Humboldt e la libertà dell’individuo nello Stato

Friedrich Wilhelm Christian Carl Ferdinand Freiherr von Humboldt, noto più semplicemente come Wilhelm von Humboldt nasce a Potsdam il 22 giugno 1767 e muore a Tegel l’8 aprile 1853; il padre era un ufficiale prussiano, nominato poi ciambellano della corte prussiana per i meriti acquisiti nel corso della guerra che, per sette anni, tra il 1756 e il 1783, aveva sconvolto l’Europa in quella che Churchill, anni dopo, avrebbe chiamato la prima vera guerra mondiale, avendo coinvolto anche alcuni alleati locali dell’India e dell’America del Nord, e avendo assunto le caratteristiche di una vera e propria guerra totale a oltranza

Quella guerra, che si concluse con una serie di paci separate, segnò il declino dell’influenza coloniale francese nelle Americhe e in India, e l’affermarsi dell’influenza coloniale inglese; a sua volta la Prussia s’ingrandì e si avviò a diventare una grande potenza europea insieme alla Russia.

Il fratello minore di Wilhelm, a nome Alexander, fu un grande naturalista, esploratore e geografo; Wilhelm fu invece un linguista, un diplomatico, un politico e un filosofo (oggi si direbbe forse un politologo); fu amico di Goethe e di Schiller e dell’intellighenzia del tempo, e nel 1789, poco dopo la presa della Bastiglia, si recò a Parigi dove partecipò a qualche seduta dell’Assemblea Nazionale nata dalla rivoluzione.

Frequentò la Facoltà Giuridica di Gottinga, studiò le opere di Kant, fu diplomatico in Francia; in Prussia, fu dirigente del ministero dell’istruzione dell’educazione tra il 1809 e il 1810, e in tale incarico, riformò il sistema scolastico, fondando l’università che tuttora porta il suo nome, nella quale chiamò a insegnare grandi maestri dell’epoca (Savigny, Scleiermacher, Fichte).

Rappresentò la Prussia come plenipotenziario al congresso di Praga del 1813, e poi alle trattative di pace di Chatillon e di Parigi nel 1814; insieme al cancelliere Hardenberg, rappresentò la Prussia al Congresso di Vienna del 1814-1815, che, dopo la conclusione delle guerre napoleoniche, avrebbe ripristinato l’ancien régime.

Servì lo Stato prussiano fino al 1819, allorché si ritirò a vita privata essendosi trovato in dissenso rispetto alla politica reazionaria che si era rafforzata in Europa dopo il congresso di Vienna; si ritirò allora nel suo castello di Tegel, dove approfondì gli studi linguistici, e dove morì nel 1835, sembra per le conseguenze del morbo di Parkinson.

In quest’occasione, non ci occuperemo di Humboldt come linguista, ma soltanto dei suoi studi sulla struttura dello Stato e sul rapporto tra Stato e individuo.

Per comprendere la novità della costruzione intellettuale di Humboldt, dobbiamo pensare alla situazione politica del tempo, in cui lo Stato pretendeva dall’individuo assoluta obbedienza, con totale rinunzia a ogni autonomia e libertà, sino al punto di farlo diventare una sorta di ingranaggio anonimo della società.

In tale contesto sociale, ben si comprende come gli eventi rivoluzionari maturati in Francia abbiano attirato l’attenzione degli osservatori più attenti e disponibili a recepire le novità politiche che venivano dalla rivoluzione dell’89; ed è proprio sotto la spinta degli eventi rivoluzionari francesi che Humboldt scrisse nel 1792 le sue due opere politiche più importanti sotto il profilo politico e istituzionale.

Nell’agosto del 1791 Humboldt scrisse una lettera al suo amico Friederich Von Gentz, affrontando il tema del costituzionalismo, che in quel momento era al centro del dibattito nell’Assemblea Nazionale francese, che si apprestava ad esitare la Costituzione liberale del 1791.

Gentz era un giovane funzionario prussiano, suo quasi coetaneo, (essendo nato nel 1763); i due  si erano conosciuti nel 1790, entrambi si sentivano attratti dagli eventi rivoluzionari francesi, e divennero amici, dando vita, tra il 1790 e il 1791 a un fitto scambio di corrispondenza, di cui restano solo tre lettere di Humboldt e nessuna di Gentz; fu uno tra i tanti intellettuali dell’epoca che vedevano nella rivoluzione francese il risveglio dell’individuo, sino ad allora oppresso dai regimi autoritari che governavano gli stati europei, ma, come capitò a tanti altri, inizialmente affascinati e poi delusi, ne divenne un feroce critico quando gli eventi rivoluzionari andarono sfociando nell’instaurazione di una nuova dittatura, e allora ridiventò un fautore del legittimismo dei sovrani del tempo.

Anche Gentz era un intellettuale, che l’anno successivo sarebbe diventato famoso per avere tradotto e commentato il libro “Reflections on the revolution in France” scritto dall’irlandese Edmund Burke, filosofo e scrittore ma anche politico, essendo stato per molti anni eletto alla Camera dei Comuni in rappresentanza del partito liberale Whig, avversario dei Conservatori.

Gentz fu poi fautore di un movimento nazionale in appoggio alla politica antifrancese dell’Inghilterra, motivo per il quale dovette abbandonare la Prussia, riparò in Austria, dove divenne segretario particolare del cancelliere Metternich, partecipando al congresso di Vienna come capo del protocollo; negli ultimi anni della sua vita abbandonò in parte le sue idee legittimistiche e prese posizione in favore dei polacchi contro lo zar, e dei belgi contro gli olandesi; fu esponente del romanticismo economico e scrisse il libro “Essai sur l’état de l’administration des finances et de la richesse nationale de la Grande Bretagne “.

La lettera di Humboldt a Gentz fu pubblicata in una rivista berlinese nel gennaio del 1792 in forma anonima col titolo “Idee per una Costituzione politica suggerite dalla nuova Costituzione francese”, e divenne poi il suo primo saggio politico intitolato “idee sulle Costituzioni dello Stato”, dove Humboldt esprime la sua convinzione della necessità che ogni Stato si dia una Costituzione, che in qualche modo ne limiti la sfera di attività.

E tuttavia, Humboldt non recepisce totalmente il c.d. “apriorismo rivoluzionario”, fatto di radicalità razionalistica che si andava affermando in Francia man mano che la Rivoluzione fagocitava i suoi principi, e con essi anche buona parte dei suoi protagonisti; ritiene piuttosto che il costituzionalismo debba anche tenere conto della necessità di un approccio gradualistico che eviti la conflittualità tra Stato e cittadini.

Quasi subito dopo Humboldt esita quella che possiamo considerare la sua opera principale “il Saggio sui limiti dell’attività dello Stato”, scritta nel 1792 (ma pubblicata postuma solo nel 1851), in cui traspare l’influenza della Costituzione francese di quell’anno, e soprattutto del costituzionalismo di Honoré-Gabriel Riqueti de Mirabeau, i cui discorsi all’assemblea nazionale francese Humboldt aveva avuto modo di ascoltare e ammirare.

Il conte di Mirabeau era fisicamente di brutto aspetto, aveva avuto un’infanzia malaticcia e poi una vita dissoluta, che all’epoca aveva fatto scandalo, sino al punto che, per sottrarlo ai creditori, il padre l’aveva fatto rinchiudere in un castello, da cui era fuggito per rifugiarsi nei Paesi Bassi; era stato anche condannato a morte in contumacia, e poi rinchiuso nel castello di Vincennes, e durante la prigionia aveva scritto alcuni dei suoi articoli contro i Regnanti di Francia.

Quando il re Luigi XVI, nel tentativo di sedare le spinte rinnovatrici della società francese, convocò nel 1789 la riunione degli Stati Generali (nobiltà, clero e borghesia), Humboldt, rompendo la tradizione secondo cui ciascun candidato si sottoponeva al voto del rispettivo “Stato”, e quindi, nel caso di Humboldt, quello della nobiltà cui apparteneva per nascita, egli, in polemica coi nobili si presentò come candidato e venne eletto come rappresentante del Terzo Stato, il ceto borghese.

Fu tra i più brillanti oratori di quel periodo, e i suoi discorsi erano in chiave sostanzialmente liberale, preoccupato in particolare degli eccessi che il fronte rivoluzionario giacobino si apprestava a consumare, sino al punto che divenne sostenitore di una monarchia costituzionale.

Poco dopo essere stato eletto presidente dell’assemblea nazionale, Mirabeau morì improvvisamente nel 1791, ad appena 42 anni, forse avvelenato, e la sua morte inferse un duro colpo alle residue speranze della monarchia di potersi mantenere anche nel nuovo contesto rivoluzionario; e possiamo immaginare che quella prematura morte gli abbia risparmiato di condividere la sorte di tanti ex monarchici, divenuti repubblicani moderati, che furono messi a morte nel breve, ma sanguinoso, periodo del terrore giacobino.

Anzi, fu inizialmente seppellito con tutti gli onori al Pantheon di Parigi, da dove la sua salma fu poi rimossa nel 1794, quando si scoprirono alcuni documenti dai quali emergevano i suoi contatti segreti col re e con la regina; la sua salma fu esumata, dispersa, e mai più ritrovata.

Poco prima di morire, Mirabeau aveva scritto un saggio, pubblicato postumo col titolo “Travail sur l’éducation publique, trouvé dans les papiers de Mirabeau l’ainé”, in cui l’autore metteva in guardia dall’idea che lo Stato dovesse indicare come gli individui dovevano comportarsi; ed è proprio ciò che sarebbe poi accaduto in Francia con la costituzione del 1793, nel cui art. 27, si stabilì il principio che “ogni individuo che usurpa la sovranità, sia all’istante messo a morte dagli uomini liberi”.

Proprio richiamando quel saggio, Humboldt inserì poi nel suo libro una citazione di Mirabeau, ricordando che “il difficile è di non promulgare che leggi necessarie, di restare sempre fedele a questo principio veramente costituzionale della società, di mettersi in guardia contro il furore del governare, la più funesta malattia dei governi moderni”; una frase profetica, questa, che può essere riferita anche al giorno d’oggi, in cui le società, anche la nostra, sono percorse dalla tentazione di delegare all’uomo forte del momento il massimo del potere, nell’illusione di migliorare  l’efficienza del governare, quando invece se ne implementa soltanto la possibilità di abusarne.

Il colpo di stato del 9 termidoro (che corrispondeva al 27 luglio 1794) pose fine alla dittatura di Robespierre e dei suoi seguaci, e la rivoluzione, come sappiamo, s’incamminò in un’altra direzione, sfociando poi nella fase napoleonica, che ne azzerò, insieme agli estremismi rivoluzionari, anche le aspirazioni liberali.

Proprio da quella prima fase magica della rivoluzione, che aveva posto al centro dell’interesse nazionale la personalità dell’individuo, ma anche dalla successiva tragica involuzione nella stagione del terrore, con la prevalenza assoluta della volontà generale e del bene comune, con la morte tanti presunti oppositori, Humboldt  trasse spunto per quella che possiamo considerare la sua opera principale, almeno sotto l’aspetto dei limiti all’autorità statale, che è quello che qui interessa: il “Saggio sui limiti dell’attività dello Stato”, scritto nel 1792, ma pubblicato postuma solo nel 1851, in cui traspare l’influenza della costituzione francese di quell’anno, e soprattutto del costituzionalismo liberale di Mirabeau.

Le idee di Mirabeau, e, possiamo immaginare, anche quelle di Gentz, ebbero molta influenza su quel saggio, in cui Humboldt tracciò una precisa linea di demarcazione tra ciò che doveva competere allo Sato e ciò che doveva restare riservato all’autonomia dei privati, che allora in Prussia erano ancora considerati come sudditi, ma che la rivoluzione francese aveva già promosso a cittadini.

Per l’epoca, e per il contesto sociale nel quale viveva, una tale distinzione dovette apparire rivoluzionaria, perché tendeva a introdurre dei veri e propri limiti all’autorità dello Stato, tanto più significativi nell’Europa della Restaurazione, che era riuscita a prevalere sugli spiriti libertari che avevano animato la Francia rivoluzionaria, e che Napoleone, almeno inizialmente, aveva provato a esportare nel resto d’Europa.

Ed è proprio quest’opera che, insieme alla precedente, ci consente di individuare Humboldt come uno dei primi teorici moderni dello Stato minimo e forse anche dello Stato di Diritto, in sostanza dello Stato liberale, per come allora si poteva concepire che dovesse essere.

Dopo avere raffrontato i compiti dello Stato nell’età antica (quella greca, in particolare), e in quella moderna, Humboldt fa questa riflessione: sebbene lo Stato moderno si occupi «piuttosto di ciò che il cittadino possiede, e non di ciò che è, del suo sviluppo fisico, intellettuale e morale, come lo stato antico», esso tuttavia «tende a imporgli, come leggi, le sue idee»; e poiché «le restrizioni della libertà sopprimono l’energia individuale», che Humboldt considera «la fonte di ogni virtù attiva e la condizione di ogni svolgimento pieno», occorre fissare confini rigorosi all’autorità pubblica.

Humboldt considera lo Stato come un «male necessario», perché consente di superare la condizione d’isolamento dell’individuo, ma ritiene che lo Stato debba limitarsi a garantire la sicurezza interna ed esterna.

Emblematico è ciò che scrive in proposito: “Lo Stato deve assolutamente astenersi da ogni desiderio di agire, direttamente o indirettamente, nei costumi e sul carattere della nazione, …”, limitandosi ad assicurare a ogni individuo sicurezza da aggressioni esterne, ma non deve entrare “nella sfera degli affari privati dei cittadini”; e aggiunge: “quando lo stato promuove agricoltura, industria, commercio, credito, traffici interni ed esterni, assistenza per gli indigenti, esso finisce per produrre “uniformità” che deprime la creatività degli individui e li trasforma in sudditi che dipendono dallo Stato”;

E vien fatto di pensare, per un verso, alla sempiterna polemica tra dirigisti e liberisti, e per altro verso alla politica assistenzialistica di oggi, che vorrebbe sconfiggere la povertà coi sussidi paternalistici invece che col lavoro e con la promozione sociale attraverso la scuola, per sanare le ineguaglianze incolpevoli dovute alla nascita.

Quando poi passa a esaminare ciò che lo Stato deve fare, e ciò che deve essere riservato all’individuo, troviamo delle affermazioni che stupiscono per la loro modernità, al punto che possiamo ritrovarle richiamate in molti articoli della nostra Costituzione.

Per Humboldt, lo Stato deve assicurare ai cittadini il diritto di godere “della libertà più vasta di svilupparsi spontaneamente nella propria peculiarità”; tuttavia, l’attenzione alla personalità individuale, non deve fare venire meno il senso dei doveri dell’individuo verso la società; e il bilanciamento di questi due fattori, che considera coessenziali, porta Humboldt a individuare i compiti dello Stato, e quindi i limiti della sua autorità, lasciando tutto il resto all’individuo perché possa esprimere la sua personalità senza indebite costrizioni.

Abbiamo qui una sorta di summa politica dei diritti civili, in un’epoca in cui questi concetti, che a noi sembrano patrimonio inalienabile, erano tutt’altro che scontati.; e vien fatto di pensare al nostro art.  2 Cost., per il quale, per un verso, “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”;

e poi, per altro verso, “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Quando poi passa a esaminare ciò che lo Stato deve fare, troviamo delle affermazioni che stupiscono per la loro attualità, come quando mette in discussione la pervasività della burocrazia statale, e vien fatto di pensare all’art. 97 Cost., per il quale devono essere assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione; e quando mette addirittura in discussione la stessa esistenza degli eserciti permanenti, e vien fatto di pensare al ripudio della guerra di cui all’art. 11 Cost.

Rispetto alla sua iniziale impostazione, sembra invece andare in controtendenza sull’istruzione: nel suo saggio sui limiti dell’attività dello Stato ne aveva minimizzato il ruolo, ma poi, quando ebbe responsabilità di governo, nel suo progetto di riforma assegnò all’intervento dello Stato un ruolo significativo, che tuttavia non doveva essere dottrinario ed esaustivo, e in particolare senza escludere la possibilità dei privati di provvedervi essi stessi, come per altro aveva fatto suo padre con lui; e vien fatto di pensare all’art. 33 della nostra Costituzione, che tutela la libertà d’insegnamento, attribuisce allo Stato il compito di istituire scuole di ogni ordine e grado, ma riconosce ai privati il diritto di istituire scuole purché senza oneri per lo Stato.

Insomma, un’impostazione liberale che trova la sua sublimazione nell’affermazione della laicità dello Stato, che deve essere assolutamente neutrale rispetto ai molteplici indirizzi religiosi, lasciando che l’esercizio del culto sia affidato esclusivamente alle comunità religiose.

E vien fatto qui di pensare agli art.li 3, 8 e 19 della cost., dove si afferma la neutralità dello Stato rispetto alla religione, che dovrebbero esser tutte eguali, anche se Humboldt sembra addirittura essere andato anche più avanti di noi, quando ricordiamo che, costituzionalizzando il Concordato, finiamo noi stessi per avere una confessione religiosa alquanto più eguale delle altre.

Quanto alla moralità pubblica, Humboldt mantiene un atteggiamento ambivalente: afferma da un lato che alcuni eccessi (sessualità licenziosa, lusso sfrenato) possono condurre all’immoralità e anche peggiorare l’ordine sociale, generando degrado morale, e quindi possono essere regolati dalla legge; ma poi aggiunge che “se queste leggi e istituzioni fossero efficaci, il grado della loro dannosità crescerebbe nella misura in cui cresce la loro efficacia”, poiché lo stato diventerebbe sì “tranquillo e prospero”, ma i cittadini apparirebbero “come una massa di schiavi ben nutriti”; e vien fatto di pensare alla polemica di questi giorni sui rivenditori ufficiali di cannabis.

Nelle questioni penali, lo Stato deve intervenire, con sanzioni pecuniarie e penali, solo quando esistono violazioni del diritto per le quali il potere del singolo individuo non è sufficiente; e si possono imporre pene severe a chi lede i diritti fondamentali dello Stato, “perché chi non rispetta i diritti dello Stato non riesce nemmeno a rispettare quelli dei suoi concittadini”; ma avverte che “ogni legge penale può essere applicata solo nei confronti di chi abbia compiuto una trasgressione intenzionale o colpevole”.

Nelle controversie civili lo Stato deve intervenire solo quando l’individuo non sia in grado di risolvere da solo il problema senza ricorrere alla violenza; e, in tal caso, lo Stato può imporre al trasgressore l’obbligo di risarcire il danno alla parte offesa, per evitare che gli individui facciano da sé (“ne cives ad arma veniant”), che è poi lo scopo essenziale di ogni sistema processuale moderno;

Emblematica è poi la modernità di Humboldt in materia successoria, in cui l’individuo deve godere del massimo di libertà nel trasferimento dei suoi beni; e vien fatto di pensare che ancora oggi ci trasciniamo la c. d. “tassa sulla morte”, l’imposta di successione, che ha taglieggiato in passato generazioni di italiani e che solo di recente è stata prima eliminata e poi reintrodotta, ancorché in forma attenuata rispetto al passato; per Humboldt, resta invece compito dello Stato quello di intervenire quando le ultime volontà dell’individuo non venissero rispettate.

Una modernità, quella di Humboldt, che va addirittura oltre l’attualità quando tratta della  materia matrimoniale, dove “lo scioglimento dev’essere permesso in ogni momento e senza necessità di motivazioni”, poiché qui il soggetto impegna attivamente tutta la propria persona e la propria libertà; e vien fatto di pensare che in Italia abbiamo dovuto aspettare sino alla fine del 1970 per avere una legge sul divorzio, pudicamente chiamata “disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”.

Un’attenzione particolare Humboldt porta poi alla condizione minorile e dei minorati mentali, in cui lo Stato deve intervenire “dichiarando nulli quei loro atti le cui conseguenze potrebbero riuscire ad essi dannose, e punire coloro i quali ne approfittano a proprio vantaggio”;

La conclusione di Humboldt è che la libertà è coessenziale all’individuo, il quale deve essere educato alla libertà, che tuttavia non può essergli imposta con la forza.

Afferma in proposito di essere ben consapevole che “di nessun uomo al mondo, per derelitto che sia a causa della sua condizione naturale o per degradato che sia a causa della sua posizione sociale, si può dire ch’egli sia completamente indifferente a tutte le catene che lo opprimono”; e tuttavia afferma decisamente che “sciogliere le catene di chi, portandole, non le sente ancora come tali, non significa dargli la libertà”; e vien fatto di pensare al dibattito degli ultimi decenni sulla pretesa di alcuni paesi di esportare la democrazia dove non c’è, cogli esiti che sappiamo.

La conclusione di tutto quel che abbiamo detto è che Humboldt sembra disegnare, assolutamente ante litteram, con oltre due secoli di anticipo, una sorta di Stato che è liberale quanto ai diritti civili, liberista quanto all’economia, quasi libertario in materia di pubblica moralità.

Insomma, una concezione di assoluta modernità, che possiamo trovare disegnata, addirittura con qualche parziale arretramento, anche nella nostra Costituzione.

Teniamocelo quindi caro Wilhelm Humboldt, perché oggi qualche insegnamento sembra che possa ancora darcelo.

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