Vasilij Grossman e la distopia totalitaria

Vasilij Grossman pubblicò Stalingrado nel 1952, ma il titolo da lui scelto fu sostituito con  La giusta causa. Si trattava di un’espressione del commissario agli Esteri Molotov, che lasciava trasparire la volontà di “giustificare”, con la Grande guerra patriottica, le ambiguità del Patto Ribbentrop-Molotov e le iniquità degli anni dello stalinismo.  Stalingrado costituisce il primo volume di una dilogia che ha il suo seguito in Vita e destino, pubblicato a Losanna nel 1980. L’opera di Grossman, a causa dei diversi interventi della censura sovietica, ebbe più stesure. L’autore dovette infatti operare dei tagli e delle integrazioni, al fine di far risaltare aspetti che, secondo i canoni rigidi del Realismo socialista, erano stati messi in ombra dall’attenzione riservata a vicende individuali o alla comunità ebraica ucraina.  Tutto ciò ha reso particolarmente arduo il lavoro di ricostruzione filologica del testo, curato da Robert Chandler e Jurij Bit-Junan e tradotto quest’anno in italiano per Adelphi da Claudia Zonghetti.

Nelle prime pagine del romanzo Grossman descrive l’incontro dell’aprile del 1942 fra Mussolini e Hitler a Salisburgo, in cui i due dittatori discutono dell’imminente piano nazista di attacco all’URSS. Dai grandi saloni freddi del castello salisburghese di Klessheim, arredato con mobili sottratti alla Francia, la scena si sposta poi nella campagna russa, dove il contadino Vavilov riceve la chiamata alle armi nel momento meno opportuno. Se infatti al distretto militare avessero aspettato un paio di mesi, “sarebbe certamente riuscito a lasciare la famiglia con cibo e legna per un anno”.  Prima di partire Vavilov, insieme alla moglie, guarda intensamente le pareti della sua isba. Lei sapeva, scrive Grossman, che sarebbero state “testimoni di tutta la sua solitudine”. Lui invece avrebbe voluto portare con sé “quella che considerava la più bella casa del mondo”. Si coglie in queste pagine iniziali come Grossman, pensando a Tolstoj, voglia guardare ai grandi eventi che hanno segnato la storia anche con lo sguardo degli uomini comuni, vittime o esecutori ignari di decisioni che li sovrastano.

Per un personaggio del romanzo, il vecchio bolscevico Mostovskoj, che rifletteva una opinione largamente condivisa, la nuova Russia sovietica era balzata in avanti di un secolo, trasformando ciò che sempre era sembrato immutabile, come l’agricoltura o il corso dei fiumi. Era stato raggiunto un livello di alfabetizzazione “paragonabile solo a un’esplosione solare di potenza astronomica” che se fosse stata tradotta in onde elettromagnetiche, “gli astronomi della altre galassie avrebbero registrato la nascita di una nuova stella”. I protagonisti di questa rivoluzionaria trasformazione erano ingegneri e operai, piloti e marconisti e “i milioni di lavoratori che costituivano le fondamenta della nuova società”. La loro forza derivava “dalla fiducia, dalla conoscenza e dall’amore per la Patria sovietica”. Si può intuire che pagine come questa potrebbero essersi rese necessarie per bilanciare parti del romanzo in cui i censori di regime ritenevano non emergessero adeguatamente le virtù socialiste.  In un passo degli ultimi capitoli Grossman descrive il tragitto che il camionista Krymov percorre dal fiume Achtuba al Volga. Krymov prova una grande emozione nel leggere dei cartelli con scritte come “Non un passo indietro”, “Difendiamo Stalingrado” e si chiede se quanti percorreranno quella strada, negli anni a venire, penseranno a come poteva apparire nell’ottobre del 1942. Immagina allora di dar voce ai pensieri di un vecchio che fra un migliaio d’anni attraverserà quei luoghi, pensando agli uomini “della remota epoca della Grande Rivoluzione, dei giganteschi cantieri”, che marciarono verso il Volga, facce semplici e buone, “che indossavano divise d’altri tempi, scarpe d’altri tempi, e avevano delle stelle rosse sui berretti”. In questa evocazione epica Grossman riprende i versi del libro VIII dell’Odissea (751-752), in cui Omero racconta che piacque agli Dei, da cui dipese la guerra di Troia, “che degli eroi le morti \ Fossero il canto dell’età future”.

Il tono epico di queste scene coesiste, in Stalingrado, con l’attenzione alle vicende tragiche che sconvolgono le vite di ogni famiglia e di ogni uomo. Nel descrivere la tremenda distruzione della città, Grossman definisce ancora più tremenda la morte di “un esserino di sei anni schiacciato da una trave di ferro. Perché se esiste una forza capace di risollevare dalla polvere città enormi, non c’è forza al mondo in grado di risollevare le palpebre dagli occhi di un bambino morto”. Le ragioni della Grande storia non possono ignorare infatti le ferite che producono sulle persone più indifese.

Grossman partecipò alla guerra in prima linea, dal 1941 al 1945, descrivendone nei suoi taccuini gli aspetti più eroici e più inquietanti. Nel 1944 raccontò in particolare il massacro di migliaia di ebrei ucraini a Berdicev, la sua città natale, ad opera dei nazisti. Insieme a Il’ia Erenburg curò poi Il libro nero, in cui furono documentate le stragi compiute dai nazisti sugli ebrei russi, ma tutto il materiale raccolto fu sequestrato dall’ NKVD dopo la guerra, quando la politica antisemita di Stalin non consentiva più di volgere particolari attenzioni alle vicende ucraine e alle comunità ebraiche in particolare. Se i nazisti avevano commesso terribili atrocità, Stalin si era reso responsabile della terribile carestia ucraina del 1932-1933 e di feroci persecuzioni nei confronti della popolazione ebraica. In Vita e destino Mostovskoj, che abbiamo incontrato in Stalingrado, si trova a confrontarsi, nel lager in cui è rinchiuso, con Liss, un ufficiale delle SS. Liss afferma con convinzione che i comunisti rinchiusi da Hitler nei campi di concentramento erano già stati segregati in URSS da Stalin. Non bisogna dimenticare peraltro che in seguito al patto Ribbentrop-Molotov i sovietici consegnarono ai nazisti i comunisti tedeschi che si erano rifugiati in URSS. La persecuzione degli ebrei, proseguiva l’ufficiale tedesco, non era inoltre estranea alle scelte politiche degli stessi sovietici: “Oggi la spaventa il nostro odio per i giudei. Può darsi che domani vi avvarrete voi della nostra esperienza”. Per riuscire a respingere le affermazioni di Liss, scrive Grossman, Mostovskoj avrebbe dovuto rinunciare a ciò per cui aveva vissuto. Non solo condannare, ma odiare con tutta la forza dell’anima e con tutta la passione rivoluzionaria “il lager, la Lubjanka, il sanguinario Ezov, Jagoda, Berja! Non basta, bisognava odiare Stalin e la sua dittatura! Il cammino conduceva all’abisso”. Liss si chiede in cosa possa consistere l’inimicizia fra i due totalitarismi. Hitler non era affatto, a suo avviso, al servizio dei capitalisti, dal momento che è lo stato a indicare loro gli obbiettivi da perseguire nello spirito di quella pianificazione che l’URSS segue rigidamente: “Noi siamo forme differenti di un unico essere […]. Il vostro stato partitico, esattamente allo stesso modo del nostro, stabilisce il piano, il programma, e si accaparra la produzione. Quelli che voi chiamate padroni, gli operai, anch’essi ricevono lo stipendio dal vostro stato partitico”. Voi come noi, prosegue Liss, “siete consapevoli che il nazionalismo è la principale forza del XX secolo. Il nazionalismo è lo spirito dell’epoca! Il socialismo in un solo paese è la più alta espressione del nazionalismo […]. Sulla terra ci sono due grandi rivoluzionari: Stalin e il nostro grande capo. La loro volontà ha dato vita al socialismo nazionale dello stato. Per me la fratellanza con voi è più importante della guerra contro di voi per i territori orientali”.

Per realizzare il socialismo in un solo paese Stalin ha dovuto privare i contadini della proprietà privata e ne ha sterminati in gran numero e Hitler, resosi conto che gli ebrei ostacolavano il nazionalsocialismo, ha deciso di distruggerli, conclude Liss e, fissando Mostovskoj, che è rimasto ammutolito, aggiunge di sentirsi uno specchio di fronte a lui.

 

Qualche anno più tardi, in Tutto scorre, Grossman scriverà che Lenin, il fondatore dell’Internazionale comunista, aveva in realtà preparato il terreno per uno sviluppo inaudito dell’autocrazia e della sovranità nazionale.  Il principio della “non-libertà”, coltivato con zelo da Ivan il Terribile, come da Pietro il Grande e da Caterina, e accolto da Lenin, giunse poi al suo massimo trionfo con Stalin, nell’identificazione di stato, partito, polizia segreta. In tutto ciò Grossman vede il baratro profondo che separava lo sviluppo dell’Occidente, “fecondato dalla crescita della libertà”, dallo sviluppo della Russia, “fecondato dalla crescita della schiavitù”. Il comunismo sovietico aveva assunto in sé i tratti del dispotismo asiatico, che lo contrapponevano alle liberaldemocrazie e alle socialdemocrazie occidentali, ferocemente avversate. La Russia postsovietica ha ereditato questo modello autocratico, che si esprime nelle forme di una democrazia illiberale e nel rifiuto dei principi fondamentali dello stato di diritto.

Tutto scorre rappresenta una continuazione della dilogia. Si salvò dal sequestro di tutti gli scritti di Grossman e fu pubblicato postumo a Francoforte nel 1970. Qui il disincanto nei confronti del sistema sovietico diviene aperta denuncia. Il romanzo narra la vicenda di Ivan, che, avendo trascorso trent’anni nei Gulag, torna libero dopo la morte di Stalin.  Ivan vive in una condizione di spaesamento, a Mosca come a Leningrado, e sceglie di stabilirsi in campagna dove si dedicherà al lavoro di fabbro. Anna, una vedova di guerra di cui si innamora, gli racconterà le atrocità commesse contro i kulaki e la tragedia della carestia degli anni trenta voluta da Stalin.

Nel carattere di Stalin, in cui l’asiatico si fondeva con il marxista europeo, si poteva cogliere, scrive Grossman, il senso del sistema statale sovietico. I piani quinquennali, “piramidi del ventesimo secolo”, come i monumenti dell’Asia antica, seducevano il suo animo e incarnavano uno spirito tirannico che negava qualunque forma di libertà. Ivan dice che una volta aveva pensato che la libertà fosse quella di pensiero, di stampa, di opinione, ma si era convinto, nel tempo, che essa coincide con la vita della gente, “è il diritto di seminare quel che vuoi, di fare scarpe, soprabiti, di cuocere il grano che hai seminato per venderlo o non venderlo come vuoi tu; e anche se fai il meccanico, o il fonditore, o l’artista, vivi e lavora come vuoi tu, e non come ti ordinano. Invece non c’è libertà, né per chi scrive libri, né per chi coltiva grano o fa gli stivali”.

Grossman si chiede spesso se si possa accettare la concezione hegeliana secondo cui tutto ciò che è reale è razionale, perché, se fosse così, rischieremmo di giustificare la disumanità.  Si sarebbe forse sentito più vicino ad Alexandr Herzen, per il quale era impossibile dimostrare un ordine razionale della storia, che gli appariva come “l’autobiografia di un pazzo”. Parole, queste, commentava Isaih Berlin, che anche Voltaire o Tolstoj avrebbero potuto pronunciare con uguale amarezza.

Grossman, scrive Tzvetan Todorov, è sicuramente l’erede dei grandi russi del XIX secolo, del Dostoevskij de I Demoni e de I fratelli Karamazov e del Tolstoj di Guerra e pace, ma l’autore con cui avvertiva il legame più forte era Cechov, perché riconosceva in lui un umanesimo fondato sulla libertà e sulla bontà. Grossman, come Cechov, privilegiava la bontà sul bene, perché riteneva che le dottrine del bene portassero con sé il difetto insormontabile di porre al vertice “un’astrazione, non gli individui umani”. Consapevole di questo, il folle in Dio Ikonnikov può dire, in Vita e destino, che “anche Erode non versava sangue in nome del male”. La “tentazione del bene”, che caratterizza i totalitarismi descritti in tutta l’opera di Grossman, dimentica infatti gli individui per i quali questo bene era stato pensato e, come scrive Todorov, si traduce tragicamente in una “pratica del male”.

 

   

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