessa presenza empirica che ho dell’altro — e di me stesso! — è veniente da un mio modo di darmela per come sono configurato a darmela. Il soggetto, per come kantianamente inteso, è una presenza pervasiva e maledettamente ingombrante: è tutto quanto è presente anche nelle cose che non sono me; è tutto quanto si è e si potrà mai aspirare ad essere: nient’altro che sé stessi.

Lo sguardo kantiano, concludendo, è pertanto uno sguardo al contempo ontologicamente ed epistemologicamente iper-soggettivistico: tutto, del mondo, parla di me, di me in quanto individuo, di me in quanto appartenente al genere umano; il trascendentalismo, quindi, dice tutto del mondo e tutto di me. Tutto, nella misura in cui, inoppugnabilmente, quel mondo è configurantesi a partire da me, ed io non sono altro che quella configurazione, quella funzione[7] — e mai oltre me stesso potrò andare.

[1] Queste, le tre domande che lo stesso Kant ritiene che la ragione abbia l’interesse di porsi — I. Kant, Critica della Ragion Pura, Laterza, Bari, 2005, cap. II, Sez. II, p.495

[2] I. Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, § 36 (IV, 139)

[3] Cfr. I. Kant, Critica della Ragion Pura, Laterza, Bari, 2005, Anal. Trasc., Lib. II, Cap.III, pp.208-13

[4] Ivi,  p.210

[5] «Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza» — ivi, Introduzione, Sezione I, p.33

[6] Cfr. ivi, Dialettica trasc., Introduzione, pp.237-238

[7] Cfr. ivi., Anal. Trasc., Lib. I, Cap. II, Sez. II, § 15-27

Articoli correlati

Inizia a scrivere il termine ricerca qua sopra e premi invio per iniziare la ricerca. Premi ESC per annullare.

Torna in alto