Il disegno di legge Zan ed i suoi limiti.

Questo articolo è dedicato alla memoria del mio amico e maestro Valerio Zanone: ”He was a man, take him for in all, I shall not look upon his like again” (W. Shakespeare, Hamlet, Act 1, Scene 2)

 

Non vi è dubbio che Henry L. Mencken avesse ragione da vendere quando affermava che “il guaio di lottare per la libertà umana è che devi passare gran parte della tua vita a difendere figli di buonadonna: perché le leggi oppressive in origine sono sempre rivolte a loro, e l’oppressione deve essere fermata all’inizio se si vuole fermarla del tutto”.

 

Questa citazione pare essere particolarmente calzante quando ci si imbatte in questioni legate alla libertà di parola ed all’hate speech.

 

Il Parlamento italiano sta per rimettere in calendario, dopo la bocciatura dell’ottobre scorso, la discussione del cosiddetto disegno di legge Zan. Il Ddl Zan mira a rafforzare la protezione delle persone LGBTQ+ da molestie, abusi, violenze e/o discriminazioni.

 

Da un punto di vista tecnico, la proposta di legge Zan ha cercato di ampliare i confini di quanto previsto dalla Legge Mancino.

 

La Legge Mancino, come noto, prevede e condanna come reato qualsiasi frase, gesto, azione e slogan volti a incitare all’odio, alla violenza, alla discriminazione ed alla violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. La legge punisce anche l’uso di emblemi o simboli che siano riconducibili a tale movente discriminatorio.

 

In questo contesto, i sostenitori della proposta di legge Zan cercano di ampliare la portata della Legge Mancino in modo da estenderne la tutela anche a quegli atti di discriminazione che siano motivati dall’orientamento sessuale.

 

Da una prospettiva coerentemente liberale, questo tentativo dovrebbe essere attentamente esaminato. Infatti, sebbene i principi liberali siano ampiamente accettati in astratto, almeno nelle democrazie occidentali, divengono assai controversi nei dettagli e nelle loro concrete applicazioni.

 

In effetti, la vera posta in gioco è il principio di libertà di parola e di espressione. La libertà di parola, così come è stata intesa nelle democrazie occidentali, va oltre il tradizionale discorso politico[1].

 

Per chiarezza, e per evitare il rischio di essere fraintesi, la colpa non è del disegno di legge Zan, ma è da attribuire in primo luogo alla legge Mancino. In effetti, il disegno di legge Zan sembra essere coerente con lo scopo perseguito dalla precedente legge. Ma questa apparente coerenza non è affatto sinonimo di efficacia.

 

Qualsiasi argomentazione forte a favore della libertà di parola e di espressione deve, infatti, riconoscere che la parola può essere pericolosa, che può causare atti dannosi, che il mercato delle idee non è garanzia di sicurezza. Non ci sono garanzie, se non che i costi dell’imposizione di un regime di censura superano i costi della tolleranza di discorsi pericolosi e persino delle loro conseguenze.

 

Ma qualsiasi opposizione razionale contro qualsiasi norma che vieti i discorsi di odio (il c.d. hate speech) è parte integrante del concetto stesso di democrazia liberale.

Secondo Ronald Dworkin, la libertà di espressione è assolutamente cruciale per garantire l’azione morale[2], e l’azione morale è la pietra angolare della cultura democratica[3].

Secondo Dworkin, la libertà di espressione è ritenuta preziosa non solo in virtù delle conseguenze che ha, ma perché è una caratteristica essenziale (cioè costitutiva) di una società politica liberale, in cui il governo tratta tutti i suoi membri adulti, tranne quelli incompetenti, come agenti morali responsabili[4]. Dworkin sostiene quindi che l’esistenza di una sfera decisionale indipendente per ogni individuo in merito a questioni morali è una precondizione della stessa democrazia e che la libertà di espressione sia strettamente legata alla piena manifestazione di tale sfera.

Dopo tutto, se condividiamo il credo che in una democrazia ogni opinione conta – e non solo al seggio elettorale – dobbiamo concludere che anche le opinioni peggiori, anche quelle offensive, retrive, odiose e profondamente radicate nel bigottismo, dovrebbero avere spazio nel dibattito pubblico.

Come ha sottolineato Dworkin, se le minoranze deboli o impopolari vogliono essere protette da discriminazioni economiche o legali, allora devono essere disposte a tollerare qualsiasi insulto o scherno che le persone che si oppongono a tale legislazione vogliano offrire ai loro compagni di voto, perché solo una comunità che permette tali insulti può legittimamente adottare tali leggi. Se ci aspettiamo che i bigotti accettino il verdetto della maggioranza una volta che questa si è espressa, allora dobbiamo permettere loro di esprimere il loro bigottismo nel processo di cui chiediamo il rispetto.

 

Questo argomento dovrebbe essere sostenuto dai liberali.

Argomento che sembra essere rifiutato dai progressisti.

Ma in fondo, tra liberali e progressisti c’è una linea di faglia non componibile.

Infatti, i progressisti di sinistra cercano di affermare una visione ristretta e comunitaria dell’ottenimento della giustizia per i gruppi identitari oppressi, e nel farlo mirano a perseguire l’obiettivo di una società nuova, che poi altro non è che il mito dell’homo novus rousseauiano.

Dall’altra parte, i liberali classici credono nel fissare condizioni iniziali eque e lasciare che gli eventi si svolgano e si dipanino attraverso la competizione: in un tale processo non c’è spazio per risultati predeterminati. E soprattutto, al pensiero liberale è coessenziale la consapevolezza che la natura umana è intimamente complessa ed imperfetta e che non è compito del legislatore – perché sarebbe presunzione velleitaria ed impossibile – mutare tale natura: dopo tutto, Kant aveva spiegato che dal legno storto dell’umanità non si può cavar fuori nulla di dritto.

Inoltre, progressisti e liberali divergono chiaramente sul ruolo svolto dall’individuo.

Mentre per i liberali l’individuo rimane l’attore principale dell’azione umana, per i progressisti il gruppo all’interno del quale ogni individuo è classificato e raggruppato assume un ruolo preminente anche nella ricerca dell’equità.

Questa differenza tra i due diversi presupposti dell’azione sociale e politica è gravida di conseguenze. Troppo spesso gli stessi liberali sembrano ignorare, o almeno dimenticare, che alcuni aspetti del liberalismo vanno inevitabilmente contro il comune sentire[5]. Il liberalismo richiede di difendere il diritto di parola degli avversari anche quando si sa che hanno torto. E permettetemi di aggiungere: anche quando noi stessi, in quanto liberali, non condividiamo o disprezziamo le opinioni illiberali, omofobe, razziste, bigotte e pericolose dei nostri avversari.

Personalmente disapprovo senza riserve le sciocchezze omofobe, negazioniste, razziste e bigotte, per non parlare di tutte le visioni totalitarie e illiberali (comunismo, in tutte le sue varianti, fascismo e nazismo con tutti i loro nostalgici, l’autarchia, il sovranismo ed il populismo). Ma ritengo essenziale che queste posizioni inaccettabili siano discusse pubblicamente, annientate e ridicolizzate per quello che sono in realtà: delle sciocchezze sesquipedali.

 

Se queste sono, come credo, le premesse di una posizione liberale chiara e coerente, i miei lettori capiranno perché mi oppongo non tanto alla proposta di legge Zan, quanto all’impostazione stessa della Legge Mancino, alla quale la proposta ora riproposta all’attenzione del Parlamento è strettamente legata ed intrecciata.

 

Non è mai facile tracciare una linea di demarcazione netta tra un comportamento lecito e un comportamento sanzionato penalmente.

Ad esempio, negli Stati Uniti si è svolto lo stesso dibattito sul razzismo. All’interno di quel sistema giuridico, alcuni autori[6] hanno sottolineato che l’imposizione di sanzioni punitive contro c.d. discorsi razzisti non mirati (c.d. non-targeted) danneggerebbe le persone di colore. Secondo questa opinione, alcuni discorsi razzisti verrebbero senza dubbio scoraggiati ma altri no, e questi ultimi trasformati in discorsi “in codice” ancora più efficaci ma non perseguibili.

In ogni caso, dobbiamo ricordare quanto sia sensata la distinzione operata dal caso Brandenburg[7] tra la propaganda e l’incitamento alla violenza. La prima condotta non dovrebbe mai essere considerata illecita, mentre la seconda è già punita dal codice penale italiano, eventualmente e opportunamente aggravata per i motivi abietti o futili che l’hanno determinata.

Da un punto di vista tecnico, quando si parla di reati consistenti in “atti di discriminazione”, la vera difficoltà sta nell’individuare chiaramente in cosa essi consistano, per evitare un’eccessiva discrezionalità da parte del giudice.

Infatti, la maggior parte degli atti che verrebbero trattati come reati sono già illeciti secondo il diritto penale italiano vigente. Un giudice incaricato di valutare se un insulto o una violenza siano o meno motivati da discriminazione razziale o sessuale si troverebbe di fronte a un compito difficile, con il rischio di trovarsi su un terreno scivoloso. A conferma di ciò, se si passano in rassegna le sentenze in cui è stata utilizzata la vecchia Legge Mancino, i casi sono pochi: o il nostro Paese non è razzista e quindi la legge è superflua, oppure è un Paese mediamente razzista e quindi la legge è inutile.

 

Un’ultima osservazione. Il legislatore italiano deve soffrire di schizofrenia. Infatti, a causa dell’inflazione di espressioni verbali offensive, ha deciso di eliminare l’illegittimità dell’ingiuria, superando il concetto ottocentesco del senso del decoro e dell’onore della vittima. Forse, in fondo, sarebbe bastato mantenere in vita questa norma e utilizzare, quando necessario, le altre norme esistenti del codice penale.

 

In tutte le questioni che riguardano la libertà dell’individuo e, soprattutto, la libertà di espressione, non dobbiamo, come liberali, dimenticare le parole di Samuel Beckett di T.S. Eliot, per il quale “l’ultima tentazione è il più grande tradimento: fare l’azione giusta per il motivo sbagliato”.

[1] La libertà di espressione in ambito politico deriva dal principio secondo cui la libertà di espressione costituisce parte integrante di ogni decente concezione di autogoverno. Secondo R. Dworkin, ad esempio, tale giustificazione viene rinvenuta in almeno due distinte ma del pari significative ragioni: da un lato l’autogoverno richiede il libero accesso alle informazioni e, dall’altro lato, il governo non è autorizzato, e quindi non ha alcun fondamento morale la sua coazione, a meno che coloro i quali siano sottoposti a tale coazione non abbiano avuto la possibilità di influenzare le decisioni collettive.

[2] Traduciamo in questo modo il concetto di “moral agency” presente nella riflessione di lingua inglese e, in particolare, nell’articolazione del pensiero di Ronald Dworkin.

[3] Su questo specifico punto, l’approccio di Dworkin è significativamente diverso da quello proprio del liberalismo classico di John Stuart Mill, come espresso nella difesa di quest’ultimo della libertà di espressione (in On Liberty, 1959): secondo Dworkin, infatti, la giustificazione della libertà di espressione rappresenta un elemento costitutivo del principio di equità democratica. Invece, nella riflessione di Stuart Mill la libertà di espressione veniva ricondotta al suo valore strumentale: così, A. Levin, Pornography, Hate Speech and Their Challenges to Dworkin’s Egalitarian Liberalism, 23 Public Affairs Quarterly, 2009, 358.

[4] R. Dworkin, Freedom’s Law, Oxoford, 1996, 200. Sotto tale profile, la rifellsione di Dworkin non risulta molto dissimile da quella esposta da K. Minogue in The Servile Mind, New York, 2010.

[5] The Threat from Illiberal Left, The Economist, September 4th, 2021.

[6] S.H. Shiffrin, Racist Speech Outsider Jurisprudence and the Meaning of America, 80 Cornell L. Rev., 43 ss. (1994), secondo il quale un approccio diverso può esser tentato con riferimento ai c.d. discorsi razzisti indirizzati, dove si individua una vittima specifica.

[7] Brandenburg v. Ohio, 395 U.S. 444 (1969).

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