20 luglio 1946: il sabato dell’esempio agli italiani. Quella Politica che partorì la Costituzione.

La prima adunanza plenaria dei Costituenti fu svolta di sabato mattina.

Il presidente provvisorio Giovanni Porzio, già deputato nel Regno d’Italia, diede avvio ai lavori alle ore 10:15.

Fu una seduta solenne, senza perdite di tempo. Il verbale è di poche pagine[1], ma significative. Un’altezza di pensiero non comune a cui si unisce lo spessore della concezione del “lavoro”.

Quel termine lavoro che, concettualisticamente parlando, si andrà poi ad inserire nel famoso primo articolo della futura Carta fondamentale dell’Italia repubblicana.

Porzio fu assistito per i lavori da Nilde Jotti (la più giovane dei presenti). Un uomo e una donna quindi. Quasi un segno del destino che preludeva a quel principio di parità ed eguaglianza tanto caro alla dimensione democratica che si stava andando a costruire.

Aleggiava in quell’aula del sabato mattina un profumo di serietà unito alla sobrietà religiosamente percepibile tra i Costituenti della commissione (i famosi 75 membri).

Allora si procedette al voto.

Tra i votanti Moro, Einaudi, Pertini, Molè, Lina Merlin, ecc.

Meuccio Ruini diventò presidente; anch’egli ex deputato del Regno d’Italia.

Dagli atti dell’assemblea costituente di questo importante sabato mattina del 46 emerge il senso profondo del “tempo nel tempo”.

Gli italiani aspettavano una Costituzione e il Presidente Ruini ebbe a comprendere bene la funzione del lavoro, di quel lavoro, in quel momento storico.

“L’abnegazione e la dedizione ricostruiscono il Paese” era il leitmotiv alla base.

Nessun proclama, nessun discorso. Solo l’invito a lavorare.

Basti leggere il rapporto sommario della seduta: il “Presidente non intende pronunciare un discorso d’insediamento, anche perché vuole con l’esempio mostrare che qui non si devono fare discorsi, ma soltanto osservazioni e proposte concrete”.

Certamente questo passaggio, calandoci idealmente per un attimo nell’atmosfera del tempo e del luogo, ci fa immaginare come chi stesse stenografando il verbale fosse tenuto a riassumere la centralità di ciò che si stesse dicendo.

Ecco che il “tempo nel tempo” renderebbe, perfettamente, il come ci fosse una sensibilità determinata tra i Costituenti: il senso del dovere verso il lavoro. Non il contrario (cioè il lavoro come elemento del dovere).

Fu così che Ruini decise, per l’elezione avvenuta, di non ringraziare alcuno dei Colleghi della commissione costituente sebbene ne avesse molta voglia.

Il motivo è così di spessore intellettuale ed umano che si può comprendere bene solo leggendo, esattamente, le parole sempre del verbale di quella mattina di sabato del 46.

Riporta la stenografia che il Presidente “comprende che questo lavoro, non solo per lui ma per tutti implica assenza di vacanze. Lavorerà molto e l’unico impegno che prende è che farà lavorare molto anche i colleghi, perché per esaurire il lavoro non si hanno che tre mesi, in quanto entro il 20 ottobre dovrà esser preparato il progetto di Costituzione”.

È da qui che si coglie un ulteriore elemento di congiunzione tra l’alto senso di responsabilità e il dovere dell’esempio nell’accezione più intrisa di serietà possibile: il rispetto del lavoro nel tempo (a prescindere dalla data di scadenza) in cui occorre espletarlo.

Non a caso il Presidente Ruini non interviene con un discorso e con un ringraziamento, ma nell’auto-negarsi l’uno e l’altro indica la strada di una dimensione volta all’eguaglianza, all’impegno comune, alla laboriosità senza risparmio: rispettare la fiducia dei quasi 25 milioni di italiani giunti poco prima al voto Costituente[2] era univocamente il diktat.

Cosa sarebbe successo se i Costituenti non avessero rispettato quanto emerso da quel famoso 2 giugno?

Ruini ebbe l’intuizione di non parlare, di non ringraziare. Proprio per dare un segnale forte pur nell’equilibrio, nella sobrietà, nell’estremo contegno. Con la sfida di unire tutti i Costituenti in un’opera ardua ma con il sentimento di ripagare, ben presto, la fiducia degli italiani, appunto, con il lavoro.

Già, la fiducia. Che termine stupendo. Etimologicamente (dal latino fidere[3]) implica avere fede, credenza e speranza verso qualcuno.

La fiducia come si conquista d’altronde? Con il riconoscimento del valore.

Allora tornano forti e attuali le parole di un illustre manager italiano come Sergio Marchionne. Quando la Fiat era in grave perdita egli si chiedeva perché mai si andasse diffusamente in vacanza ad agosto esclamando “in ferie da cosa[4]?

Dobbiamo far ripartire il Paese prima di tutto dall’abnegazione. Perciò serve Politica più che mai. E siamo tutti noi. Non serve additare i partiti.

Pensiamo alla sfida della ripartenza come ad una proiezione della ricostruzione del Paese.

Come se si dovesse fare per la prima volta la Costituzione perché “se non vi si riuscisse, si darebbe un pessimo esempio” ai cittadini e alle generazioni del futuro.

Ri-Costituiamo, allora, il valore del tempo del lavoro nel tempo del dovere.

Non è un proclama, ma la dignità della società sulle orme di quei giganti del 20 luglio 1946.

 

 

 

[1] http://legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Commissione/sed001/sed001nc.pdf

[2] https://www.settantesimo.governo.it/it/approfondimenti/l-assemblea-costituente/

[3] https://www.etimo.it/?term=fiducia

[4] https://video.corriere.it/marchionne-mese-agosto-sono-tutti-ferie-ma-ferie-cosa/67611e54-9a13-11e8-b29e-fbb2c6c2bbaf

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