L’altra India di Amartya Sen non avrebbe censurato Darwin

In Europa, come negli Stati Uniti, ci si è spesso rivolti all’India per trovarvi espressioni di spiritualità da contrapporre alla razionalità e all’utilitarismo dell’Occidente. Questa diffusa tendenza corre il rischio, però, di cedere a una forma di “orientalismo”, incapace di cogliere la complessità di una cultura in cui lo spirito critico non è mai venuto meno. Il contrappunto alla filosofia dell’antichità classica, ad Aristotele, agli Stoici e a Euclide, scrive Amartya Sen in L’altra India, non va cercato nelle masse rurali o nei santoni.  Bisogna rivolgersi piuttosto a figure che, come il filosofo e monaco buddhista Nagarjuna, elaborarono un pensiero antidogmatico e analitico, in grado di dialogare con il razionalismo greco.

L’India fu il primo tra i paesi non occidentali a realizzare la democrazia, grazie a una solida tradizione laica in cui tutte le opinioni avevano diritto di cittadinanza. Ciò ha consentito la convivenza di indù, buddhisti, ebrei, cristiani e musulmani. Il rapporto tra discorso pubblico e democrazia, affrontato sotto ogni aspetto nell’ambito della filosofia della politica contemporanea, da John Rawls a Michael Walzer, da Ralf Dahrendorf a Jürgen Habermas, giusto per indicare alcuni tra gli autori più noti, ha radici planetarie sostiene Sen. Queste radici rinviano non solo alla polis greca, in cui la parresia garantiva la libertà di dire ciò che si pensa, ma anche all’India e alla Cina.

I concili buddhisti svoltisi tra il II e il III secolo a. C. rappresentarono un’occasione di confronto tra visioni talora in aperto conflitto. L’imperatore buddhista Ashoka, che promosse uno dei più importanti di questi concili, definì i criteri, ancor oggi condivisibili, che dovrebbero stare alla base di una società pluralista. Auspicava infatti che si evitassero esaltazioni della propria setta e condanne verso le altre credenze. Lo stile di Ashoka rivisse quasi due millenni dopo, nel XVI secolo, alla corte dell’imperatore musulmano Akbar, secondo il quale la ragione doveva sempre prevalere sull’autorità della tradizione. Questi due grandi imperatori, distanti tra loro per formazione e per il tempo in cui vissero, si mossero dunque entro il terreno della tolleranza e del rispetto dell’altro. Ashoka sosteneva che disprezzare le opinioni degli avversari recava un danno anche alla causa che si pretendeva di difendere e che nessuno doveva essere perseguitato per le sue idee. Alla fine del XVI secolo Akbar diede voce alle diverse confessioni, coinvolgendo anche gli atei, nella convinzione che lo stato dovesse dimostrare la sua apertura verso le dottrine che fiorivano in ambito teologico, filosofico e scientifico. Le credenze religiose, in Ashoka, come in Akbar non alimentarono mai spinte fondamentaliste o spirito di crociata.

Contraddicendo questo ethos del dialogo, ampiamente praticato in passato, il National Council of Educational Research and Training, che definisce in India i programmi scolastici, ha preso la decisione di eliminare dall’insegnamento la teoria evoluzionista. La scelta sarebbe motivata ufficialmente dall’esigenza di ridurre il carico di studio per gli allievi, che avrebbero manifestato delle criticità a causa della recente pandemia. Fino all’età di quindici anni, gli studenti non sapranno così nulla di Charles Darwin. Tenendo conto del fatto che la biologia è considerata un insegnamento opzionale che solo pochi seguiranno, risulta evidente, come è stato denunciato da vasti settori della comunità scientifica indiana, che le nuove generazioni saranno private di conoscenze fondamentali nel nostro tempo.

I difensori della tradizione censurano dunque l’evoluzionismo, temendo che possa corrompere le verità religiose. Fingono così di ignorare che alla tradizione indiana, che pretendono di difendere, appartengono figure che non hanno temuto di far dialogare saperi dissonanti. Se il termine “agnosticismo” riconduce a Thomas Henry Huxley, il “Mastino del darwinismo”, la pratica di una filosofia agnostica e tollerante non è affatto estranea al pensiero indiano, in cui possiamo incontrare argomentazioni che hanno attraversato la storia dello scetticismo da Pirrone a David Hume.

Essere all’altezza di tale eredità obbliga a prendere le distanze, come hanno fatto 1800 scienziati indiani, dalle crociate antimoderne e a confrontarsi con quanti, come Nagarjuna, Ashoka, Akbar, hanno difeso laicamente, contro ogni fondamentalismo, la libertà della ricerca e l’esercizio del dubbio.

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