Grande guerra, milite ignoto e dintorni

1.VALIDITA’ DI ANNIVERSARI E COMMEMORAZIONI

 

Condizione essenziale perché le commemorazioni di eventi possano servire a qualcosa, il che non è nemmeno certo, è che esse si propongano come occasioni di serie riflessioni storico-critiche e non retoriche o apologetiche circa gli eventi di cui ricorre l’anniversario. Ma così non è stato. E così non è!

 

La ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è stata per lo più occasione di sentimenti dissacratori e antirisorgimentali (esaltazione del Regno dei Borboni, usurpazione dei Savoia, ecc.) o di celebrazioni di regime trionfalistiche e retoriche. Una assoluta mancanza, se non in qualche isolato caso, di prospettazioni interpretative e/o reinterpretative, che, senza nulla togliere al valore e alla grandiosità del conseguimento dell’indipendenza nazionale come il più grande evento rivoluzionario del XIX secolo, potessero gettare nuova luce sulle sue eventuali difettosità, sul continuum Risorgimento/post-Risorgimento/guerre mondiali e sul perché tante premesse di quel risultato in realtà non siano state poi mantenute.

 

Così pure per gli eventi celebrativi per il centenario dell’ingresso nella prima guerra mondiale dell’Italia nel maggio 1915, sono stati spesso solo retorici e a volte anche grotteschi.

 

Anche la ricorrenza del centenario della vittoria italiana del 4 novembre 1918 contro l’Austria non è sfuggita a questa regola, anzi è sceso un generale silenzio (salvo qualche cerimonia di rito!), una non-commemorazione che ha avuto per lo più matrici ideologiche, a volte con contorni addirittura faziosi. Un silenzio commemorativo che contrasta persino con l’enfasi posta sul centenario dell’entrata in guerra. Perché? In primis, ponendo a base della guerra solo l’aspirazione irredentistica (ma così non fu!), cioè la liberazione delle terre ancora soggette al dominio straniero fa esattamente il paio con l’altra liberazione, anzi ne è funzionale.

In secondo luogo, quella vittoria dimenticata (mio articolo/opinion del novembre 2018) fu prodromica all’avvento del fascismo, ne fu pronuba, in quanto il fascismo si ergeva a unico erede dell’arditismo, del volontarismo, del cameratismo, dell’aristocrazia da trincea, cosicché il mito dell’uomo nuovo andava a braccetto con il mito della vittoria mutilata. Il tutto in base ad una visione ideologica in base alla quale quella vittoria, più che superare la disperazione di Caporetto, fu una vittoria ambigua da cui il fascismo trasse forza e consenso, ciò che stride con il mito della Repubblica, la quale, anziché sforzarsi nella ricerca di nuovi valori condivisi e fondanti della civitas nazionale, dall’antifascismo continua a trarre, almeno per alcune grandi forze politiche che la sorreggono, la sua ragion d’essere.

Anche questo centenario del Milite Ignoto, celebrato lo scorso 4 novembre, dunque, al di là di omaggi formali, rientra in questa categoria da dimenticare, anche perché, pur esso, ha rappresentato uno dei simboli cardini della propaganda fascista.

 

L’intento forse ambizioso di questo programma, pur celebrativo dell’evento, di cui si tratterà più diffusamente in appresso, vuole essere anche e soprattutto il tentativo di un ripensamento storico-critico, in termini di proposizione di motivi di più accurata riflessione nonché di un riposizionamento concettuale e logico rispetto ad accadimenti e interconnessioni fors’anche inaspettati. Insomma, un excursus storico-critico che valga a riposizionare organicamente l’evento de qua in chiave di continuità con il processo risorgimentale e post-risorgimentale, pervenendo così a più coerenti prospettazioni interpretative e reinterpretative rispetto a situazioni altrimenti in larga parte inesplicabili.

 

2.UNA QUESTIONE METODOLOGICA

 

Historia magistra vitae recita l’antica massima per affermare che il passato illumina il presente, talché ove presa alla lettera si scadrebbe nel determinismo e nella ripetitività dei fatti storici. In realtà la storia è un tunnel di cui non si vede la luce! Infatti, è anche il presente a schiarire il passato e a renderlo sempre più intellegibile, gettando su di esso nuova luce e fornendo continuamente nuovi elementi di valutazione. Insomma un rapporto di interscambio conoscitivo e interpretativo nell’ambito di una corretta e rielaborata dialettica tra passato e presente su un invertito asse temporale. Una consecutio temporum non soltanto descrittiva ma soprattutto interpretativa per scoprire concatenazioni storicamente attendibili, magari dotate pure di una certa suggestività. D’altra parte Historia non facit saltum! La Storia non è assimilabile ad un “sistema modulare” (Sybrick) in cui ogni “blocco” può essere estrapolato e diventare oggetto di analisi a sé stante, ma è un susseguirsi di accadimenti organicamente interconnessi soprattutto nella dimensione temporale su un asse cronocentrico nella ricerca di motivi unificanti di continuità piuttosto che di breack, che di per sé si pretenderebbero, da parte di alcuni, esaustivi come modelli sociologici autoesplicativi dei fatti storici, centrati su astratte formulazioni atemporali e su pretenziosi modelli strutturali e storicistici (p. es. la Scuola delle Annales).

 

3.ANTEFATTI STORICI: RISORGIMENTO E POST-RISORGIMENTO

 

a. Percorsi risorgimentali

 

La storia del Milite Ignoto o soldato ignoto si situa nel contesto della Prima Guerra Mondiale ed è un militare italiano caduto sul fronte del conflitto e sepolto a Roma sotto la statua della dea Roma all’Altare della Patria al Vittoriano.

Occorre però, ancor prima di diffonderci su questa storia, pervenire ad un corretto e coerente inquadramento del primo conflitto mondiale alla luce dei suoi antefatti storici, vale a dire gli sviluppi risorgimentali e post-risorgimentali. Talché vale la pena di svolgere un veloce excursus storico-critico su tali percorsi, a volte tortuosi, che, senza nulla togliere alla grandiosità dell’epopea risorgimentale, sono stati non sempre e non del tutto idonei a completare l’effettiva unità della nazione italiana.

 

Dapprima, la pesante e definitiva sconfitta di Novara, nel marzo 1849, subita dal Re Carlo Alberto nella prima guerra d’Indipendenza, a causa della cecità politica degli altri sovrani centromeridionali e della intrinseca debolezza dell’esercito piemontese.

Occorrerà un altro decennio e la paziente opera del “Grande Tessitore”, Camillo Benso di Cavour, per l’annessione al Regno della sola Lombardia dopo la seconda guerra d’Indipendenza nel 1859, sostanzialmente combattuta e vinta dai francesi di Napoleone III a Solferino, ancorché con l’apporto dell’esercito piemontese nelle battaglie di Magenta e San Martino, con la cessione, peraltro, dei territori di Nizza e Savoia alla Francia. Tutto ciò comunque darà la stura, l’anno successivo, all’impresa garibaldina della conquista del Regno di Napoli – con il beneplacito però dell’Inghilterra, che aveva in animo di distruggere quel regno posto al centro del Mediterraneo – propedeutica alla proclamazione, il 17 marzo del 1861, del Regno d’Italia, anche se ancora senza il Veneto e Roma.

Insomma – e qui sta il “cruccio” storico, l’altra “distonia” nel processo di formazione della nazione – l’unificazione dell’Italia avveniva non militarmente, ma, nonostante gli sforzi profusi, da un lato grazie a Napoleone III, alla costante ricerca di prestigio internazionale, dall’altro ad opera di Gladstone e dei liberali inglesi.

Ma delusioni più cocenti dovranno ancora arrivare un quinquennio più tardi, con la terza guerra d’Indipendenza, che portò sì all’annessione del Veneto, ma solo grazie alla sconfitta dell’Impero asburgico ad opera della Prussia di Bismarck, a cui l’Italia si era alleata, a seguito della schiacciante vittoria di Sadowa  nel luglio 1866, colta dal formidabile esercito prussiano guidato da von Moltke: tutto ciò, mentre le armi italiane subivano, ad opera degli austriaci, le umilianti sconfitte di Lissa per mare e di Custoza per terra, talché, almeno in una prospettiva nazionale, la guerra doveva considerarsi fallimentare sia per i gravi insuccessi militari sia per il fatto che rimanevano fuori dal regno – e questo sarà un altro passaggio chiave – altri territori, come il Trentino e l’Istria, popolati da numerosissimi italiani.

Anche la conquista di Roma e l’annessione del Lazio al Regno d’Italia nel 1870 furono determinati da successi altrui, questa volta a spese della Francia, sconfitta dalla Prussia il 2 settembre a Sedan, la quale, con il crollo dell’impero di Napoleone III, non era più in grado di proteggere militarmente lo Stato pontificio. Ancora una volta, quindi, un grande obiettivo connesso alla unificazione del Paese, vale a dire lo smantellamento del potere temporale della Chiesa e la sua incorporazione nella monarchia Sabauda, sopraggiungeva non per l’effetto di vittorie militari proprie.

 

In conseguenza, negli anni successivi, proprio per come si era concluso il processo di unificazione nella consapevolezza dei tanti insuccessi che avevano costellato tutto il periodo risorgimentale, incomincia a serpeggiare una diffusa sensazione di malessere spirituale, una sorta di “complesso di inferiorità”, un senso di frustrazione generale, che, sfociando gradualmente in aneliti di rivincita e di espansione territoriali, finiranno per tradursi in aspirazioni irredentistiche e  via via in nazionalistiche e colonialistiche: tutto ciò, peraltro, senza por mano e senza aver prima risolto i gravissimi problemi che affliggevano – e non solo da quel momento – il Paese, in particolar modo il Sud della penisola, ciò che avrebbe posto sin da allora gravi incognite sul futuro sviluppo della vita nazionale.

 

b. Post-Risorgimento e imprese coloniali

 

La nuova classe politica insediatasi al potere dal 1876, la Sinistra, imbevuta dell’idea mazziniana del primato che spettava all’Italia in Europa, smaniosa di esibirsi in politica estera e per di più attratta dalla politica dii potenza di Bismark, in una sorta di implicito accordo tra le istanze monarchico-liberali e le pressanti spinte repubblicane e democratico-mazziniane, dà la stura ad una politica di potenza, in special modo dopo lo smacco italiano al Congresso di Berlino nel giugno 1878, da cui l’Italia esce con “le mani nette”, e “l’affare” di Tunisi, allorquando la Francia conquista la Tunisia, su cui l’Italia aveva pure delle mire.

In definitiva, l’accettazione della Monarchia finisce per passare attraverso la sua capacità di saper guidare una riscossa nazionale onde consentire al nuovo Stato unitario di occupare nel contesto europeo e mondiale il posto di rilievo che le competeva. Insomma, un accordo contenente una univoca riserva politica, affinché la Monarchia, mostrandosi all’altezza del suo ruolo storico, potesse completare l’opera del Risorgimento, ciò che alla fine si traduce nella intrapresa della sola scorciatoia irredentistica e colonialista, come alibi per eludere la soluzione dei problemi che assediavano il nuovo Stato unitario, così come avrebbe voluto la Destra.

 

In conseguenza, benché in ritardo e con una sommaria preparazione militare, viene avviata nel 1885, partendo dalla colonia Eritrea acquistata nel 1882, una politica di espansione coloniale nel Mar Rosso e in Etiopia.

Ma anche questa è destinata ad aggiungere ulteriori delusioni e profondo senso di frustrazione. Già nel gennaio del 1887, il massacro dei cinquecento uomini del tenente colonnello De Cristoforis a Dogali ad opera di preponderanti forze di Ras Alula; dopo la denuncia unilaterale, nel maggio del 1893, del Trattato di Uccialli da parte di Menelik e i parziali successi di Agordat, Cassala, Senafè e Adigrat negli anni 1894/95, la carneficina, il 7 dicembre 1995, dei duemilatrecentocinquanta uomini del maggiore Toselli al passo dell’Amba Alagi. Ma il peggio dovrà ancora arrivare nel mese di marzo dell’anno successivo, con il disastro di Adua, per mano del negus Menelik rifornito di armi dalla Francia, dove avrebbero trovato la morte cinquemila italiani oltre ad un migliaio di ascari e millecinquecento feriti, più morti quindi di tutti quelli avutisi nelle guerre d’Indipendenza.

La terribile sconfitta di Adua, frutto di imperizia, impreparazione, approssimazione, oltre che di cecità politica, avrebbe portato all’uscita dalla scena politica di Crispi e al momentaneo accantonamento di velleità colonialistiche/imperialistiche. Venivano altresì occultate le gravissime responsabilità politico-militari che avevano determinato il fallimento delle imprese coloniali in Africa, tant’è che il generale Oreste Baratieri veniva sì assolto dal Tribunale di Guerra, riunitosi nel giugno del ’96, da responsabilità penali ma con una pesantemente deplorazione dell’esercizio del suo comando. Persino il rigurgito colonialistico nella guerra italo-turca nel 1911, che avrebbe sì consentito la conquista della Libia, limitatamente però alle sole città costiere, avrebbe rivelato impreparazione militare, conducendo anche a gravi insuccessi, come il massacro di bersaglieri a Sciara Sciat. Solo nel 1924 il fascismo ne avrebbe completato la conquista con l’occupazione delle zone interne.

 

4.PRIMA GUERRA MONDIALE

 

a. Mix rivendicativo e spirazioni

 

Ma è in arrivo la nuova guerra mondiale, a cui l’Italia partecipa, dopo l’accordo con le Potenze dell’Intesa, siglato il 26 aprile 1915, e dopo aver riesumato le sue aspirazioni irredentistiche sui territori ancora occupati dall’Austria, vale a dire il Trentino e la Venezia Giulia, temporaneamente accantonate per effetto della sua adesione alla Triplice Alleanza del 1882, e dopo aver posto sul tappeto anche quelle nazionalistiche e quelle colonialistiche a spese della Germania a guerra finita.

In effetti, con la firma dell’accordo che prevedeva l’entrata in guerra dell’Italia, con modalità offensive, si concedeva il Trentino, il Tirolo Meridionale, Trieste Gradisca e Gorizia, l’Istria e le isole antistanti, una parte della Dalmazia e le sue isole, Valona e il Dodecanneso oltre ad acquisizioni territoriali in Africa e in Asia minore. Insomma, un mix rivendicativo che spaziava dal Brennero all’Istria, dalla Dalmazia e al controllo dell’Adriatico al Dodecanneso, ciò che era proprio quello di una grande potenza o almeno aspirante tale, tutt’assieme irredentistico, imperialistico-colonialistico e nazionalistico.

 

b. Quarta Guerra d’Indipendenza?

 

Buona parte della storiografia è concorde nel ritenere, nel solco interpretativo risorgimentale, la Prima Guerra Mondiale una “Quarta Guerra d’Indipendenza” – una rappresentazione che, come vedremo, avrà analoghe conseguenze interpretative anche sulla Seconda Guerra Mondiale – in perfetta continuità con la Terza del 1866, allorquando il generale Pollio, in chiusura del suo libro su Custoza, identifica il trionfo di Vittorio Veneto come vindice della sconfitta di Custoza.

Ma siffatta ricostruzione di aggancio diretto della Guerra mondiale al percorso risorgimentale, ricondurrebbe il tutto solo ad un esile filone irredentistico, che invece, come si è visto, era venuto ad integrarsi in un mix sempre più articolato di progetti colonialistico-imperialisti e nazionalisti, diventando con essi intercambiabile. Insomma, resta legittima la qualificazione della prima guerra mondiale come “quarta Guerra d’Indipendenza” soltanto a patto di ricomprendere nel suo coacervo rivendicativo interessi ed aneliti ben al di là di quelli unicamente irredentistici.

 

D’altra parte, qual è il significato del termine indipendenza in senso lato? Per un primo aspetto, sicuramente quello connesso alla riunificazione del territorio nazionale mediante l’acquisizione delle terre irredente, cioè non ancora salvate, e quindi la capacità di autodeterminarsi nell’ambito del territorio nazionale. Ma, sotto un altro profilo, una grande potenza, per assicurarsi una reale indipendenza, cioè una sua incontrovertibile sovranità sopranazionale, non può tollerare né limitazioni ai suoi confini naturali né restrizioni allo sviluppo di una propria politica internazionale, come chiavi strategiche per non rendere la sua indipendenza puramente nominale.

Proprio in siffatta ottica, non vi è dubbio che la Prima Guerra Mondiale possa configurarsi a pieno titolo come “Guerra d’Indipendenza”, in quanto tesa a conseguire obiettivi nazionali strategici, sia a carattere irredentistico sia a carattere nazionalistico e imperialistico, giustappunto come grande potenza nel contesto europeo, al pari di Francia e Inghilterra.

 

c. Parallelo con la seconda guerra mondiale

 

A questo punto mi sia consentita una piccola digressione! La guerra che iniziava il 10 giugno 1940 – con tutto il suo imponente mix rivendicativo che tendeva ad accaparrarsi Malta e la Corsica (aspirazioni irredentistiche), Gibilterra e il controllo del Mediterraneo in mano inglesi (aspirazioni nazionalistiche), Gibuti e Suez, con mire anche sulla Tunisia (ma non erano in parte quelle stesse aspirazioni colonialistiche successive al Congresso di Berlino del 1878?) – non era pur essa in chiave irredentistica di ricomposizione del territorio nazionale, di sicurezza esterna nonché di consolidamento dell’impero coloniale a spese di Francia e Inghilterra? Allora perché quella guerra non dovrebbe essere considerata a pieno titolo, ancora di più e meglio della prima, come la “Quinta Guerra d’Indipendenza”?

Insomma non è possibile opporre un aprioristico rifiuto concettuale a siffatta tesi ove si consideri l’armonico e compatto filone risorgimentale e post-risorgimentale solo perché in ossequio alla vulgata l’idea potrebbe apparire ripugnante! D’altra parte lo storico non è titolato ad addossarsi una specie di veste sacerdotale come un giudice del tempo, o meglio, come affermava Marc Bloch, “un giudice degli inferi incaricato di assegnare premi e punizioni agli eroi morti”!

Insomma, così incardinato e acquisito il concetto di una reale indipendenza, le rivendicazioni fasciste, poste sul tappeto internazionale a ridosso dell’intervento in guerra, non rappresentavano i fondamenti di una strategia complessiva – i cui obiettivi, qualitativamente identici, differivano semmai solo dal punto di vista quantitativo da quelli del primo conflitto mondiale – per portare l’Italia, a dispetto della sua impreparazione militare, a diventare una grande potenza realmente indipendente, e perché no, anche verso il ben più potente alleato germanico?

 

Un crescendo rivendicativo, dunque, che estendendosi via via dalla Lombardia a tutta la penisola italiana, con la conseguente proclamazione dell’Unità d’Italia, dal Veneto a Roma, dal Trentino alla Dalmazia, dalla Corsica a Malta, da Gibilterra al mar Mediterraneo, dalle conquiste coloniali del XIX secolo all’annuncio del grande impero africano nel 1936 per finire alla “Guerra parallela”, contrassegna quasi un novantennio di storia italiana e che non ci permette di condannare sic et simpliciter chicchessia, da Cavour, a Crispi, a Giolitti, per finire a Mussolini, e men che mai la Corona, del resto sempre ligia ai dettami statutari.

 

Giusto per concludere il punto, comunque, la “Quinta Guerra d’Indipendenza”, la c.d. “Guerra parallela”, voluta dal duce in concorrenza se non proprio in contrapposizione ad Hitler, sarebbe terminata miseramente di lì a poco sul fronte greco-albanese, sulle infuocate sabbie del deserto africano, a Sidi el Barrani a soli novanta chilometri dal confine libico-egiziano, a Taranto, con la messa fuori combattimento di parte della potente flotta di guerra (affondata la corazzata Cavour e danni ad altre due), e a capo Matapan, con la perdita anche dell’Africa Orientale.

Aveva fine così il mito della “Guerra parallela per imboccare il triste percorso della “guerra subalterna”: con essa si consumava pure l’indipendenza dell’Italia, in seguito mai più riconquistata.

 

d. La pace di Versailles e la vittoria mutilata

 

Ma a questo punto, tornando alla Prima Guerra Mondiale, occorre svolgere alcune ulteriori considerazioni, che si riallacciano altresì al mito del Milite Ignoto.

 

E fu dunque la disfatta di Caporetto nell’ottobre del 1917, allorquando tre armate, la 2*, la 3* e la 4*, si ritirarono fino al fiume Piave. Pure essa si situa nella scia di una ricorrente impreparazione politico-militare, in particolar modo negli alti comandi (con pesanti responsabilità del generale Cadorna), cosicché un generale malessere, del resto proveniente da lontano, finì per attanagliare la maggioranza dell’opinione pubblica. Per fortuna, il nuovo comandante supremo, il generale Armando Diaz, riuscirà a riprendere, dal 24 ottobre del 1918, l’offensiva dalla linea del Piave e a sconfiggere gli austriaci nella battaglia di Vittorio Veneto, ciò che avrebbe indotto l’Austria a firmare l’armistizio il successivo 4 novembre.

 

Anche il Trattato di Pace di Versailles, nel gennaio dell’anno successivo, nonostante l’acquisizione del Trentino, l’Alto Adige, Trieste e Zara, ma non la Dalmazia assegnata alla Jugoslavia, aggiungerà ulteriore scoraggiamento e delusione a fronte del mancato ascolto delle richieste italiane, in particolare per Fiume e la partecipazione alla spartizione delle colonie. In Italia, quindi, trattata come una potenza di second’ordine dagli alleati, si alimenta il MITO DELLA “VITTORIA MUTILATA”, né d’altra parte l’Autorità governante si mostrava del tutto capace di risolvere i problemi del dopoguerra, da quelli sociali al reducismo.

In effetti, quello che venne firmato a Versailles non fu un trattato di pace. Fu soltanto una tregua. Cominciava nel 1919 il countdown di una nuova guerra mondiale!

Fu quindi l’ora del fascismo, il solo fortunato maschio capace di fecondare la nazione “femmina”!

 

e. La “madre” di tutte le guerre: interventismo e neutralismo

 

Certamente la Prima Guerra Mondiale, definita “la Madre di tutte le guerre” in quanto rappresentò la nascita della moderna guerra totalitaria, fu una sovrapposizione dei conflitti in cui ogni potenza combatteva per un suo obiettivo particolare o aveva un conto da regolare e fu il risultato dell’automatismo delle grandi alleanze – la austro-tedesca, la franco-russa e la franco-inglese – ma anche dell’apparizione di due nuove potenze nella seconda metà dell’Ottocento, cioè l’Italia nel 1861 e soprattutto la Germania nel 1870, ciò che sicuramente aveva alterato gli equilibri in Europa.

 

Ma lungi dal voler ripercorrere i fatti di guerra, al fine di pervenire ad un coerente quadro interpretativo in cui collocare il mito del Milite Ignoto, val la pena di svolgere alcune ulteriori considerazioni che avranno pesanti riflessi sullo sviluppo degli avvenimenti successivi poiché certamente si trattava di un conflitto che metteva in crisi la società italiana. Una crisi che veniva a concretizzarsi già nella dicotomia tra neutralismo, che trovava suo terreno fertile nel pacifismo, nell’internazionalismo e l’antimilitarismo, vale a dire nell’eredità giusnaturalistica del socialismo, e interventismo, in cui dominavano stati d’animo e aspirazioni diverse, quali ampliamento di obiettivi di politica estera, politiche di potenza, liberazione terre irredente, ecc., ma anche fermenti irrazionalistici, volontaristici ed anche decadentistici: comunque un coacervo di valori empirici che, in un modo o nell’altro, assegnavano in ogni caso un posto privilegiato al concetto di patria.

Interventisti sono il Governo, allora presieduto da Antonio Salandra, Luigi Albertini, i socialisti riformisti (Leonida Bissolati e Gaetano Salvemini), i quali intendono affermare il principio di nazionalità sulle rovine dei due imperi autoritari, i nazionalisti, Mussolini, il quale, abbandonato il partito socialista si propone di realizzare un suo disegno rivoluzionario, una parte del mondo cattolico e un’ampia fascia della borghesia benpensante, animate da un generico ideale patriottico, ora rafforzato dal progetto di ricongiungimento alla patria delle terre irredente.

 

Di certo, nei fermenti irrazionalistici veniva a coagularsi in maniera indistinta la prima grande rivolta populista contro le istituzioni liberali, così come si erano venute formando e consolidando dal 1871 al 1915, un’avversione per la così detta Italietta e per l’uomo che di quest’Italia era il rappresentante, Giovanni Giolitti.

In siffatte aspirazioni emergeva un primato del fare o un dissolvimento del pensiero nell’azione, contro il quale, per esempio, Benedetto Croce reagiva. Infatti vedeva simboleggiato questo irrazionalismo attivistico soprattutto in Gabriele D’Annunzio e lo riduceva ad un momento del decadentismo europeo, un decadentismo che dalla sfera estetica passava direttamente nella vita morale, instaurando così una confusa brama del nuovo.

 

f. I Miti: la guerra, l’uomo nuovo, lo Stato nuovo

 

Il mito della Guerra si fondava dunque su vari elementi: patriottismo, ricerca di uno scopo nella vita, amore di avventura e ideali di virilità, tutti fattori che segnavano lo spirito guerriero dei giovani volontari, in un clima di movimenti e correnti in campo artistico e letterario che non mancavano di sottolineare il mutamento a cui si stava assistendo. Tra essi spiccava il Futurismo, il quale, esaltando una virilità militare che glorificava la conquista e la guerra e sostituendo il movimento violento all’immobilità del pensiero, denotava tutti gli aspetti della guerra in modo positivo. Proprio l’esaltazione della guerra, come desiderio ardente dello straordinario, divenne una decisa forma di opposizione ad una società pietrificata. Tutti questi sentimenti dei futuristi finirono dunque per incanalarsi nel nazionalismo.

 

La figura idealizzata del soldato comune divenne una componente essenziale alla creazione del mito di un uomo nuovo che avrebbe redento la nazione, un mito che confluiva in quello dello Stato nuovo, in un processo di formazione di una coscienza politica estesa che può definirsi come “radicalismodi tradizione mazziniana.

In definitiva, l’occasione dell’evento bellico segnava il fondamentale passaggio dall’idea all’azione nella prospettiva dello Stato nuovo, ereditate e poi fatte proprie dal movimento fascista. Come afferma Emilio Gentile, il fascismo fu, “un movimento collettivo di giovani che si erano formati nella brutalizzante esperienza della guerra…che assimilò i temi del radicalismo nazionale integrandoli con i miti dell’interventismo, del trincerismo e del combattentismo.

 

g. E la Corona?

 

E’ indiscutibile la “vocazione italiana” dei Savoia, un dato strutturale che se da un lato si sposa con una tradizionale politica espansionistica, dall’altro si congiunge, divenendone infine parte integrante, al processo organico di sviluppo della nazione.

Senza voler dare un’interpretazione “sabaudistica” alla storia d’Italia, v’è che il solo contrasto austro-piemontese non avrebbe potuto condurre all’unità nazionale – e quindi non vi sarebbe stato un Risorgimento ma solo una conquista dell’Italia – senza l’intermediazione di una coscienza politica italiana e l’incorporazione nella Monarchia sabauda di una vocazione liberale se non proprio democratica.

In tale ottica, in tutto il periodo che va fino alla Prima Guerra Mondiale, va ascritta a Vittorio Emanuele III l’aspirazione a riequilibrare la politica estera italiana, riportandola al passo del contesto europeo. Infatti, pienamente convinto dell’avvenuto esaurimento della fase dell’alleanza difensiva con gli Imperi centrali, in sintonia con il suo ministro degli esteri – il marchese Antonino di Sangiuliano, che aveva iniziato una politica di avvicinamento alle potenze dell’Intesa – si adoperò per allentare i vincoli che univano l’Italia alla Triplice, che aveva appunto scopi difensivi, al fine di conseguire spazi di autonomia politica e di dirigersi verso  la Francia, l’Inghilterra e la Russia, nella convinzione, non a torto, che ciò fosse congruente con la tradizionale politica di ingrandimento territoriale di Casa Savoia, pur temperata, come innanzi detto, da una coscienza politica italiana, che restava comunque la garante della Nazione e custode dell’unità e unicità dell’autorità dello Stato al di là dei mutamenti di governo e di indirizzo politico.

 

Durante la guerra, il sovrano volle essere sempre presente sul fronte, un “soldato tra i soldati”, per confortare e esortare gli animi, per testimoniare la vicinanza di tutti il Paese, a cominciare dal suo Re, a chi per essa combatteva e si sacrificava. Come ha osservato un grande storico, Gioacchino Volpe, che pur non era un “sabaudista” stricto sensu, Vittorio Emanuele III “si fece soldato, si fece popolo, e non per sentimentalità ma per intima, virile partecipazione ai dolori e agli sforzi della nazione”. Diventò così il “Re della vittoria”, amato dai suoi soldati.

Divenne il “Re di Peschiera” della ferma decisione di resistere sul Piave dopo il tracollo di Caporetto e, come risoluto difensore dell’onore militare italiano e del fante-contadino, non condivise affatto i metodi repressivi di Cadorna, tant’è che a lui si deve la scelta del napoletano Diaz quale successore del generale piemontese.

 

Vittorio Emanuele III fu dunque un grande sovrano che si trovò a regnare in uno dei momenti più drammatici della storia italiana e dello stesso Novecento. Giusto come cenno anche per i decenni successivi, egli, sempre estremamente ossequioso del Parlamento e della dialettica parlamentare, ebbe sicuramente il merito di contenere le tendenze totalitarie del fascismo, evitando quindi che il regime fascista diventasse un regime totalitario perfetto basato sull’identificazione totale dello Stato con il partito.

In verità, il sovrano, al di là di affermazioni spesso solo faziose espresse nei suoi confronti, guardò sempre con diffidenza e preoccupazione al fascismo: nella crisi del 1922 che portò Mussolini al potere, senza avere alcuna collusione con i fascisti ma esclusivamente per ragioni di opportunità politica, fu convinto di dare vita ad un compromesso controllabile tra Corona e fascismo.

Sua fu la ferma opposizione alla firma del decreto con il quale si voleva imporre l’accostamento del fascio littorio allo scudo sabaudo nella bandiera nazionale, così come per ben tre volte rifiutò di controfirmare le infami leggi razziali ma che alla fine dovette varare in quanto, da sovrano costituzionale e parlamentare, il Parlamento si era espresso in maniera quasi unanime. Re Vittorio Emanuele fu sempre benevolo nei confronti di Dino Grandi, ma non trova fondamento nessuna tesi complottistica prima del 25 luglio 1943, sebbene una qualche intesa per rovesciare il fascismo probabilmente ci fu. Il Re, sempre da sovrano costituzionale, nella carenza del Parlamento, impossibilitato a funzionare, aveva bisogno di un deliberato del Gran Consiglio del fascismo in quanto la costituzionalizzazione dell’organo aveva ad esso conferito una “autorità” non inferiore a quella dello stesso Parlamento.

L’abdicazione e poi la partenza per l’esilio incisero molto sul suo morale. Il 9 maggio 1946 iniziava per Vittorio Emanuele III un breve ma triste viaggio che chiudeva il capitolo del regno e apriva quello dell’esilio in terra d’Egitto. Negli anni trascorsi nell’esilio egiziano, sempre più riservato e taciturno, avvertì tutto il peso delle responsabilità e del ricordo di eventi che, suo malgrado, non era riuscito del tutto a controllare, ma sempre con il pensiero rivolto al suo Paese.

Era stato preceduto, poco meno di tre anni prima, il 15 agosto del ’43, da Dino Grandi in fuga in un avventuroso viaggio tra aerei da caccia tedeschi che cercavano di intercettare il triste volo dell’ultimo aereo italiano in partenza per Siviglia!

 

h. Mito ed eroismo nella Grande Guerra

 

Mai come nella Grande Guerra il mito ha svolto una funzione importante nella presa di coscienza politica delle masse, talché ha finito per perdere i tipici tratti politico- sociali per fondere la sua identità con il concetto di eroismo.

Molti alti ufficiali, persino generali, avevano il merito di stare a stretto contatto con i soldati, di trovarsi con loro in trincea, di incoraggiare gli uomini e di fare in modo che fossero evitate inutili perdite. Il generale veniva dunque innalzato a mito e la prima linea diventava il punto di contato tra il soldato-massa e il generale-eroe. Appunto in questo modo l’eroismo, amplificato, diventava mito.

In tale ottica, generalizzando, l’esaltazione della guerra, di quella guerra, in cui spesso viene ad essere superato quel flebile confine che separa gli obblighi del soldato dai gesti di eroismo, diventa essa stessa esperienza caratterizzante e formativa per le generazioni e la patria future. In siffatto quadro, ogni gesto di sacro dovere supera qualsiasi valore e ogni soldato della prima guerra mondiale morto per la patria diventa un vero eroe.

Cosicché mito ed eroismo finirono per confluire in un processo edificatore, quasi purificatore, per il popolo e per la politica italiana, un processo teso alla costruzione di un ideale supremo: un percorso politicizzato, basato su ideali come Patria, Nazione e Stato, a cui si affiancò un processo morale che ebbe come elemento unificante l’esempio supremo incarnato da soldati e condottieri della guerra.

 

5. IL MILITE IGNOTO

 

E’ in questo contesto quasi “mistico”, mitico ed eroico assieme, che si colloca il mito del Milite Ignoto, un semplice militare italiano caduto sul fronte della Grande Guerra e sepolto sotto la statua della dea Roma all’Altare della Patria al Vittoriano.

La tomba del Milite Ignoto simboleggia tutti i caduti e i dispersi in guerra italiani ed è scenario ogni anno di omaggio da parte della massima carica dello Stato assieme ad altre autorità della deposizione di una corona di alloro in loro ricordo.

La sua inaugurazione solenne avvenne il 4 novembre 1921, con la traslazione da Aquileia dei resti di un soldato sconosciuto, dopo un viaggio in un treno speciale che attraversò varie città italiane.

 

A voler tracciare un breve profilo storico della vicenda, il tutto ebbe inizio il 17 luglio 1920 a Roma allorquando la “Garibaldi Società dei reduci delle sacre battaglie” e la “UNUS” (Unione nazionale Ufficiali e Soldati) approvarono la proposta del generale Giulio Douhet, che durante la guerra aveva avuto forti contrasti con il generale Cadorna per i suoi metodi repressivi e che nel 1919 aveva anche pubblicato dure accuse nei suoi confronti in occasione della commissione d’inchiesta su Caporetto, al fine di realizzare una tomba del soldato ignoto come simbolo della vittoria ottenuta malgrado l’incapacità di vertici politici e militari.

 

Il 20 giugno 1921, dunque, fu presentato dal ministro della guerra, Giulio  Rodinò, ed altri, tra cui lo stesso presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, il progetto di legge   della “Sepoltura della salma di un soldato ignoto” e il successivo giorno 28 l’onorevole Cesare Maria De Vecchi fu il relatore alla Camera per conto della commissione “Esercito e Marina Militare”, che aveva indicato come data della sepoltura il 4 novembre 1921, terzo anniversario della fine della guerra, e come luogo l’Altare della Patria, in quanto il Pantheon era destinato esclusivamente ai re d’Italia.

La relativa legge, approvata anche in Senato, fu firmata da Vittorio Emanuele l’11 agosto e successivamente, con regio decreto del 28 ottobre, il giorno 4 novembre 1921 fu dichiarato festivo in quanto “dedicato alla celebrazione delle onoranze del sodato ignoto”; in seguito la stessa festività del 4 novembre fu designata anche come “Giornata della Vittoria”.

 

Intanto già il 20 agosto il Ministero della Guerra, incaricato dell’esecuzione della legge da poco approvata, provvide ad istituire una commissione speciale, presieduta dal tenente generale Giuseppe Paolini, quale ispettore per le onoranze alle salme dei caduti in guerra, la quale aveva il compito di individuare le salme di undici caduti al fronte, privi di qualsiasi segno di riconoscimento. Ad ottobre la commissione individuò le salme degli undici soldati in diversi luoghi del fronte italiano in cui avevano combattuto anche fanti della Regia Marina (Rovereto, Monte Ortigara, Monte Grappa, ecc.).

 

Le undici bare, identiche per forma e dimensioni, vennero riunite nella basilica di Aquileia entro il 28 ottobre; quel giorno, alla presenza di istituzioni, mutilati di guerra, ex combattenti e madri di soldati caduti, fu individuata la salma del Milite Ignoto da parte di una madre di un caduto non riconosciuto senza che la cassa prescelta si sapesse da quale località del fronte provenisse. La madre designata alla scelta fu Maria Maddalena Blasizza di Gradisca d’Isonzo: il figlio, Antonio Bergamas, maestro elementare, nel 1914 aveva disertato dall’esercito austroungarico per arruolarsi in quello italiano, raggiungendo il fronte nel giugno 1915. Cadde il 18 giugno 1916 e fu decorato con medaglia d’argento. Fu sepolto in un cimitero, poi bombardato, cosicché fu impossibile il riconoscimento del defunto.

La bara prescelta, in legno di quercia e decorazioni in metallo, fu inviata al Ministero della Guerra in una cassa speciale. Sul coperchio erano fissati un elmetto, un fucile e la bandiera tricolore del Regno. Le altre dieci salme rimasero ad Aquileia per essere sepolte solennemente il 4 novembre nel cimitero annesso alla basilica.

Sempre il 28 ottobre alla stazione di Aquileia la bara fu posta su un carro ferroviario con affusto di cannone. Su un lato erano scritte le date MCMXV – MCMXVIII, sul lato opposto era riportata la citazione dantesca “L’OMBRA SVA TORNA CH’ERA DIPARTITA”. Il treno fermava cinque minuti in ogni stazione del percorso fino a Roma Termini e ad ogni fermata ali di folla s’inginocchiavano; venivano lanciati fiori mentre rappresentanze di forze armate e ex combattenti porgevano il saluto militare, mentre mancava la benedizione della salma da parte delle autorità religiose locali.

 

Giunta la bara a Roma la mattina del 2 novembre, fu accolta dal Re e dalla famiglia reale, assieme a rappresentanti istituzionali e massime autorità militari nonché decorati di medaglia d’oro e rappresentanze di mutilati, di madri e vedove di caduti.

La bara fu portata alla basilica di Santa Maria degli Angeli dove rimase fino al 4 novembre. Quel giorno, terzo anniversario della fine della guerra, alle 8.30, la bara fu caricata su un affusto di cannone e, scortata da un lungo corteo di civili e militari, giungeva all’Altare della Patria dove era ad attendere il corteo il Re e alte autorità. La bara fu portata a spalla alla tomba e sepolta accompagnata dal saluto militare, ma socialisti ed anarchici non parteciparono alle celebrazioni.

Nel 1922, un anno dopo la traslazione della salma, il Partito Fascista adottò il Milite Ignoto a proprio simbolo sia a termine della marcia su Roma il 28 ottobre sia durante le celebrazioni del 4 novembre con Mussolini appena nominato Capo del Governo.

 

La struttura in marmo, presenta sul fronte la dannunziana scrizione “IGNOTO MILITI” e nella parte inferiore le data MCMXV e MCMXVIII; attorno è presente una decorazione di foglie di alloro. Una corona di alloro in bronzo, con la scritta “AI PRODI CADUTI/NELLA GRANDE GUERRA LIBERATRICE/LE DONNE D’ITALIA/ MCMXXI”, la sormonta.  La tomba, di fronte alla quale sono posti due bracieri in cui arde una fiamma perenne, è sempre piantonata da due militari appartenenti alle diverse armi delle forze armate italiane che si alternato nel servizio.

 

6. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

 

Di certo, i traumi, le fratture che la nostra storia ha conosciuto dalla Grande Guerra ad oggi sono stati troppi per mantenere un ininterrotto percorso identitario.

Innanzitutto il trauma di un’altra guerra mondiale a distanza di venticinque anni dalla prima, a seguito della quale, dopo il 1943-45, i meccanismi di legittimazione, i vincoli simbolici e ideologici che duravano dal 1861 ebbero per lo più a dissolversi.

Allora qualcosa di simile alla morte si è verificato poiché una Patria senz’altro mori. Mori il patriottismo della Nazione, sostituito dal patriottismo di partito o dal patriottismo di classe come l’unico vincolo della comunità politica nazionale. Caduto nella polvere, assieme al fascismo, il concetto stesso di nazione, la legittimazione democratica, dunque, non poteva che provenire se non dai partiti, soprattutto quelli più fortemente ideologizzati.

Un altro grande momento di rottura che separa enormemente l’Italia attuale dalla Grande Guerra è stato l’avvento di ordinamenti politici di tipo democratico così come sanciti dalla Costituzione attuale, pur essa nata tra equivoci e contraddizioni profonde, una rivoluzione culturale che ha definitivamente rimosso, al di là di patetiche formali rappresentazioni di facciata, l’identità sociale e culturale della vecchia Italia che combatté la Grande Guerra.

E’ proprio la rottura del rapporto storico con lo Stato unitario in conseguenza della sconfitta del ’40-45 insieme all’avvento della democrazia repubblicana, dunque, che hanno reso l’odierna identità italiana qualcosa di difficilmente comparabile con quella dell’Italia della Grande Guerra, che in tal modo non costituisce più il suo piedistallo emotivo e mitologico. Insomma, in Italia abortì, a differenza di altre nazioni più coese anche ideologicamente, il passaggio cruciale tra liberalismo e democrazia che il conflitto mondiale aveva messo dappertutto all’ordine del giorno.

 

Con siffatti presupposti, sicuramente la Nazione è morta nel cuore degli italiani, è morte l’idea stessa di Nazione e con essa anche quella di Patria. Una nazione incompiuta, una nazione mancata, uno Stato-non nazione, un Paese che, per le sue inadeguatezze, non è riuscito a farsi nazione e che sconta ancora oggi le sue tradizionali lacerazioni: una divisività che viene da lontano, dagli antefatti stessi della Grande Guerra, una divisività che, oltre a riferirsi ad una dimensione ideologico-politica, tende a presentarsi quasi come sistemica, strutturale, a carattere antropologico e culturale e perfino morale.      

Un Paese, dunque, con un colossale difetto di coscienza politica, un Paese caratterizzato dalla “lontananza” del popolo dallo Stato, un Paese in cui è troppo labile, se non proprio inesistente, il legame di appartenenza del popolo verso una ancoramal conosciuta Patria”. Un popolo a cui ben si attaglia l’affermazione gobettiana “Il nostro vero dramma consiste nel fatto che non possiamo essere un piccolo popolo e non sappiamo essere un grande popolo”. Mi sia solo consentito di aggiungere che non lo siamo stati quando avremmo potuto esserlo, ora non possiamo più esserlo nel nostro ineluttabile declino di popolo e di nazione.

 

In tema di “unità-disunità” nazionale s’impone a questo punto qualche ulteriore riflessione che, senza “arrières pensée”, riposizioni più correttamente, in termini concettuali, il ruolo della Monarchia sabauda in un possibile processo coesivo nazionale. In altri termini, avrebbe potuto questa, ove fosse rimasta al timone istituzionale del Paese, evitare lo sfaldamento dello Stato in quanto titolare della custodia dell’unità e dell’unicità dell’autorità statale al di là e al di sopra dei mutamenti di governo e di indirizzo politico, così come del resto durante il regime aveva comunque rappresentato la continuità storica rimanendo la garante della nazione?  

In altri termini, avrebbe potuto la Corona costituire un argine al fenomeno di ideologizzazione e frammentazione partitica di una “stracciata” Repubblica tirata da ogni dove – una Repubblica che non affonda le sue radici né nel Risorgimento né nella Grande Guerra bensì di qualcos’altro di estremamente divisivo – e così continuare a fungere da fondamento di una conservata identità unitaria degli italiani? E’ certamente più che lecito dubitarne, ma non è legittimo non chiederselo almeno!

E profondamente vero comunque che quell’acquisto dell’unità intorno alla Patria italiana, che, superando la disperazione di Caporetto, si fonda sulla resistenza sul Grappa e sul Piave fino alla vittoria, è andato del tutto perduto, cosicché la “morte della Patria” in questa striminzita Repubblica – una Repubblica con la sua strana democrazia, sulla quale è scesa una evanescente ombra lunatica, in cui anche i caduti sono diventati solo stracci senza memoria ingoiati dall’oblio – è rimasta la grande questione irrisolta del nostro vivere collettivo, così come dimostra il dibattito apertosi sin dalla crisi della prima Repubblica e dei suoi “partiti- chiesa”.

 

Per uscire dall’ipocrisia di un ambiguo imperativo celebrativo finalizzato solo alla osservanza di un surrettizio piedistallo emotivo di massa e di una immaginaria articolata mitologia della nazione, questa Repubblica, fondata su ben altra mitologia, per dovere di coerenza, bene farebbe a espungere dal novero di anniversari e ricorrenze (del resto già depennata come giornata festiva) quella del 4 novembre!

 

Si chiude così un loop, tragico e grottesco allo stesso tempo, una riflessione a struttura circolare, così come nel film Pulp fiction di Quentin Tarantino, con l’inizio di questo tragico excursus che si ricongiunge alla sua fine! Una pericolosa deriva ed una tangibile prospettiva di una moderna e irreversibile disunità nazionale, a distanza di oltre un secolo e mezzo dal compimento della sua unità politica e dopo avere combattuto ben cinque guerre d’indipendenza: sono trascorsi cosi, in modo deteriore e come de nulla fosse avvenuto, altri ottant’anni dall’ultima di esse!  

 

 

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