Economia di mercato e giustizia sociale nel liberalismo di Luigi Einaudi

Le osservazioni di Luigi Einaudi, durante i lavori dell’Assemblea costituente, sul secondo e sul terzo comma del futuro art. 41 della Costituzione, esprimono pienamente la sua visione del rapporto tra economia e società. Il testo, poi approvato, del secondo comma, definisce i confini dell’iniziativa privata, che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Il terzo comma dello stesso articolo affida alla legge il compito di determinare “i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica, privata e pubblica, possa essere indirizzata a fini sociali”. Se risultava del tutto evidente che l’attività economica non dovesse in alcun modo compromettere la sicurezza, la libertà e la dignità delle persone, non appariva affatto chiaro a Einaudi cosa dovesse esattamente intendersi con “utilità sociale” e “fini sociali”, trattandosi di concetti che avrebbero potuto essere declinati in maniera diversa a seconda degli orientamenti politici prevalenti. Alla luce di quanto è poi accaduto, il suo timore che tutto ciò potesse dare   all’economia un’impronta dirigistica era assolutamente comprensibile.

 

A tal proposito, in una delle sue Prediche della domenica, scriveva che la decisione dello stato di divenire imprenditore dovrebbe presupporre che gli uomini politici possiedano una “capacità inventiva economica” tale da consentir loro di privilegiare gli investimenti efficaci sulle scelte sterili o clientelari. A questo punto si chiedeva se fosse più capace di “inventare”, il privato, che rischia personalmente, o l’uomo pubblico, “che investe il denaro dei contribuenti”. Riteneva allora necessario distinguere il ruolo della politica, cui attribuiva il compito “di costruire la cornice” dell’azione economica, dal concreto operare di agricoltori, industriali e commercianti, che garantiscono lo sviluppo della società.

 

In ambito economico, scriveva, il primo comandamento è lo stesso che si impone sul piano spirituale. Se dunque non si può limitare la predicazione di una fede religiosa che rispetti i principi costituzionali, non si può, d’altra parte, riconoscere alcun privilegio economico “a danno della uguale libertà di tutti di lavorare, di intraprendere, di risparmiare”. E’ una “grossolana fola” considerare i liberali come i fautori dello stato assente e Adam Smith come il teorico del lasciar fare e del lasciar passare, o sostenere che il socialismo, in tutte le sue espressioni, voglia affidare allo stato la piena gestione dei mezzi di produzione. Liberali e socialisti, scrive Einaudi, sono concordi nel promuovere l’intervento dello stato, ma se “l’uomo liberale vuole porre le norme, osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possono liberamente operare […] l’uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo”. Se il liberale traccia i limiti, il socialista indica e ordina le maniere dell’agire economico.

 

Einaudi precisa, al tempo stesso, che la distinzione non è poi così categorica, potendo anche accadere che “il liberale in certi casi ordini e diriga ed il socialista consenta a chi operi di muoversi liberamente a suo talento”. Avversava il socialismo scientifico e il collettivismo russo, “in quanto schemi di organizzazione” rigida della società e apprezzava invece quel che chiamava il socialismo sentimento, “che ha fatto alzare la testa agli operai del Biellese e del porto di Genova”. Il suo “scetticismo invincibile” verso ogni soluzione paternalistica calata dall’alto, lo avvicinava a questa forma di socialismo, in cui coglieva “gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere e a perfezionarsi”.

 

E’ noto che Benedetto Croce aveva sostenuto, coerentemente con la sua distinzione tra l’etico liberalismo e l’economico liberismo, che “l’idea liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo, con la proprietà privata della terra e delle industrie”. Nel difendere la libertà in ogni sua declinazione, Einaudi non mancò di rilevare come, per lo stesso Croce, l’affermazione morale della libertà non avrebbe potuto attuarsi pienamente in mancanza dei mezzi idonei e, tra tali mezzi, la libertà economica non poteva passare in secondo piano.

 

Quando il filosofo dice che la libertà morale è compatibile con qualunque ordinamento economico, “dice il vero per gli eroi, per i pensatori e per gli anacoreti”, scrive Einaudi. Il modello potrà allora essere rappresentato da Spinoza, che “sfaccettando brillanti, crea in se stesso un mondo spirituale e liberamente pensa e lega il mondo al suo pensiero”. Questa affermazione diviene però “una sentenza terribile per un’umanità composta di poveri esseri”.

 

Un pensatore può sentirsi libero anche in condizioni di schiavitù. Un operaio comunista può  considerarsi libero perché ha contribuito a dar vita ad un modello politico nel quale pienamente si riconosce, “ma pensatore ed operaio comunista diventano tiranni quando, dopo aver conquistata per sé la libertà, vogliono impedire ad altri, che non sente la gioia del pensare e del lavorare allo stesso modo, di seguire la propria via”.

Secondo Einaudi, le minacce alla piena espressione della libertà non sono però rappresentate solo dal bolscevismo, in quanto comunismo e capitalismo monopolistico tendono, in maniera diversa, a omologare le azioni umane e a “distruggere la gioia di vivere, che è gioia di creare”. La libertà di cui parla Einaudi non vuole essere quella che troviamo anche nelle galere, nei campi di concentramento o “fra gli eroi e i martiri; ma è la libertà pratica dell’uomo comune”. Vi sono due estremi, scrive, nei quali risulta difficile che la libertà possa esprimersi, e sono rappresentati dal monopolio privato e dal collettivismo. Entrambi, a suo avviso, “sono fatali alla libertà”.

 

Ecco perché, per Einaudi, dall’ipotesi astratta del liberismo si può passare alla “formulazione precettistica” solo quando ci si trovi dinnanzi a un problema concreto, rispetto al quale un economista ”non può essere mai né liberista, né interventista, né socialista ad ogni costo”. Un fautore dell’economia di mercato può allora proibire il lavoro notturno, o proporre il controllo delle ferrovie da parte dello stato, ritenendo dannoso il monopolio privato dei mezzi di trasporto. E’ però un imperativo morale, prima che economico, non creare lavoro inutile, per citare il titolo di una sua Predica della domenica. Che cosa produssero, si chiedeva, “le buche fatte scavare e subito fatte colmare durante la Rivoluzione francese del 1848 allo scopo di dar lavoro ai disoccupati parigini?”. Creare lavoro è dunque un puro mezzo, che diviene degno di lode solo “se lo strumento è conforme al fine vero dell’elevazione morale e materiale dell’uomo”.

 

Nel citare il celebre passo smithiano de La ricchezza delle nazioni, in cui il filosofo ed economista scozzese scrive che, perseguendo il proprio interesse, l’individuo è condotto, da una mano invisibile, verso un beneficio collettivo in modo del tutto inintenzionale, commenta che non mancano, nello stesso testo, i punti in cui si insiste sui contrasti che insorgono fra le classi come fra i singoli. La mano invisibile, scrive Einaudi, è una metafora, ricorda la “divina provvidenza” o la “natura”. Ha dunque un valore storico e la scienza economica, che è derivata da Adam Smith, “non ha nulla a che fare con la concezione religiosa del liberismo”. Il liberalismo tradizionale “classico, liberista”, precisava Einaudi, può esser considerato come una “invenzione” di dirigisti e socialisti, perché nessuno dei grandi classici è mai stato liberista “nel significato caricaturale dei denigratori”. Lo dimostra il fatto, sottolinea, che Smith fu favorevole alla protezione della marina mercantile, Ricardo propose la banca di emissione di stato e Mill, per la sua attenzione alla giustizia sociale, fu considerato socialista.

 

A questo riguardo, Einaudi avvertiva l’esigenza di chiarire il concetto di “economia sociale di mercato”, utilizzato da Ludwig Erhard per definire la politica economica adottata in Germania dal governo Adenauer. Quanti avevano in odio il termine “liberale”, scriveva, si appigliavano al “sociale” per dimostrare che in Germania ci si stava orientando verso un superamento del liberalismo, in direzione socialista. Non era affatto così, secondo Einaudi, dal momento che la politica di mercato diviene sociale solo grazie alla concorrenza e alla limitazione dei monopoli. Si favorisce, in questo modo, “una socializzazione del progresso e del guadagno”, stimolando, al tempo stesso, lo spirito di iniziativa individuale. Siccome i politici si contentano dell’aggettivo “sociale”, commentava ironicamente, Erhard “volentieri indulge all’innocuo vezzo linguistico”.

 

In Einaudi i singoli non sono mai concepiti in termini monadici e lo stato “non è una mera società per azioni”. Non si può concepire, egli scrive, che l’uomo, nello stato, resti “una astrazione”. Non sappiamo cosa siano, scriveva, i “Robinson Crusoe viventi in un’isola deserta”, in quanto “la società o collettività non è un che di distinto dagli uomini che la compongono”, i quali, associandosi, divengono “uomini veri”. Non deriva da ciò una condizione irenica. I rapporti sociali sono infatti costitutivamente conflittuali, perché, scrive Einaudi, “solo nella lotta, solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso vittorie e insuccessi, una società, una nazione prospera”. Quanti, in questo confronto continuo, dicono “Io so”, “Questa è la verità”, ritenendosi depositari di un sapere superiore, non comprendono che noi non conosciamo, ma cerchiamo la verità, “non siamo mai sicuri di possederla e torneremo ogni giorno a ricercarla, sempre insoddisfatti e sempre curiosi”.

 

A questa concezione della società si oppone l’ideologia, che ha assunto varie forme, dal nazifascismo allo stalinismo, e può ripresentarsi nell’aspetto più rassicurante dello stato-balia. In un mondo retto dall’ideologia, “il tiranno conosce e, conoscendola, afferma la verità, la verità vera, quella verità a cui tutti devono rendere omaggio”. Il tiranno potrà anche garantire sicurezza e limitare le diseguaglianze, sostituire gli imprenditori con i burocrati, trasformare gli artisti in edificanti “ingegneri delle anime”, per usare un’espressione attribuita a Stalin, ma “la sua non può non essere se non una tirannia, livida e lurida tirannia, destinata -commenta Einaudi- alla lunga alla morte del pensiero ed alla rovina della società intera”.

 

Nel 1923 Piero Gobetti gli chiese di raccogliere gli scritti che aveva pubblicato dal 1897 sui problemi del lavoro. In La bellezza della lotta, che apre Le lotte del lavoro, del 1924, Einaudi prende radicalmente le distanze rispetto al collettivismo socialista e al corporativismo fascista. L’equilibrio ottenuto attraverso discussioni e lotte è preferibile, scrive, “a quello imposto da una forza esteriore”. Per conservarlo è infatti necessario che “sia minacciato ad ogni istante di non durare”. Einaudi avrebbe potuto condividere con Karl Popper la tensione utopica verso una “libertà uguale”, ma, con il suo “scetticismo invincibile”, avrebbe anche ammesso, con lui, che tutto ciò non è nient’altro che un sogno meraviglioso, perché la libertà è più importante dell’uguaglianza. Quando infatti si perde la libertà, ha scritto Popper, con parole che potrebbero essere dello stesso Einaudi, “tra non liberi, non c’è neppure l’uguaglianza”.

 

Testi citati

Einaudi, Questo terzo titolo, in Id., In lode del profitto e altri scritti, a cura di A. Giordano, IBL Libri, Torino, 2011.

Id., Lo stato “imprenditore” e il Mezzogiorno, in Prediche della domenica, Einaudi, Torino, 1987.

Id., Liberalismo e socialismo, in Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1962.

Id., Dell’anacoretismo economico, in B. Croce-L. Einaudi, Liberalismo e liberismo, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 1957.

Id., Chi vuole la libertà, in Il Buongoverno, Laterza, Bari, 1955.

Id., Non creare lavoro inutile, in Prediche della domenica

Id., Concludendo, in Prediche inutili

Id., Ipotesi astratte e ipotesi storiche e dei giudizi di valore nelle scienze economiche, in Scritti economici, storici e civili, a cura di R. Romano, Mondadori, Milano, 1996.

Id., È un semplice riempitivo, in Prediche inutili

Id., Il compito degli universitari, in Prediche inutili

Id., In lode del profitto, in Prediche inutili

Id., La bellezza della lotta, in Le lotte del lavoro, Einaudi, Torino,1972.

Popper, La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Armando Editore, Roma, 2002.

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