Pena di morte, l’ultimo tabù

Un incubo mi insegue da qualche mese: la tragica notizia di una morte violenta che conquista le prime pagine dei quotidiani, l’indignazione generale che monta, un personaggio pubblico che invoca la reintroduzione della pena di morte.

Il rifiuto della pena capitale è ormai l’ultimo tabù rimasto in piedi del Diritto penale liberale.

La presunzione d’innocenza, i diversi gradi di giudizio, il diritto di difesa, la funzione risocializzante della pena, il divieto di reformatio in peius, il principio di legalità, la prescrizione, il divieto di tortura, sono già stati diversamente messi in discussione, concretamente o teoricamente.

Una volta che si minano le fondamenta di un ordinamento è inevitabile che prima o poi crolli l’intera struttura. In un momento storico in cui prospera una visione autoritaria e forcaiola della Giustizia, il sospettato è già considerato colpevole, le garanzie della difesa vengono percepite come seccature formali, il diritto dell’individuo soccombe dinanzi al bene della collettività, si invocano pene certe ed esemplari e si fomentano politiche securitarie e carcerocentrice, risulta quasi logico invocare l’esecuzione capitale: la pena più certa ed esemplare che ci sia, che asseconda e placa la sete di giustizia (o vendetta).

Perciò non meravigliamoci quando accadrà, manca sempre meno, anzi forse è già successo.

Dopo la tragica vicenda della giovane Desirée un uomo di spettacolo (Francesco Facchinetti) ha citato il Ministro Salvini in un tweet in cui ha invocato “pene definitive ed esemplari per questi individui che non meritano di vivere”. Facile che il pensiero corra alla pena di morte, trattandosi di individui che non meritano di vivere. Il Ministro ha risposto con un tweet in cui ha ringraziato per l’attenzione, definendo come semplice buonsenso e non populismo le parole di Facchinetti, promettendo infine che, nonostante in 4 mesi abbiano già fatto cose buone, il meglio deve ancora venire.

Si obietterà: Salvini non ha invocato la pena di morte. Vero, forse il mio incubo peggiore non si è ancora realizzato, resta però l’ambiguità di quel tweet che asseconda gli istinti peggiori. Questa è forse la cifra della politica comunicativa degli esponenti dell’attuale maggioranza di Governo: abbattere ogni tabù, assecondare le richieste irrealizzabili degli elettori con dichiarazioni social, sapendo benissimo di non poterle poi realizzare, solo per mostrare la vicinanza alle presunte istanze del “popolo”.

Una reintroduzione della pena di morte è, ad oggi, altamente improbabile. La pena capitale è stata bandita dal nostro ordinamento ed è esclusa dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sottoscritta dall’Italia (l’inutile baraccone europeo come l’ha definita lo stesso Ministro Salvinia). D’altronde, di pena di morte in passato si parlava solo al bar sport, adesso i social network hanno dato risonanza agli istinti inconfessabili un tempo esclusi dal dibattito pubblico. Basta leggere i commenti alle notizie di cronaca nera: una sfilza di invocazioni della pena di morte e della tortura.

Quel che più spaventa non è la remota possibilità che la pena capitale venga reintrodotta nel nostro Paese ma la stessa caduta del tabù, il dato di fatto che nel dibattito pubblico se ne parli. Ancor più preoccupante è che si invochi la pena di morte in un momento storico in cui i reati sono in calo e non vi è alcuna reale emergenza sicurezza, se non quella percepita e fomentata dai media, quando non si è ricorsi a tali rimedi nemmeno durante le fasi più buie della Repubblica.

Il vero problema è il boia che si annida in ognuno di noi.

P.S. Un consiglio utile per i sovranisti: ricordate che l’Italia è la Patria di Cesare Beccaria.

«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII).

 

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