La distruzione che crea: Aghion, Mamdani e il cuore inquieto del nuovo capitalismo

C’è un filo che unisce l’aula di Stoccolma e le strade di New York.
Da un lato, Philippe Aghion, l’economista che ha ricevuto il Nobel per aver spiegato come la crescita nasca dal conflitto, non dall’armonia. Dall’altro, Zohran Mamdani, il nuovo sindaco di una città che è da sempre un laboratorio del capitalismo mondiale. Due mondi lontani che raccontano la stessa storia: quella di un sistema che sopravvive solo distruggendo se stesso, rigenerandosi a ogni collasso.

Negli anni Novanta, quando il mondo credeva ancora nella pace perpetua dei mercati, Aghion elaborava la teoria che avrebbe cambiato il modo di leggere la crescita economica. Insieme a Peter Howitt costruiva il modello della “crescita endogena schumpeteriana”, dove il progresso non è un dono esterno ma una spinta interna del sistema, generata da innovazione, concorrenza e rischio.
È la distruzione creatrice di Schumpeter resa scienza: un meccanismo in cui ogni nuova idea cancella quella precedente, in cui l’equilibrio è un miraggio e la sopravvivenza passa per la capacità di cambiare forma.

Aghion non parla solo di numeri, ma di civiltà. La sua teoria è un racconto sul destino dell’Occidente: crescere significa accettare di perdere qualcosa, di lasciare indietro chi non riesce a tenere il passo. La modernità, nella sua visione, non è un pranzo di gala: è un terremoto che si ripete, un ciclo di rinascite e fallimenti.
E in questo, New York è il suo specchio più fedele.

Da sempre la città vive come l’economia di Aghion: nella frizione costante tra creazione e rovina. Ogni epoca ha la sua skyline, ogni generazione la sua Manhattan. Quando Mamdani conquista il municipio, porta con sé l’eco di quella teoria. Non è un tecnocrate, ma un politico che ha capito che il potere non si eredita, si reinventa.
La sua vittoria non è solo una svolta progressista: è un atto di distruzione creatrice nel senso più pieno. Spezza il vecchio equilibrio, ribalta le rendite politiche, apre il gioco a nuovi attori.

New York cambia ogni volta che qualcuno osa toccarla.
Le amministrazioni passano come cicli economici, ognuna promettendo stabilità e finendo per alimentare il caos vitale che tiene in piedi la città. Mamdani governa un organismo che non smette di rigenerarsi, un sistema in cui la disuguaglianza è strutturale e la competizione culturale, finanziaria e sociale è l’unica forma di movimento.
Eppure, come Aghion insegnava, l’innovazione senza inclusione è sterile. La crescita ha senso solo se riesce a trasformarsi in opportunità diffusa.

Ma forse il punto più radicale del pensiero di Aghion, e il più attuale per chi governa oggi, è che la distruzione creatrice non è solo un fatto economico, ma un fatto antropologico. È la forma che prende l’adattamento umano nell’era della complessità: il modo in cui una società prova a restare viva dentro un sistema che cambia più in fretta della sua cultura. In fondo, ciò che chiamiamo innovazione non è altro che la nostra lotta contro l’entropia.
Chi governa, in questo contesto, non può più affidarsi solo al buon senso o all’intuito politico. Servono teorie, serve una comprensione profonda dei meccanismi economici che regolano il cambiamento. Perché, come dimostra Aghion, anche le decisioni più pragmatiche hanno radici teoriche, e ignorarle significa governare a occhi chiusi.

Bloomberg, da questo punto di vista, fu l’eccezione che conferma la regola: un amministratore che portò nel municipio la razionalità dei mercati. Usò i dati come altri usano le ideologie, trasformò la gestione urbana in un laboratorio di efficienza e pianificazione. Non tutto funzionò, ma la sua intuizione rimane cruciale: senza una visione economica, la politica diventa solo manutenzione dell’esistente. Mamdani sembra partire proprio da lì, provando a rimettere insieme il rigore del calcolo con la spinta del cambiamento sociale.
In questo senso, non amministra una città: orchestra una transizione evolutiva, tentando di dare un ordine politico al disordine creativo che tiene in piedi New York.

E poi c’è un aspetto più oscuro, quello che Aghion lascia tra le righe: la distruzione creatrice non è un processo incruento.
Ogni innovazione genera perdenti. Ogni rinascita ha un costo umano.
New York lo sa. I suoi cicli di prosperità sono sempre stati accompagnati da ondate di espulsione, gentrificazione, fallimenti. La città vive sul bordo del sistema, alimentata da una continua selezione naturale. È la sua forza e la sua condanna.

Forse, allora, il vero significato del Nobel ad Aghion sta nel ricordarci che il capitalismo non è mai davvero in equilibrio, e che ogni tentativo di stabilizzarlo è illusione.
L’unica vera costante è il cambiamento.
E in questo, Mamdani e Aghion parlano la stessa lingua: quella del rischio.
Uno lo teorizza, l’altro lo governa. Entrambi sanno che fermare la trasformazione equivale a morire.

New York non ha paura di cambiare perché ha imparato che solo cambiando resta viva.
Aghion lo ha scritto con la precisione dell’economista, Mamdani lo sta vivendo con la fragilità del politico.
E in mezzo, tra la teoria e la città, resta la stessa verità inquieta:il futuro non si costruisce, si distrugge e si ricrea, ogni volta da capo.

Si è laureato in Banking and Finance presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da molti anni lavora nel mondo della finanza tra Londra, Milano e Parigi. È membro del BNP Innovators Program, iniziativa dedicata allo sviluppo di progetti di innovazione tecnologica nel settore bancario. Appassionato di economia, tecnologia e politiche pubbliche, partecipa attivamente a iniziative di volontariato e di partecipazione politica.
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