Il Metaverso zuckerberghiano alla luce della Metafisica aristotelica e galileiana

Checché possa dirsene — checché possano dirne quei giusnaturalisti che credevano che lo “Stato di Natura” fosse un luogo ameno nel quale tutto era giusto[1] (e certo: mancando il giusto — in quanto ridotto al singolo ed al suo agire, di che “giusto” può parlarsi?), l’uomo, sin da quando ha concepito la possibilità di potersi aggregare con l’Altro ed organizzarsi con questo attraverso un complesso ed organico regolamento, è tendente all’associazione. Nociva alla luce di Rousseau, o positiva alla visione di Locke, non ha grande importanza: in ogni dove, nascono aggregati di uomini — dalle tribù, ai villaggi, agli stati complessi — che decidono di regolarsi attraverso leggi semplici o complesse, dimodoché possa viversi serenamente ed ordinatamente.

Nella sostanza, il discorso è applicabile certamente anche al Metaverso, il nuovo spazio sociale presentato da Zuckerberg — il quale, essendosi stancato del suo sistema inter-social (in quanto raccogliente al suo interno realtà promiscue quali Facebook, Instagram, ma anche Whatsapp), ha ben deciso di far coincidere il tutto in uno spazio virtuale nel quale le persone potranno incontrarsi e vivere come godessero di una seconda vita. Le cose, a dire il vero, non stanno così — e dietro il cambio di nome dell’azienda si nascondono necessità diverse relative a questioni[2] che adesso non sono necessarie d’essere approfondite, perlomeno in quest’istanza.

Ritornando al discorso, quindi, il Metaverso potrebbe essere inteso come un luogo virtuale all’interno del quale possono darsi interazioni simulanti quelle reali tra gli individui che decidono di parteciparvi. Al momento, non abbiamo idea di come e «se» queste interazioni saranno regolamentate, ma sono placidamente certo che l’azienda di Zuckerberg, dopo essersi scottata, starà anche più attenta del dovuto nello stilare un organo di regole che possano salvaguardare la privacy del singolo. “Metaverso”, neo-logismo veniente fuori dalle opere cyberpunk dello scrittore Neal Stephenson (specificatamente rinvenibile nel romanzo “Snow Crash“, del 1992), sarebbe composto dal prefisso greco “meta-” (“dentro”, “attraverso” — qualcosa tendente all’interno), e “-verso”: in altre parole, richiamando il lemma “Universo”, la cui semantica accoglie concettualmente il senso del contenitore nel quale siamo che permette ad ogni forma di vita di essere, il Metaverso sarebbe «un» universo contenuto «nello» Universo.

Seppure certamente possa dirsi che dei metaversi siano d’altronde già esistenti[3] — io sono un universo[4] nell’Universo, la mia città è un universo nell’Universo, il mio Paese è un universo nell’Universo, l’Europa… —, questo, proposto da Zuckerberg, ha una particolarità mica trascurabile: è virtuale. Virtuale, ossia: “simulativo”. Ancor meglio — tenendo conto dell’etimo del termine[5] —, “potenziale”. È un Universo-in-potenza. Aristotelicamente, un Universo che ha la possibilità di essere, un Universo la cui essenza potrebbe schiudersi ed estendersi nel campo esistentivo perché ne ha, congenitamente, ontologicamente, sostanzialmente, la possibilità: nel gioco di contro-bilanciamento aristotelico per cui il mondo ed i suoi enti si muovono ed acquietano eternamente[6], il Metaverso sarebbe un intero mondo che sta giocando “virtualmente” — in potenza — la sua possibilità d’essere. Il Metaverso, pertanto, è qualcosa di mai verificatosi prima, che potrebbe tanto vedere la luce rivelandosi essere un fallimento indicibile, quanto una rivoluzione delle vite dei singoli e della collettività — è paradigma, d’altronde, rispetto a tutti quei dispositivi che tentano qualcosa di non tentato prima.

Eppure, pur avendo aristotelicamente significato la virtualità del Metaverso, essa, nella sua applicazione prossima ventura, appare una possibilità che attende solo il momento opportuno per vedere la sua trasposizione in atto: il Metaverso, infatti, si-farà, e nel suo far-si, non solo sarà etichettabile come opera veniente da una tecnica umana che ormai sta facendo lei dell’uomo la sua tecnica — ma anche come un intero mondo gestito da un «to theion» immobile e sempiternamente attuale: l’Algoritmo. Dandosi infatti il dinamismo dei particolari che esperiranno «esistenzialmente» questo Universo, è necessario un immobile assoluto che, attivamente, «attualmente», possa mettere in moto il tutto, regolandone l’espressione e la «attività». “Quindi vi è pure qualcosa che muove. E poiché ciò che muove ed è mosso è un termine di mezzo, lo muove ciò che non è mosso, [ed è] eterno essendo sostanza e atto”[7]. Che possa questo Universo essere gestito manualmente da singoli è ingenuo: la mole di dati accolti sarà umanamente inconcepibile, e, in generale, il fatto stesso che in gioco non ci siano solamente dei post — particolari e specifici modi d’espressione degli individui —, ma le persone stesse nella loro «virtualizzazione», rende il tutto ancora più complicato e fa del nostro auspicio circa una gestazione umana del tutto, un’utopia veniente da chi non vede le possibilità della tecnica, o la sua mostruosità.

Interessante è anche vedere come, circa quanto questo Algoritmo — ormai veramente paragonabile ad un essere trascendente che pone ordinatamente un tutto che altrimenti o sarebbe disordinato, o non sarebbe, o non potrebbe virtualmente essere — possa essere umano, può dirsi moltissimo: il fatto stesso che esso sia naturalmente programmato affinché possa gestire eventuali anomalie, lo pone nella condizione di poter essere considerato un’entità di per-sé sussistente la quale può analizzare le possibilità a sua disposizione, e scegliere quella ritenuta più conveniente. Non siamo certamente lontani dall’umano: si fa cosciente di sé a sé, entra in rapporto con l’Altro (l’Algoritmo entra in rapporto con quegli essenti che gestisce), vede un problema, vede le possibili soluzioni, sceglie quella che ritiene migliore. Anzi, l’Algoritmo può essere considerato senz’alcun dubbio un oltre-uomo con tutti gli attributi nietzschiani: non sceglie solo in base ad un principio del meglio calcolato in base a quelle che sono delle limitate possibilità, ma sceglie in base al fatto che, queste sue possibilità, essendo frutto di un calcolo computazionale, offrono uno spettro di cause-effetto che possono porre l’intero «Essere-tutto», contingente, necessario ed in potenza, tanto che quell’atto che si sceglie possa indirizzare l’intero verso un compimento particolare più lieto. È la “Provvedenza” vichiana che si fa viva, è lo Spirito hegeliano, con la sua “Astuzia della Ragione”, che si fa mondo.

L’Algoritmo sarà pertanto intendibile come una sorta di «logica d’indirizzo» la quale, attraverso un comando impartito dall’uomo — che tronfio di tecnica ormai si crede forte di poter generare mondi interi —, ordinerà armoniosamente lo «individuo-virtualizzato» nell’ottica di un mondo possibile (virtuale), come questo fosse un pentagramma la cui chiave di violino viene a dare alla luce una musicalità della quale le note sono armonizzate attraverso un ordine melodicamente ineccepibile, sonoramente squisito, sinfonicamente sublime — ed il cui musicista, non più Dio, è l’uomo.

Ciononostante, non s’esaurisce certamente qui la particolarità di questo Universo — che opera della tecnica sarebbe altrimenti, se così semplicemente esprimibile, e così tanto esemplare da non dare qualche problema di una purchessia sorta? —, perché se tanto stiamo giocando con sommesse analogie miranti a far coincidere concettualmente l’uomo-tecnicamente-generatore ad un dio-creatore, è perché, dall’abisso, emerge dirompentemente un contrappasso dal peso schiacciante: colui il quale crea l’Universo, non sarà rispetto a questo assoluto, bensì ne sarà il suo diretto protagonista e, sopra di lui — quasi come non calcolasse il fatto che colui il quale produce dovrebbe avere diritto rispetto alla sua produzione, ergerà un Dio dai contorni spaventosamente galileiani[8]: un «Dio-Mathematicus». Un Dio che sostituirà al Bene dapprima considerato causativo della sua creazione, la Tecnica; ed alla Teodicea, il suo imperscrutabile «Calcolo-Teleologico-Computazionale»; ed alla Teologia, la Matematica. Se vorrà intendersi l’indirizzo del mondo, dove si stia andando a parare e contro cosa stia per scontrarsi, basterà sfondare la barriera divina del calcolo, e comprendere, intuendole o deducendole, le operazioni che quel Dio starà mettendo in atto. Non stiamo solo per creare un Universo, ma stiamo per creare un Dio e, abituati dalla logica cristiana a sottometterci a questo, ci bendiamo dinnanzi al nostro stesso averlo creato, e ci inginocchieremo al suo cospetto.

Certamente: il nostro mondo, col nostro Dio che genera per Amore, non verrà mica (immediatamente) sostituito; affinché si possa accedere a questo Metaverso, bisognerà — intuibilmente, godere di quelle specifiche hardware che ne permettano il concreto accesso; eppure, non bisogna comunque trascurare quelle che sono le problematicità che abbiamo tentato di portare in auge: la creazione di un mondo in-sé è il primo passo rispetto ad un possibile coincidere del mondo attuale con quello. Pur non volendovici partecipare, bisognerà pensare al paradosso per cui, inseriti per la maggior parte in un mondo nuovo, traslocate le attività del mondo attuale in quel mondo, pur essendo relativamente in molti a non effettuare l’accesso a questo, l’emigrazione sarebbe concretamente incoercibile.  D’altronde, per quanto fantascientifico possa sembrare — ed era fantascienza l’attuale realtà, decenni fa; pertanto ciò che è fantascientifico è decisamente relativo —, trovare un modo per esistere in un mondo di dati significa anche aumentare le possibilità di vita degli individui, e non solo: può eliminarsi la fame, possono eliminarsi le disparità sociali ed economiche, può veramente pensarsi ad uno Stato (sarebbe anch’esso Matematico?) i cui princìpi morali e del Giusto siano regolati in modo migliore. Se, come in apertura abbiamo visto, l’uomo tende all’aggregazione, perché mai, dico, non si potrà pensare ad un mondo “migliore” nel quale aggregarsi?

[1] Cfr. J.-J. Rousseau, Il Contratto Sociale, Rizzoli, Milano, 2016, pp.66-67; pp.70-71

[2] Stiamo facendo ovviamente riferimento allo “Scandalo Facebook-Cambridge Analytica” del 2018; lo scandalo inerisce a quando Cambridge-Analytica prese da Facebook decine di milioni di dati inerenti i suoi utenti, poi utilizzati per imbrogliare su campagne politiche — senza che fosse stato fatto appello a quest’ultimi. La dinamica — molto complessa ed intricata — fece cadere tremendamente, repentinamente, le azioni dell’azienda di Zuckerberg.

[3] Nei riguardi di questo, credo sia veramente interessante citare in causa il filosofo analitico D. Lewis il quale, nelle sue opere — poche (se non una) pervenuteci in traduzione, parla di come ogni mondo intelligibile, pensato ed esprimibile attraverso le categorie del pensiero, sia «ontologicamente» esistente; la portata di questo pensiero è incalcolabile: ogni minima possibilità della mente nelle sue facoltà rappresentative non è — come si pensa generalmente — una possibilità del reale in senso lato, ma è nel senso ontologico una sua esistenza concreta, non in possibilità, ma effettuale. Ad esempio, io ora sto scrivendo questo articolo, e sto utilizzando la tastiera: posso rappresentarmi, alternativamente, al bar con una squisita tazza di caffè ed un amico col quale parlare; questa, per Lewis, non è solo una rappresentazione soggettuale, ma, in quanto pensata con una sua contestualizzazione organica (“Teoria Indessicale dell’Attualità”), una realtà concretamente esistente. Si consiglia caldamente la lettura delle opere “Counterfactuals” (1973), e “Sulla Pluralità dei Mondi” (1986).

[4] “Io scelgo l’assoluto. Ma cos’è l’assoluto? Sono io stesso nel mio eterno valore.” — S. Kierkegaard, Aut-Aut/Enten-Eller, Mondadori, Milano, 2016, p.67; cfr. S. Kierkegaard, Diario, 1327

[5] Dal lat. mediev. (dei filosofi scolastici) virtualis, der. di virtus «virtù; facoltà; potenza» — Treccani

[6] Aristotele, Fisica, 200b12; 227a7

[7] Aristotele, Metafisica, 1078a

[8] Cfr. Galileo Galilei, Il Saggiatore, cap. VI

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