Stati Uniti e Cina: chi conduce il gioco?

A distanza di un decennio, due crisi planetarie, quella economica derivata dall’emergenza sanitaria in corso e quella finanziaria del 2008, hanno fatto vacillare il sistema capitalista della produzione e della società. Il ripiegamento del gigante statunitense su questioni che in maniera selettiva collocano al centro interessi domestici, lasciando esorbitanti spazi di vuoto sul piano internazionale, il consolidamento del peso della Cina nella geopolitica, e l’allontanamento progressivo dell’Europa dai luoghi del potere, pongono alcuni interrogativi rispetto al futuro. In quale forma si vanno ricomponendo le leadership, i modelli di sviluppo e le catene di valore? Chi conduce il gioco?
Il vertice del G20 nel 2008, convocato da George W. Bush, per generare una risposta coordinata al crack, ha rappresentato un tentativo di articolazione di dialogo e ricerca di strategie comuni, che non trova corrispondenza nell’attualità. Infatti, sin dal 2009, l’ordine pattuito alla fine del secondo conflitto mondiale aveva cominciato a sgretolarsi con Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che davano vita alla prima coalizione – Brics – non tutelata da vecchie e nuove egemonie di stampo coloniale, con aspirazione di influenza globale. E nel 2013, la Cina si era già smarcata con il progetto della Via della Seta, che prendendo le mosse dal bacino asiatico, è arrivato ad attrarre 141 paesi.
Durante il crollo indotto dalla bolla speculativa, gli Stati Uniti, da una posizione di dominio nella sfera degli affari, hanno contratto il Pil a -2.5 per cento e sono potuti ripartire solo nel 2010. La Cina, invece, si è mantenuta solida, crescendo fra il 9 e il 10 per cento. In questa fase, è riuscita a installarsi come la prima potenza manifatturiera, per contro alla deludente performance dei membri del G7. Le imprese cinesi si sono avviate a un’espansione inarrestabile e, in parallelo, è stata accelerata l’acquisizione di titoli del tesoro americano. La Cina, inoltre, si è procurata il sumministro di materie prime realtà diverse: minerale di ferro brasiliano, bronzo cileno e peruviano, petrolio venezuelano e brasiliano, nonché iracheno, angolano e saudita, assicurando un legami mercantili e politici di doppio filo.
Il salto risolutivo si misura dal momento in cui le multinazionali cinesi hanno iniziato a competere con l’industria di punta degli Stati Uniti, costituita da prodotti e servizi tecnologici, con investimenti aggressivi e sostenuti. L’avvicendamento di ruolo provocato da questa guerra commerciale viene catturato dalla classifica Global 500 della rivista Fortune dove risultano 119 imprese cinesi su 121 americane in prevalenza nei settori bancari, dell’ingenieria e le opere di infrastruttura nei continenti chiave dell’Asia, l’Africa e l’America Latina, e le telecomunicazioni. In quest’ultimo, fra le cinque maggiori compagnie per vendita, resiste Apple, che ha dovuto cedere il podio, avendo Huawei guadagnato la sua quota in Cina. A Microsoft, Amazon e Facebook si contrappongono Baidu, Alibaba e Tencent.
E se l’occidente persiste con il dogma dell’aumento del profitto per azione a breve scadenza, le imprese cinesi si concentrano sulla creazione di valore con obiettivi intermedi e di lungo termine, e il controllo della struttura dei costi in tutte le sue componenti essenziali: elettricità, combustibile, salari. Persino al livello più alto, la media del compenso dei Ceo delle imprese cinesi non arriva al mezzo milione di dollari, mentre che quello degli americani è di 13 milioni.
Sebbene si reclami e pretenda che la Cina segua le regole del capitalismo neoliberale, vigenti per i competitori, senza che vi sia un incentivo reale, e considerato il suo evidente successo, non è plausibile che ciò avvenga. Quello a cui stiamo assistendo è una battaglia per un paradigma, la cui battuta con probabilità verrà determinata dagli avvenimenti in atto nei mercati emergenti, nei quali si sta, per esempio, utilizzando per la prima volta lo strumento del quantitative easing, come in Indonesia e Colombia, dove le banche centrali stampano valuta locale per acquistare il debito dello stato.
Tantomeno si possono sottovalutare i limiti delle dottrine del consenso di Washington imposte ai paesi insolventi, fattisi manifesti nella gestione dell’impatto del lockdown. Nel 2008, nonostante tutto, i principi difesi dal Fondo Monetario Internazionale non vennero messi in discussione, la pandemia, al contrario, sta ingrossando le file di critici e oppositori. I governi stanno intervenendo con pacchetti fiscali espansivi, protezione delle imprese e sostegno ai gruppi vulnerabili.
In questo clima da “si salvi chi può”, il G20 sotto la presidenza dell’Arabia Saudita non ha sortito effetti.
La fragmentazione corre sull’asse nord-sud, dentro l’occidente e all’interno delle stesse nazioni, proprio quando ci sarebbe necessità di coesione e scommesse coraggiose. Il susseguirsi delle rappresaglie della guerra tecnologico-commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina muove blocchi di schieramento, ma la gran parte degli attori, inclusa l’Unione Europea, non ha sul proprio tavolo una agenda decisiva per l’innovazione digitale e sta a guardare.
Durante il picco del contagio, negli Stati Uniti sono stati persi oltre 22 milioni di posti di lavoro, di cui 7.5 riguadagnati nei passati due mesi; il tasso di disoccupazione, pur sceso dall’11.1 al 10.2 per cento, supera ancora il dato più alto della recessione 2008-2009. Al contempo, l’economia cinese è incrementata del 3.2 per cento nel secondo trimestre dell’anno e Pechino rilancia investimenti nelle reti 5G, veicoli elettrici, intelligenza artificiale e riconoscimento facciale. Fra globalizazzione e de-globalizzazione, il dollaro e il renminbi, due forze antagoniste cercano di affermarsi. Le tendenze, se confermate, appuntano a un possible vincente.

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