Scegliere, scegliere, scegliere

“Ciò che scegli è ciò che diventi”, più o meno in questi termini migliaia di anni fa Eraclito ci sbatteva in faccia l’importanza delle nostre scelte. Si sa operare una scelta è estremamente complicato: ogni scelta porta con sé un carico di conseguenze che possono ricadere tanto su chi la assume ma anche su altri. Forse per questo si preferisce spesso la strada ignava e lasciva del disimpegno morale: lasciar perdere, far decidere gli altri, non interessarci.

È un po’ quello che sta accadendo in Italia dove i rappresentati non hanno più voglia di scegliere i propri rappresentanti. Ad ogni tornata elettorale (ma anche referendaria) ci ritroviamo come unico vero vincitore l’astensionismo. I colpevoli per tutti, anche stavolta, siedono tra i banchi del Parlamento, rei di aver indotto il popolo a disinteressarsi dei processi democratici.

Si può dire, senza timore di smentita, che le ultime legislature hanno visto confermata la “Legge di Martino”, per cui ogni legislatura è migliore della successiva e peggiore della precedente. A questo perpetuo tracollo della qualità politica, si sommano alcuni deficit legislativi ormai ben noti a tutti da anni. Dal susseguirsi di leggi elettorali poco trasparenti (2 delle ultime 4 sono state dichiarate dalla Consulta parzialmente incostituzionali) e non garanti di maggioranze coese, essenziali per Governi stabili ed efficienti (in 18 legislature abbiamo avuto 67 governi diversi); all’assenza inspiegabile nel nostro ordinamento del voto a distanza (digitale o da seggio diverso) presente in quasi tutte le democrazie occidentali.

Al netto di tutto questo, le cause dell’astensionismo non sono frutto solo di una “disaffezione alla politica per colpa dei politici”; bensì forse maggiormente di un problema culturale che potremo definire come la disaffezione, tanto per usare lo stesso termine, al diritto e alla libertà di scelta individuale da parte dei consociati.

Senza fare un excursus storico, il diritto di scelta libera e individuale, può essere considerato il vero caposaldo del liberalismo nato dagli illuministi scozzesi nel 700 per abbattere il mito del “grande legislatore onnisciente”. La scelta individuale, per i filosofi morali scozzesi, semplificando, significa la migliore allocazione possibile di risorse e conoscenza, considerata la fallibilità dell’uomo. L’interazione tra scelte individuali, sotto i nomi di domanda e offerta, porta, in economia, al libero mercato.

Ma cosa c’entra tutto questo con l’astensionismo?

Nel 900 alcuni importanti scienziati sociali (James Buchanan grazie ad alcuni postulati su questa teoria fu premiato con il Nobel nel 1986) svilupparono la teoria della scelta pubblica (Public choice), parte della quale ci dice che in una democrazia, il meccanismo che muove politici e elettori è identico al meccanismo che muove produttori e consumatori nel mercato: un vero e proprio “mercato dei voti”.

I politici non vengono considerati come benevoli monarchi illuminati che perseguono prioritariamente il benessere collettivo. Bensì attori razionali guidati anche da interessi egoistici: il principale essere rieletti.

Per essere eletti i politici proveranno a soddisfare le richieste dei votanti, questo comporta una serie di problematiche: non sempre il desiderio dei votanti è compatibile con la ragione di Stato ( qui entrano in ballo fattori come “l’istruzione dell’elettorato” e non è questa la sede per affrontare l’argomento), ma soprattutto al contrario del mercato classico, nell’ambito delle decisioni collettive, non può mai esserci una corrispondenza così precisa tra l’azione individuale e il risultato. Il votante riconoscerà l’esistenza di costi e benefici associati all’intervento pubblico, ma né la sua parte di benefici, né la sua parte di costi possono essere da lui stimati con una facilità paragonabile a quella delle scelte di mercato. In sintesi, non tutti riescono ad ottimizzare le proprie richieste, ma quantomeno possono influenzare i rappresentanti nell’accogliere quelle istanze.

Sotto questa lente astenersi dal voto diventa estremamente controproducente, altro che “segnale alla politica”. Basti pensare che, dati 2 schieramenti chiamati brutalmente” Male” e “Zero” in base a qualsiasi criterio, sia esso etico o anche solo egoistico, di tutela delle proprie istanze, con 20 voti su una base di 60 il “Male” avrà 1/3 dei seggi; qualora la base si allargasse a 100 votanti i seggi del “Male” diverrebbero 1/5. Ciò significa che astenersi favorisce paradossalmente la parte per cui non vorremmo votare mai e sfavorisce quella che, anche in minima parte, potrebbe tutelare i nostri interessi.

C’è da dire che il meccanismo non è valido per gli istituti di democrazia diretta ove sia previsto un quorum, come i Referendum nel nostro Ordinamento (a parte quello confermativo). Per questo tra i deficit normativi di cui sopra, ci sentiamo di inserire anche l’abrogazione del “raggiungimento del quorum”, in modo da sensibilizzare i cittadini verso la responsabilità dell’astenersi.

Così il costituzionalista Zagrebelsky, in un suo editoriale: “Il voto è un mercato. La parola può sembrare odiosa e lo è se il “bene” offerto è il favoritismo, il patronage d’interessi particolari a danno di quelli comuni, il clientelismo, la promessa d’illegalità, la corruzione, la partecipazione in opache strutture d’interessi…La merce offerta sul mercato elettorale può, tuttavia, essere altra: onestà, esperienza, competenza, idee e ideali concreti di vita comune. Questa è la merce che manca al popolo di chi si astiene”.

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