La parabola autoritaria in medio oriente

Il prezzo del greggio non tornerà a salire ai livelli precedenti alla recessione del 2014 e la crisi della governance dei paesi produttori si è irreparabilmente innescata. Negli ultimi cinquant’anni, i regimi degli “stati rendita” hanno mantenuto legittimità, comprando l’appoggio delle élite, e ingraziandosi l’opinione popolare grazie al contenimento della pressione fiscale e molteplici varianti di assistenzialismo. Impiego – il rapporto fra posti pubblici e privati in medio oriente e nord-Africa è il più alto al mondo, educazione e salute basica, sono al centro di un accordo tacito che implica la sottomissione. Ora però che il potere assoluto vede vacillare i flussi su cui si è sostenuto – 70 dollari statunitensi al barile, contro 100 nel 2014 e 140 nel 2008, le revisione di organismi inefficienti e corrotti, il cui unico obiettivo è la creazione di consenso, non potrà essere rimandata.

Lo shock procurato dall’ondata regionale di contestazione del 2011 non è stato riassorbito. Quei movimenti di protesta non hanno spalancato le porte della nuova era che molti attendevano, ma hanno aperto una crepa progressiva. Il patto costitutivo delle società fondate sul petrolio è stato imposto dall’alto. I cambi strutturali per creare un modello economico produttivo alternativo, e i risultanti adeguamenti economici, invece, non avranno luogo senza l’apporto diretto dei cittadini e delle cittadine. E se dalla negoziazione può derivare un paradigma politico che sostituisca la lealtà incondizionata con la partecipazione, da un stretta autoritaria è prevedibile che scaturisca un malcontento generale difficile da contenere.

La degenerazione dei programmi paternalistici aveva trascinato molte nazioni oltre limiti convenienti già negli anni novanta. I sussidi alla popolazione dal comparto estrattivo erano arrivati al 10 per cento del Pil in Arabia Saudita, il 9 in Libia, l’8 e mezzo in Bahrain e negli Emirati Arabi Uniti, l’8 in Kuwait; e il costo dell’espansione degli apparati burocratici aveva superato l’aumento del greggio – in Giordania governo ed esercito assorbono il 42 per cento della forza lavoro. In aggiunta, il mutamento demografico, tra altri fattori, aveva causato un tasso di disoccupazione dell’11 per cento, toccando il 30 nella fascia giovanile; e la qualità dei servizi educativi e sanitari aveva cominciato a declinare. Con la preoccupazione di non perdere terreno, sono state introdotte trasformazioni, dalla privatizzazione di imprese statali, alla liberalizzazione del commercio e l’integrazione nell’economia globale. Calate in compagini clientelari, prive di controlli e contrappesi, queste misure hanno finito per beneficiare piccoli gruppi di interesse e si è diffuso un sentimento di frustrazione e risentimento.

In Libia, Siria e Yemen, dove era stato osteggiato il consolidamento di libere istituzioni civili, il disfacimento dell’ordine dato si è risolto in guerra a tutto campo. In Tunisia ed Egitto, in presenza di un debole scheletro istituzionale, il crollo politico ha condotto a transizioni elettorali, anche se con esiti differenti, e nel caso dell’Egitto, incerti e contraddittori. In Giordania, Marocco e Bahrain, le monarchie hanno risposto all’opposizione attraverso l’introduzione di deboli interventi ad hoc, spesso solo simbolici – nel caso della Giordania e del Marocco, con iniezioni pecuniarie dall’Arabia Saudita, che hanno tamponato la situazione, pur persistendo, in special modo in Bahrain, un antagonismo di bassa intensità. Gli sceicchi del golfo hanno elargito sovvenzioni supplementari: 130 miliardi per aumenti di salario ed edilizia residenziale in Arabia Saudita, 3.560 dollari pro capite in Kuwait, 30.000 posti di lavoro e un incremento di borse di studio del 40 per cento in Oman.

La lezione della “primavera araba” non è stata recepita. Il problema della conduzione politica ed economica e del dialogo democratico è stato eluso con una pioggia di petrodollari, palliativi e propaganda. I sopravvissuti al collasso sono presto tornati al solito modus operandi – nel 2016 in Giordania sono state ampliate le facoltà del sovrano; e l’avanzata di un vecchio nemico, identificato nel terrorismo islamico, ha spostato il fulcro e scoraggiato molti, come in Egitto, dal confrontarsi con lo stato. Tuttavia, il calo del greggio ha acuito disequilibri mai sanati e ne ha sommato altri. Per non incorrere nel debito pubblico, l’Arabia Saudita, che secondo previsioni interne rimarrà in deficit fino al 2013, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti, dopo essere ricorsi persino alle massive riserve fiscali, hanno dovuto operare tagli importanti. Questi hanno influito sulle economie di Egitto, Giordania – il debito ammonta al 95 per cento del Pil, Marocco e Tunisia, da sempre ricettori di finanziamenti, in quanto parte della loro sfera di influenza geopolitica. In Egitto e Giordania, all’inizio degli anni duemila, gli aiuti internazionali e le rimesse dei salariati dell’industria del petrolio ammontavano a oltre il 10 per cento del Pil, permettendo loro di vivere al di là dei propri mezzi, ma nel 2016, l’Egitto è dovuto ripiegare su un prestito di 12 miliardi dal Fondo Monetario Internazionale.

Sulla spinta della classe media, militanti politici, difensori dei diritti umani, donne e giovani, quest’anno il dissenso ha registrato un picco elevato in Arabia Saudita, Giordania e Iran.  In Arabia Saudita e Giordania, i giovani non occupati sono rispettivamente il 35 e il 30 per cento e da questo settore sopraggiungono istanze che, sorpassando la richiesta di riforme economiche, rivendicano una maggiore condivisione del potere.  Nonostante queste monarchie siano in ampia forma accettate, potrebbero rivelarsi più vulnerabili di quanto si voglia credere. L’esempio della Tunisia può servire da guida.  Sebbene molte questioni politiche, economiche e di sicurezza, non siano state sciolte, la dirigenza ha compreso la necessità di un rinnovato contratto sociale, imperniato su principi costituzionali, diritti individuali e collettivi e pacifica alternanza elettiva, capisaldi di stabilità.

La congiuntura offre alla regione l’opportunità, nel frattempo divenuta urgenza, di recuperare il messaggio inascoltato delle piazze del 2011. Di fatto, il passaggio da un impianto sovranista a quello del merito, l’innovazione e la competizione, indispensabile per il futuro, esige in primis una rivoluzione culturale, a partire da un’educazione per il pensiero critico, e un ambiente aperto alla diversità di opinioni e proposte.  Ci vorranno generazioni di intellettuali, professionisti, imprenditori, ricercatori, giornalisti, studiosi e attivisti, nonché leader visionari. Se gli ultimi sembrano scarseggiare un po’ dappertutto, i primi hanno offerto ampia testimonianza in medio oriente, quello che bisogna costruire è un ecosistema propizio alla loro crescita e incidenza. Del resto, gli ingredienti per lo sviluppo umano sono gli stessi ovunque: libertà e democrazia.

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