25 dicembre 1991. Bandiera russa sul Cremlino

Quando, nel Natale del 1991, la bandiera dell’Unione Sovietica cessò di sventolare sul Cremlino, per essere sostituita dalla bandiera della Russia, furono in molti a chiedersi se tutto ciò derivasse solo dal fallimento della perestrojka di Gorbacoiv, che si proponeva di riformare il primo stato socialista della storia. La caduta dell’URSS, che Putin avrebbe poi definito la più grande catastrofe del XX secolo, fu interpretata dal politologo Francis Fukuyama nel quadro di una Fine della storia. La sconfitta del totalitarismo comunista avrebbe infatti consentito il diffondersi, su scala planetaria, del modello liberale e la storia, intesa hegelianamente come progressiva affermazione della libertà, sarebbe giunta al suo compimento. Al di là della fondatezza di questa tesi, sulla quale lo stesso Fukuyama è tornato criticamente in diverse occasioni, risulta evidente che l’implosione dell’URSS  concluse drammaticamente il ciclo storico di un esperimento politico che ha profondamente inciso sul Novecento, “Quel secolo breve – ha scritto Eric J. Hobsbawn – che va dal 1914 alla fine dell’Unione Sovietica”.

L’elezione di Gorbaciov alla segreteria del Pcus, nel marzo del 1985, diede inizio a un rinnovamento degli apparati sovietici senza tuttavia metterne radicalmente in questione l’impianto leninista. La perestrojka e la glasnost, gli slogan che caratterizzarono il XXVII Congresso del Partito, nel 1986, rappresentavano, infatti, per Gorbaciov, le strategie più adeguate per rivitalizzare il progetto leninista, a partire dalla NEP.

La sua volontà di estendere la partecipazione democratica è testimoniata dalla riforma costituzionale, che consentirà, nel 1989, di eleggere un Congresso in cui il numero dei deputati riformisti avrebbe poi superato di gran lunga i tradizionali rappresentanti del Pcus. A Mosca, la società civile incideva però in minor misura rispetto a quanto avveniva nell’Europa socialista, dove si assisteva a mutamenti politici in senso democratico che, ad eccezione del caso romeno, non assumevano un carattere violento. Non vi era più, infatti, il timore di un intervento militare sovietico, come era accaduto nel 1953 a Berlino, nel 1956 a Budapest, nel 1968 a Praga.

Nel 1989 i paesi satellite avevano superato la tradizionale condizione di subalternità rispetto all’Unione Sovietica. Ralf Dahrendorf ricorda che il 25 ottobre di quell’anno, a chi gli chiedeva come si sarebbe comportata l’URSS rispetto agli alleati recalcitranti, il portavoce della politica estera sovietica, Gennadij Gerasimov, rispondeva contrapponendo alla dottrina Breznev, adottata fino ad allora, quella che chiamava, ironicamente, la “dottrina Sinatra”.  Gerasimov si riferiva alla canzone di Frank Sinatra My way (A modo mio), per dire che, da quel momento, ogni paese avrebbe potuto decidere autonomamente la strada da seguire.

L’abbandono della dottrina Breznev portava con sé un mutamento radicale nel rapporto tra i paesi del blocco socialista e l’URSS. Se la minaccia sovietica aveva prima frenato e represso ogni tentativo di cambiamento, adesso era la struttura stessa dello stato socialista ad esser messa in discussione, dalla DDR alla fedelissima Bulgaria. I nazionalismi che si affermarono dopo la caduta del Muro di Berlino, furono sostenuti, non solo da varie componenti della società civile, ma anche da rappresentanti dell’élite politica, consapevoli del fatto che l’esigenza di sganciarsi da Mosca era ormai largamente condivisa. Il passaggio, nei Paesi dell’Est, dal comunismo a forme di democrazia che guardavano all’Occidente capitalista, produsse inevitabilmente i suoi effetti sulla tenuta dell’Unione.

La decisione dei lettoni di abbandonare l’Unione, ratificata quasi all’unanimità dal Parlamento, nel 1990, fu presto condivisa da altre Repubbliche.  Le riforme di Gorbaciov, davano luogo, così, a conseguenze inattese. Elstin, oltrepassando le posizioni di Gorbaciov, si propose come fautore di una democrazia radicale, che i conservatori non potevano accettare. Le sue istanze si saldarono poi con le rivendicazioni nazionaliste, contro il centralismo sovietico. Il contrasto con Gorbaciov divenne sempre più evidente. Se l’URSS intendeva esercitare un ruolo di supremazia verso le Repubbliche, queste erano gelose custodi della loro indipendenza, come dimostra l’intesa tra Russia, Ucraina e Kazakistan e il loro reciproco riconoscimento. L’elezione di Elstin a presidente della Russia, con ampio consenso, legittimò ulteriormente l’incontro fra democratici e nazionalisti.  Gorbaciov, il cui moderato riformismo aveva deluso molte aspettative, si trovava ad essere il presidente di quell’Unione da cui la Russia di Elstin e le altre Repubbliche volevano rendersi indipendenti. Nello sviluppo di queste vicende giocò un ruolo decisivo l’unificazione tedesca e la fine della DDR. Gorbaciov, in un incontro con all’allora segretario di stato americano James Baker, dichiarò che la Germania unita, all’interno della NATO, avrebbe potuto causare la fine della perestrojka. Se non poté impedire l’unificazione tedesca e dunque la fine della DDR, riuscì però, ha scritto Tony Judt, a “estorcere, nel senso letterale della parola, un prezzo per le sue concessioni”. Rispetto ai venti miliardi di dollari, richiesti per non porre ostacoli ai negoziati, ne ottenne otto e altri due in crediti senza interesse.

La caduta del Muro di Berlino, i rapidi mutamenti di regime nell’Europa orientale e l’unificazione tedesca innescarono quel processo che condusse alla fine dell’URSS. La destalinizzazione, inaugurata da Krusciov in seguito al XX congresso, non aveva comportato un parallelo rinnovamento nell’ambito della politica economica, ancorata al collettivismo. Le timide aperture di Gorbaciov verso modelli economici competitivi, che deludevano i liberali e spaventavano i conservatori, non riuscivano a scalfire un sistema che, per essere riformato, avrebbe richiesto misure ben più incisive. Non sarebbe accaduto così in Cina, dove Den Xiaoping scelse di adottare una forma di capitalismo che coesisteva con la centralità del Partito, coniugando totalitarismo e mercato. Gorbaciov, cercando di democratizzare il Pcus, si scontrò con i conservatori, che difendevano i loro privilegi e con i liberali, che auspicavano una democrazia pluralista. La perestrojka si dimostrò inadeguata rispetto alle attese della società civile e al variegato mosaico delle nazionalità, che andò in frantumi nel momento in cui il centralismo del Pcus venne meno.

Il colpo di stato dell’agosto del 1991, finalizzato a fermare questo percorso, che veniva percepito dai conservatori come una minaccia alla stessa sopravvivenza dell’URSS, ne segnò in realtà la fine. Gli otto componenti del Comitato statale per lo stato di emergenza erano figure apicali del sistema gorbacioviano, dal primo ministro ai ministri della difesa e dell’interno, dal capo del KGB a importanti rappresentanti del mondo della produzione industriale e agricola.  L’intervento di Eltsin, che riuscì a mobilitare vasti settori dell’opinione pubblica, fu fondamentale per fermare i golpisti, ma il colpo di stato fallì anche a causa dell’improvvisazione con cui era stato organizzato. In realtà, l’idea di decretare uno stato d’emergenza, per arginare il processo di frammentazione dell’URSS, era diffusa da qualche tempo in ambienti vicini allo stesso Gorbaciov.

Il putsch ebbe conseguenze che i congiurati non avevano assolutamente previsto. Apparve chiaro, infatti, che il ruolo del Pcus era ormai marginale e che la pubblica opinione si riconosceva in un orientamento riformista. L’immagine di Gorbaciov divenne sempre più evanescente, lasciando spazio al vigore del populismo autoritario di Eltsin, che volgendo le spalle al comunismo, adottò una spregiudicata politica di privatizzazione delle imprese statali. Ciò produsse un grande disagio sociale e una sorta di modernizzazione forzata della società russa.

Dopo la morte di Stalin, i leader sovietici, pur prendendo in forma diversa le distanze dal dittatore, erano rimasti legati all’economia pianificata. Nella Russia postsovietica, da Eltsin a Putin, l’élite dominante si è identificata con i rappresentanti dell’apparato, nonostante si dimostri aperta alle logiche del mercato. Putin è stato un funzionario del KGB e le figure di spicco della vita politica russa e delle altre Repubbliche sono, per lo più, ex dirigenti del Pcus o di altre istituzioni sovietiche. Diversamente da quanto avviene oggi in Germania, in cui è possibile consultare gli archivi della Stasi, in Russia è rigorosamente precluso l’accesso agli archivi del KGB. Il rifiuto di una discontinuità rispetto al passato è certamente legato al fatto che il comunismo, come tutti i regimi totalitari, non si è limitato a sottomettere con la forza i cittadini, ma li ha coinvolti, promuovendo forme di collaborazione in cui la delazione è stata largamente praticata. Tutto ciò non ha favorito l’esigenza di fare i conti col passato.

La fine dell’URSS ha generato un diffuso risentimento, avvertito in quasi tutti gruppi sociali. È questa la ragione per cui i nazionalisti, pur ostili al comunismo, non riescono a nascondere una certa nostalgia verso la Russia imperiale, ma anche verso il ruolo di potenza mondiale che l’URSS ha esercitato nel Novecento. Il vasto consenso di cui gode Putin si fonda proprio su tale sentire e la sua visione politica assume l’aspetto autoritario di una democrazia che egli stesso definisce “controllata”, una declinazione di quella “democrazia illiberale” che caratterizza oggi, in misura diversa, i paesi del Gruppo di Visegràd. I “valori europei”, che si possono identificare con lo Stato di diritto, con la trasparenza istituzionale, con i diritti civili, non trovano riconoscimento, infatti, nella “Mosca di Putin”. Ecco perché la Russia postsovietica può apparire, come scriveva Tony Judt, un “impero euroasiatico”.

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