Ricordando Luciano Pellicani (10 aprile 1939 – 11 aprile 2020), un riformista scomodo

Si può essere socialisti senza essere marxisti, diceva Luciano Pellicani, pensando all’Inghilterra e alla Svezia. E’ ben noto che in Italia la socialdemocrazia non ha mai goduto di buona fama in casa comunista e, anche quando il tempo togliattiano dei “socialtraditori”  e dei “socialfascisti” sembrava lontano, era considerato sconveniente distogliere lo sguardo da Mosca per guardare a Stoccolma.   Nel 1959, a Bad Godesberg, la Socialdemocrazia tedesca aveva abbandonato il modello marxista-leninista, mentre nel P.C.I., di fronte alla crisi evidente del socialismo reale, bisognava attendere il 1981 perché Enrico Berlinguer si limitasse a commentare che “la capacità propulsiva di rinnovamento delle società (o almeno di alcune società) che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi”.

Il saggio su Proudhon , che apparve su l’Espresso  del 27 agosto 1978 con il titolo Il Vangelo socialista, firmato da Bettino Craxi,  fu in realtà scritto  da Luciano Pellicani, che  si proponeva di indicare un socialismo alternativo alla concezione marxista-leninista. L’idea di Proudhom, di consentire ai lavoratori la partecipazione alla proprietà dell’impresa, trovava riscontro nei programmi del socialismo liberale e Carlo Rosselli, insieme al sociologo francese e a Eduard Bernstein, rappresentava il nucleo del progetto riformista di Pellicani. Con toni che riecheggiano le analisi di Pellicani, Craxi tornerà sull’argomento su Mondo operaio, descrivendo il Che fare? di Lenin come “una aggressiva ripresa del progetto di Robespierre”, che potrebbe definirsi un “dispotismo pseudo-socialista”.

Proudhom è stato il primo, scriveva Pellicani in Miseria del marxismo, “che ha saputo coniugare l’idea di socialismo con il mercato”. Il suo modello di autogestione prevedeva una società socialista policentrica e pluralista, distante dalla concezione marxista-leninista, in cui il monopolio statale dei mezzi di produzione nega ogni espressione di libertà alla società civile.

La storia degli imperi orientali, sostiene Pellicani, “documenta con monotona reiterazione che, quando lo Stato è l’unico imprenditore, la schiavitù diventa generale e senza scampo”. Il destino di Proudhom, commenta, è simile a quello riservato ai riformisti di sempre. Sarà infatti “accusato di liberalismo dai comunisti e di comunismo dai liberali e passerà alla storia come uno dei pensatori più contraddittori del suo tempo”. Ed era questo anche il destino di Pellicani, che, estraneo alle strategie dell’eurocomunismo come al compromesso storico, visse poi con amarezza il tramonto del progetto riformista del P.S.I., naufragato in modo inglorioso sulla “Questione morale”.

Per Bernstein “non c’era idea liberale che non appartenesse al contenuto ideale del socialismo”. La socialdemocrazia mirava infatti a coniugare l’eguaglianza con la libertà individuale. Ecco perché invocava “un Kant del socialismo”, che indicasse quel principio etico di solidarietà universale secondo cui gli uomini dovrebbero essere considerati “come fini e non come mezzi per fini ad essi estranei”.

Queste considerazioni ci fanno comprendere le ragioni per cui la definizione di “liberalismo organizzatore”, che Bernstein dava del socialismo, scrive Pellicani, fosse più vicina al federalismo mutualistico di Proudhom che al collettivismo marxiano.

Nella sua opera fondamentale, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, apparsa nel 1899, che raccoglie e rielabora una serie di articoli pubblicati sulla rivista Neue Zeit a partire dal 1896, Bernstein metteva in discussione i metodi insurrezionali e rivoluzionari, schierandosi a favore di una tattica, fondata sul diritto di voto. L’espressione “dittatura del proletariato” diveniva così, a suo avviso, una frase “sopravvissuta a se stessa”, che rinviava “a un livello di civiltà più arretrato”, nel momento in cui la socialdemocrazia si avviava a garantire “un trapasso senza rotture violente” verso una società più giusta.

Bernstein precisava che, se poteva giustificarsi un naturale antagonismo verso quei partiti che, definendosi liberali, avevano rappresentato “semplici guardie del corpo del capitalismo”, diverso doveva essere l’atteggiamento da tenere nei confronti del liberalismo “come movimento storico universale”. Riteneva infatti che il socialismo ne fosse “l’erede legittimo, non solo dal punto di vista cronologico, ma anche da quello del contenuto ideale”, come provava il fatto che per la socialdemocrazia la salvaguardia della libertà costituiva “un bene più alto dell’attuazione di qualsiasi postulato economico”.

Il pensiero di Bernstein, che era stato fondamentale nella formazione del socialismo italiano, contribuì in modo significativo all’elaborazione del nuovo corso del riformismo degli anni ‘70. L’attenzione a questi temi  avvicinò Pellicani al P.S.I., che con la segreteria  di Craxi si  proponeva di riprendere la tradizione riformista di Turati e l’eredità del Socialismo   liberale di Rosselli e del Partito d’Azione.

La scelta socialdemocratica comportava un approccio critico al capitalismo, di cui Pellicani coglieva la dimensione emancipativa, non solo sul piano dello sviluppo economico, ma anche sul piano sociale e politico. Non sottovalutava però il rischio che un mercato senza regole poteva rappresentare per la giustizia sociale. Riconosceva quindi dei compagni di strada in Keynes come in Lord Beveridge, dei liberali che, promuovendo politiche redistributive, non avevano mai identificato il liberalismo esclusivamente con il mercato.

La Socialdemocrazia e il Socialismo liberale delineano così l’orizzonte entro cui possiamo collocare la ricerca scientifica e l’impegno politico riformista di Pellicani. Quando a sinistra si prospettava ancora un Eden postcapitalistico, rifiutando categoricamente la via socialdemocratica, diceva spesso, citando Olof Palme, che il capitalismo è simile a una pecora che va tosata. Come dire che non deve essere abbattuto, ma regolato, adottando virtuose politiche redistributive e non forme di assistenzialismo burocratico. Da socialista liberale e riformista, Pellicani immaginava, con Bernstein e Rosselli, una sinistra che, accogliendo l’eredità del liberalismo, fosse in grado di estendere i diritti di cittadinanza oltre i confini dello Stato liberale.

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