L’Eurasiatismo illiberale di Alexandr Dugin

Nella prefazione all’edizione italiana de La quarta teoria politica Aleksandr Dugin esordisce scrivendo che sulla sua formazione ha assunto un’importanza decisiva la filosofia della tradizione, rappresentata dalle figure di René Guenon e di Julius Evola. Esprime poi la sua vicinanza a quel che chiama il Logos italiano, di cui Evola e i suoi allievi sarebbero espressione. Il ponte tra La Quarta teoria e la tradizione è riconducibile alla Rivolta contro il mondo moderno, che per Evola, come per Dugin, sarebbe necessaria per restaurare quei principi contro cui il Rinascimento, l’Illuminismo, il liberalismo, si sono battuti per difendere l’autonomia dell’individuo.

Ad Evola Dugin accosta, con una certa disinvoltura, Martin Heidegger. Pur evidenziando le ovvie differenze, ritrova nei due una comune avversione nei confronti della tecnica e della Rivoluzione scientifica. Scrive anche di provare un grande interesse per “due filosofi italiani di sinistra, il cui pensiero non è appassito nei vecchi schemi e che non hanno lasciato posizioni ai liberali- e sono Massimo Cacciari e Giorgio Aganben”. La critica radicale al liberalismo trae spunto, in Dugin, dalla sua adesione alla corrente eurasiatica, che si contrappone radicalmente all’individualismo e al materialismo, considerati i mali dell’Occidente. In questo quadro il liberalismo, come anche il fascismo o il socialismo, rappresenterebbero aspetti diversi di uno stesso sentire, in cui l’utilitarismo prevale su ogni esigenza spirituale. Dugin intende rivolgersi non all’individuo astratto, o all’homo oeconomicus, ma al popolo, inteso come comunità organica.  Le ideologie del ‘900 avrebbero invece posto al centro il singolo in quanto tale (liberalismo), in quanto appartenente a una classe (socialismo), o in quanto elemento dello Stato (fascismo). Il progressivo affrancarsi dell’individuo moderno dalla sfera religiosa e dai vincoli comunitari, avrebbe poi condotto, dopo la caduta delle ideologie, a una disumanizzazione estrema, che la Quarta teoria  vuole combattere, auspicando una rinascita dei valori tradizionali premoderni.

Dugin riprende così la critica heideggeriana al sapere strumentale, evocando una sorta di ritorno al sacro. Se questo tema rinvia all’ultimo Heidegger, il concetto di Dasein é legato a Essere e Tempo, l’opera del 1927, in cui il filosofo tedesco descrive la condizione umana come essere- nel- mondo.  Ciascuno, infatti, è sempre collocato in una dimensione storica e non è concepibile al di fuori del mondo in cui dimora. Dugin legge il Dasein enfatizzandone la spazialità nel senso della territorializzazione e del Nomos della terra di Carl Schmitt. Il luogo e la tradizione in cui ciascuno vive rivendicano allora, per Dugin, la loro specificità contro l’individuo, considerato “astratto”, dell’Illuminismo e delle Dichiarazioni universali. Nel richiamarsi alla tradizione e al popolo, Dugin evoca immagini della comunità, intesa in termini organici, in cui il singolo si annulla. Viene subito in mente, allora, il concetto di Volksgemeinschaft (comunità di popolo), strettamente connesso al Führerprinzip, che nella pubblicistica nazista affermava il primato assoluto del Führer e della comunità sul cittadino, riducendolo a suddito. Le diverse forme di populismo, di destra e di sinistra, esprimono il disagio nei confronti del trionfo planetario del liberalismo, e Dugin si propone di smascherare quanti, dietro   lo schermo della Società aperta, sosterrebbero, a suo avviso, le ragioni della finanza internazionale.

 

In questa prospettiva, la libertà negativa, intesa, alla maniera di Isaiah Berlin, come libertà da coazione, che ciascuno declina in funzione delle proprie scelte, nel rispetto di regole condivise, diviene, per Dugin, “la più disgustosa forma di schiavitù, perché tenta l’uomo e lo spinge a ribellarsi a Dio e ai valori della tradizione”. E’ evidente come la libertà positiva, nell’accezione di Dugin, coincida con la “libertà” di agire in conformità ai vincoli comunitari di una tradizione  esoterica, di cui sarebbero depositari i sacri testi di Guenon, di Evola o di altri profeti. Il liberalismo si rivela così, come egli stesso scrive, il “nemico principale della Quarta teoria politica“. La società aperta di Karl Popper,  sostenendo la libertà individuale contro ogni concezione di carattere olistico, difenderebbe allora “non tanto i diritti dell’uomo, ma, piuttosto i diritti di un omuncolo”. Per Dugin, infatti, la libertà, deve coinvolgere l’uomo nel suo rapporto organico con la comunità in cui vive. La Quarta Teoria incarnerebbe così, nelle intenzioni dell’autore, l’autenticità dell’essere-nel-mondo (Dasein), espressa nell’homo maximus, che si proietta al di là dei confini angusti dell’ “umanesimo minimalista”, difesi dall’individualismo liberale.

L’eurasiatismo, a cui Dugin fa costante riferimento, si contrappone alla pretesa universalità del Logos occidentale, considerandolo “un fenomeno locale temporaneo”. Viene così rifiutata l’idea di  un processo storico unico in cui, come in una scala evolutiva, vengono collocate le diverse culture, dal momento che l’ “epistemologia eurasiatica” attribuisce alla civiltà russa (come alla cinese o all’islamica) una totale autonomia rispetto all’Occidente. Tutto ciò metterebbe in discussione, a suo avviso, i concetti stessi di modernità e di contemporaneità, considerati come esclusivamente occidentali, per porre in primo piano il concetto metastorico di tradizione. Nella critica alla modernità, accanto a Guenon, troviamo anche, nel variegato atlante ideologico di Dugin, Spengler, Toynbee e Lévi-Strauss, la cui critica all’eurocentrismo non conduce di certo a un ritorno mitico all’origine.

Nell’ambito dell’emigrazione che interessò parte dell’Intellighenzia russa in seguito alla Rivoluzione, Nikolaj Sergeevic Trubeckoj, Roman Jakobson, Georgij Florovskij, ripresero teorie che la corrente slavofila aveva elaborato in contrapposizione a quanti guardavano all’Illuminismo per modernizzare la Russia. Nella situazione particolarmente critica segnata dalla Rivoluzione, la tradizione ortodossa, il mito della Santa Madre Russia, la figura di Gengis Khan, divennero, in molti ambienti, dei punti di riferimento identitario rispetto ai modelli occidentali. Coloro i quali nutrirono la speranza che il nuovo assetto politico, nato dalla Rivoluzione, potesse rappresentare un’alternativa eurasiatica all’Europa, furono però guardati con sospetto e non riuscirono a sottrarsi alle persecuzioni. L’eurasiatismo conobbe poi una nuova fortuna grazie allo storico Lev Gumilev, che riprendendo, in chiave geopolitica alcuni temi del movimento degli Anni ’20, offrì strumenti ideologici a Dugin, in funzione antioccidentale. Nel 1992 Eduard Limonov, privilegiando gli aspetti nazionalisti sull’internazionalismo comunista, fondò il Fronte Nazionale Bolscevico. Ne derivò uno strano sincretismo, in cui coesistevano, e non solo sul piano iconografico, simboli nazisti e bolscevichi. Dugin, inizialmente vicino a Limonov, ne prese successivamente le distanze e diede vita a una formazione eurasiatista, che intendeva gettare un ponte fra l’esperienza sovietica e la galassia della destra nazionalista. Il progetto di Unione Eurasiatica, elaborato da Putin già nell’ottobre del 2012, coniuga i temi dell’eurasiatismo con la specificità geopolitica della Russia postsovietica, senza accogliere però l’apparato ideologico dell’esoterismo di Dugin.

La crociata antimoderna di Dugin riesce a conciliare, in modo spregiudicato, le più diverse correnti di pensiero che si sono opposte al liberalismo. Incotriano infatti il tradizionalismo di Guenon e di Evola accanto Gramsci, a Schmitt e ad Alain de Benoist, gli eurasiatisti accanto a Levi-Strauss, e così via. Questa chiamata alle armi dei nemici della democrazia liberale e della Società aperta evoca purtroppo i momenti più cupi del secolo scorso.

Hitler criticava Franco, quando la Falange imprigionava gli oppositori comunisti e scriveva in proposito che i “I rossi” divennero nel tempo i “migliori sostenitori” della sua lotta allo Stato liberale. Nella sua biografia di Stalin, Robert Conquest ricorda che l’ambasciatore britannico a Berlino, nel 1934, osservò come gli ex comunisti, nelle parate, fossero “più prestanti delle unità dell’SA”. Hitler evidenziava che nel movimento nazista “gli estremi si toccano: i comunisti della sinistra e ufficiali e studenti della destra”. Erano dunque alleati contro il nemico comune, identificato nel liberalismo, le cui garanzie procedurali apparivano come vuoti formalismi dinnanzi al  decisionismo del Führer. Nel febbraio del 1938, dopo l’incendio del Reichstag, fu emanato un decreto d’emergenza liberticida, per la “protezione del popolo e dello Stato”, che rimase in vigore fino alla caduta del nazismo. La logica dell’emergenza, che consente di reprimere i nemici del popolo, può trovare oggi la sua applicazione in Egitto come in Cina, in Turchia come in Russia, o in tante altre autarchie nelle quali Dugin potrebbe riconoscersi.

Anche quando i totalitarismi, o i sistemi politici che ne derivano, si aprono al mercato, privilegiano forme autoritarie di capitalismo centralizzato, incompatibili con i principi di uno Stato di diritto. Sarebbe strano se in Cina si coltivasse un particolare interesse per la concezione kelseniana della democrazia o per la Società aperta di Popper. In un contesto in cui il potere assoluto del partito non può essere messo in discussione, le attenzioni sono infatti rivolte a Carl Schmitt, che peraltro considerava Mao un “nuovo Clausewitz”, un “partigiano tellurico”, rispetto al quale diveniva secondario discutere se la sua ideologia si avvicinasse a Lenin più che a Marx. L’esigenza di identificare, entro un perenne stato d’eccezione, i nemici del popolo, diviene fondamentale in uno regime autocratico, che proprio nella contrapposizione amico-nemico, teorizzata da Schmitt, può trovare la sua legittimazione.

Testi citati

Dugin, La quarta teoria politica, trad. it. , Nuova Europa, Milano, 2017.

Conquest, Stalin. La rivoluzione, il terrore, le guerra, trad. it., Mondadori, Milano, 2014.

R.Popper, La società aperta e i suoi nemici, trad. it., Armando, Roma, 1977, 2 voll., vol. I.

Schmitt, Teoria del partigiano, trad. it., Adelphi, Milano, 2005.

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