Salvatore Veca. L’incertezza e l’eresia

L’esigenza di fare i conti col passato, rivolgendo uno sguardo critico alle ideologie, attraversa oggi tanto la politica quanto la cultura, a destra come a sinistra. Il potere seduttivo delle tensioni utopiche, con la sua carica rivoluzionaria, ha ubbidito, nel corso del ‘900, a una logica dogmatica, negando il principio di tolleranza. Quanti hanno dato vita a progetti riformisti sono così stati considerati come “traditori” o nemici di quel popolo in nome del quale le varie forme di Partito-Chiesa avrebbero dovuto realizzare la Città ideale. In risposta a queste posizioni intransigenti, alcune figure, come Salvatore Veca, hanno orientato il loro impegno intellettuale e civile, proprio in direzione riformista, nell’ambito di una concezione aperta e inclusiva della liberaldemocrazia.

 

Veca, ricordando i suoi complicati rapporti con il Partito comunista, scriveva, in Prove di autoritratto, che il suo errore di fondo, condiviso con Michele Salvati, ma anche con Norberto Bobbio, fu quello di credere che il PCI fosse in fondo un partito socialdemocratico “ma non lo dicesse”. Al di là del tentativo di acquisire autonomia rispetto all’Unione Sovietica, del riconoscimento delle regole della democrazia e del mercato, il nucleo che teneva insieme il popolo comunista era infatti una visione profondamente finalistica, quasi religiosa, dello sviluppo storico. Malgrado i militanti “devoti”, come i dirigenti, fossero consapevoli del fallimento del socialismo reale, erano al tempo stesso profondamente convinti che abbandonare il sogno di un mondo alternativo al capitalismo “fosse una forma di tradimento letale”, che li avrebbe assimilati a un “qualsiasi” Partito socialdemocratico, ponendoli sullo stesso piano del PSI. Il progetto di rinnovare il Partito in direzione riformista, anche dopo il 1989, si rivelava allora ingenuo, dal momento che la leadership, come la base, non aveva affatto abbandonato i vecchi metodi. Veca era vicino al migliorismo socialdemocratico di Giorgio Napolitano e prendeva le distanze da Pietro Ingrao, secondo il quale non si poteva essere comunisti e miglioristi insieme. La società capitalista non doveva infatti essere migliorata o riformata, ma superata.

 

Il disprezzo verso i riformisti, come verso i liberalsocialisti, non era una novità in casa comunista. L’inquisizione togliattiana non aveva infatti risparmiato Carlo Rosselli. Il Migliore scrisse nel 1931 che Socialismo liberale si collegava “in modo diretto alla letteratura politica fascista” e che Rosselli, morto poi per mano fascista in Francia nel 1937 insieme al fratello Nello, era “un ricco, legato oggettivamente e personalmente a sfere dirigenti capitalistiche”.  Nell’aprile del 1932 Togliatti si scagliava poi contro Turati, che era morto il mese prima, esule, a Parigi, scrivendo che la sua vita era stata “l’insegna del fallimento e del tradimento”, perché “spesa per servire i nemici di classe del proletariato”.

 

A causa del progressivo abbandono del credo marxista “a favore di una prospettiva liberal di equità e di giustizia sociale”,Veca venne accusato di essere un “traditore” della classe operaia, in una seduta alla quale parteciparono lo stesso Ingrao, Aldo Tortorella e il filosofo Umberto Scarpelli, che non condivideva il concetto rawlsiano di giustizia, a cui Veca si richiamava. Si riproponeva, così, in tono minore, un rito controriformista e togliattiano, che si poteva pensare fosse caduto ormai in disuso.

Con John Rawls, Veca condivideva l’idea che la giustizia, intesa come equità,“è la prima virtù delle istituzioni come la verità lo è dei sistemi di pensiero”. Nel corso degli anni ’80 le sue tesi suscitarono poi grande interesse negli ambienti riformisti di Mondo operaio e della sinistra non marxista,animando un confronto proficuo con Francesco Forte, Giuliano Amato e Claudio Martelli.

Nella sua formazione filosofica, all’Università di Milano, Veca fu influenzato da Enzo Paci, che lo introdusse alla fenomenologia e da Ludovico Geymonat, che coniugava filosofia della scienza e materialismo dialettico. In seguito, i suoi interessi si orientarono verso il pensiero di Rawls, che, con Una teoria della giustizia, del 1971 (tradotto, grazie a lui e a Sebastiano Maffettone, in italiano e pubblicato da Feltrinelli nel 1982), indicò nuove direzioni nel panorama della filosofia politica e del pensiero liberale del ‘900. Insieme a Maffettone, Veca si impegnò a diffondere in Italia una concezione della giustizia che potesse rappresentare un terreno di incontro fra la sinistra e la cultura politica liberale. In un clima egemonizzato dal marxismo, Veca tentava di elaborare una teoria politica che fosse in grado di promuovere la giustizia sociale senza identificarsi con la dogmatica del materialismo storico. Se l’opzione socialdemocratica era tradizionalmente considerata eretica all’interno del PCI, la sua apertura verso il progressismo liberale, da Rawls a Michael Walzer, da Ronald Dworkin a Thomas Nagel, non poteva che essere vista come un cedimento alle ragioni del capitalismo.

 

La democrazia liberale è, per Veca, quello spazio pubblico in cui emergono, come scrive in Il mosaico della libertà, le diverse espressioni della cittadinanza, “uno spazio pieno di dissonanze e piuttosto cacofonico”, nel quale si confrontano liberamente bisogni, speranze, emozioni. Queste forme di libertà, che possono essere descritte come fatti contingenti, sono divenute, nel corso del tempo, dei valori in sé, che stanno a fondamento delle istituzioni democratiche. Ecco perché, scrive, “il mosaico della democrazia” si compone di tessere descrittive e normative, di fatti e di valori.

 

Veca riteneva che la democrazia non fosse monopolio di qualche “noi” occidentale, in quanto può trovare espressione anche al di fuori dal mondo in cui si è sviluppata, come dimostra il fatto che quanti vivono in regimi oppressivi “gridano” nelle piazze la loro voglia di giustizia. Se esportare militarmente la democrazia è sicuramente uno “sporco mestiere”, non si deve rinunciare all’impegno di difendere i diritti umani in una prospettiva universalistica. Considerava ipocrita la sfiducia, oggi purtroppo diffusa, nei confronti delle istituzioni democratiche, in quanto tale atteggiamento rischia di dimostrarsi insensibile verso comunità e individui che vivono in regimi tirannici.

 

L’eredità dell’Illuminismo, che ispira la politica dei diritti umani, deve oltrepassare, secondo Veca, gli orizzonti della civiltà europea, limitando il potere degli stati, delle comunità e delle chiese, sugli individui, senza pretendere, però, di imporre un’idea universale del bene. Dopo i furori ideologici del ‘900 e dopo l’Olocausto, IsaiahBerlin riteneva che la legge morale dovesse fondarsi non tanto sulla ragione, quanto sulla paura che altri olocausti possano ripetersi. Riprendendo queste considerazioni, Veca scriveva, commentando il saggio di Michael Ignatieff,  Una ragionevole difesa dei diritti umani, che la sola forma di lealtà difendibile, nel quadro di un progetto neoilluministico, deve scaturire dalla speranza. I diritti umani rappresentano così “una risposta alla memoria del male che esseri umani possono fare ad altri esseri umani” e il loro valore universalistico va sostenuto per “ragioni prudenziali”, dettate dalla paura del male piuttosto che dalla volontà di realizzare il bene. Ne consegue che la loro legittimazione è “storica, non metafisica”, in quanto si colloca entro una dimensione minimalistica e pragmatica. Veca suggerisce allora di abbandonare la pretesa di legare i diritti umani a una concezione condivisa del bene, dal momento che “l’idea del bene ci divide, mentre l’idea del male ci unisce”.

 

È evidente che noi tutti consideriamo un male assoluto i lager come i gulag, ma è altrettanto evidente che non si potrebbe trovare un accordo su quale sia il modello politico ideale in grado di far trionfare il bene. Il politeismo dei valori, teorizzato da Max Weber, descrive con chiarezza il mondo in cui viviamo, ma indica, al tempo stesso, la difficoltà che la scelta della tolleranza incontra quando si fronteggiano valori del tutto inconciliabili.  Nella condizione attuale, secondo Veca, bisogna adoperarsi per “convertire quanto più è possibile la prospettiva del politeismo di Weber nella prospettiva del pluralismo di Berlin”.

 

Dopo l’11 settembre e i tentativi infelici di vedere nella democrazia il modello politico da esportare, Veca scriveva lucidamente che bisogna resistere alla tentazione del bene e coltivare una “cultura del limite”, considerando i diritti umani come “promemoria della nostra crudeltà e della nostra vergogna”. L’accettazione del pluralismo dei valori, nel quadro di una concezione in cui la riduzione dell’infelicità prevale sull’utopia di costruire il paradiso in terra, ci conduce, weberianamente, verso un’etica della responsabilità, in cui ogni scelta deve essere valutata in funzione delle conseguenze concrete che ne derivano, e non in funzione dei modelli astratti elaborati dalle utopie totalitarie.

 

Veca propone un metodo che, di volta in volta, potrà essere applicato negli ambiti più diversi, dalla politica alla tecnologia, dalla medicina all’ambiente, al di fuori di ogni assolutizzazione e di ogni pregiudizio. Entro tale prospettiva, sarà certamente l’incertezza a prevalere sulle verità delle ideologie e dei loro surrogati. Ecco perché ricorreva spesso alla metafora della barca di Otto Neurath, che “siamo costantemente indaffarati a riparare in navigazione, senza la possibilità di rifugio ospitale nei rassicuranti cantieri delle certezze a buon mercato”.

 

Questa immagine ci fa comprendere perché lo stile filosofico di Veca appaia eretico ai custodi ortodossi di ogni verità ideologica. Nella terza meditazione, che conclude il suo Elogio dell’incertezza, ci troviamo dinnanzi a un elogio della filosofia, intesa come una pratica ospitale, che, al di là di ogni pretesa di sapere assoluto, esprime la sua naturale bellezza nella “cerchia della philia”. Il messaggio che Veca ci consegna  indica proprio questo luogo, “in cui la partizione tra certezza e incertezza è intrinsecamente provvisoria”, come un “oscillare fra domande inevitabili e risposte impossibili”.

 

 

 

 

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