Kant, il lancio del nano e il Consiglio di Stato

Nelle Dichiarazioni universali, che nacquero nel clima della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese, i singoli individui erano tutelati solo nel quadro dei rapporti fra Stati. Nel XIX secolo il diritto internazionale dimostra maggiore sensibilità verso i singoli, come testimoniano le Convenzioni che vietano la tratta degli schiavi e, fra il 1889 e il 1907, le Convenzioni dell’Aja, che pongono le basi per una regolamentazione giuridica dei conflitti.

Il divieto della tratta degli schiavi, come, scrive Antonio Cassese (che ci farà da guida in questa breve riflessione sui diritti umani), potrebbe anche trovare delle motivazioni nel fatto che le potenze europee volevano fermare il flusso di manodopera a basso costo verso altri mercati e, per quanto riguarda le convenzioni dell’Aja, l’attenzione verso gli Stati coinvolti nel conflitto, potrebbe essere stata prevalente rispetto alla volontà di tutelare i singoli. Nel 1919, con l’istituzione della Società delle Nazioni, l’individuo è ancora considerato, scrive Cassese, “in quanto è parte di un gruppo e, soprattutto, perché vi è uno Stato vicino, affine a questa o a quella minoranza dal punto di vista religioso, etnico o linguistico”.

Dopo la Seconda guerra mondiale e la fine del totalitarismo nazi-fascista, si assiste a un mutamento di prospettiva. Gli individui, in quanto tali, divengono meritevoli di rispetto e di protezione e una rinata esigenza universalistica risulta largamente condivisa, anche nell’ambito dello storicismo crociano, come dimostra La restaurazione del diritto di natura di Carlo Antoni.

Nel suo messaggio al Congresso, del 6 gennaio 1941, Roosevelt enunciò le sue quattro libertà fondamentali per l’uomo (la libertà di parola, la libertà religiosa, la libertà dal bisogno, la libertà dalla paura). Il programma rooseveltiano, accolto successivamente nella Carta Atlantica del 14 agosto 1941, pose le premesse per la successiva Dichiarazione Universale, elaborata in un clima segnato dalle sentenze dei tribunali internazionali di Norimberga e di Tokyo.

E’ noto che tali sentenze suscitarono perplessità in quanti, come Hans Kelsen, ritenevano che i processi avrebbero dovuto garantire la terzietà dei giudici, che erano stati invece scelti dalle potenze vincitrici. Diveniva dunque arduo sostenere, con argomentazioni puramente giuridiche, la legittimità di tali tribunali. Tutto ciò emerge in modo chiaro dalla commossa testimonianza di Piero Calamandrei, il quale, a proposito del processo di Norimberga, su Il Ponte, nel novembre del 1946, scriveva che “qualche anima bennata si sente offesa e impietosita dinanzi a queste forche e a questi giustiziati”.

La nostra pietà, diceva Calamandrei, prima di riuscire commuoversi dinanzi a queste condanne, deve rivolgersi alle vittime. Se quello che lo Stato permette non può esser considerato un delitto, commentava, i criminali processati potrebbero trasformarsi in eroi. Il problema non poteva dunque esser risolto sul piano della legislazione nazionale. Ecco perché si rendeva necessario, a suo avviso, invocare le leggi di Antigone, “non scritte nei codici dei re”. Le leggi dell’umanità che, fino a quel momento, erano state “una frase di stile relegata nei preamboli delle convenzioni internazionali”, venivano così considerate “nella funebre aula di Norimberga, come vere leggi” e l’ umanità, non rappresentava più una vaga espressione retorica, ma si poneva a fondamento di un nuovo ordinamento giuridico.

La tensione morale, che emerge in queste accorate parole di Calamandrei, animerà quanti lavoreranno alla Dichiarazione. Il richiamo ai “diritti eguali e imprescrittibili” non poteva più collocarsi in una astratta dimensione metastorica, ma avrebbe trovato espressione nei preamboli delle Costituzioni, tracciando un themenos i cui confini nessuna ragion di Stato avrebbe mai dovuto violare. Tali diritti si coniugavano con le esigenze dei gruppi sociali nei quali l’individuo  concretamente vive, includendo, accanto alle tradizionali libertà individuali borghesi, i diritti  sociali e culturali, ma anche economici. Libertà liberale  e libertà socialista sembrava dunque che si incontrassero sul terreno comune dei diritti universali. Ma l’incontro avvenne anche sul terreno della tutela della sovranità nazionale, nel momento in cui si decise di non rendere giuridicamente vincolante la Dichiarazione, che si collocava su un piano etico-politico.

Due anni dopo, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 1950, previde degli obblighi giuridici per gli Stati contraenti. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, diversamente dal Comitato dell’ONU contro la tortura e dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, le cui decisioni non sono vincolanti, può sanzionare gli Stati che compiono violazioni nell’ambito dei diritti umani. La Corte tutela il principio della dignità individuale, in quanto un singolo individuo, non necessariamente cittadino di uno degli Stati che hanno ratificato la Convenzione europea, può chiedere di procedere contro uno Stato. Le norme della Convenzione, applicate dalla Corte, rappresentano dunque un esemplare punto di riferimento nell’ambito della tutela dei diritti umani.

Nella Metafisica dei costumi, Kant, le cui tesi stanno alla base della moderna concezione dei diritti umani, scrive che l’uomo, considerato come homo phaenomenon, in rapporto al sistema della natura, “è un essere di mediocre importanza e ha, come tutti gli animali che il suolo produce, un valore comune volgare (pretium vulgare)”.

Dopo queste parole decisamente dure, rivolte al mondo animale e alla condizione naturale dell’homo phaenomenon, Kant, passando dal piano fenomenico al piano noumenico, cambia registro: “l’uomo -scrive- considerato come persona, vale a dire come soggetto di una ragione moralmente pratica, è elevato al di sopra di ogni prezzo”, perché, come homo noumenon, non è un mezzo per raggiungere i fini degli altri e neppure i suoi propri, ma “un fine in sé”. Possiede infatti una dignità e un valore interiore assoluto che “costringe al rispetto di sé tutte le altre creature ragionevoli del mondo, ed è questa dignità che gli permette di misurarsi con ognuna di loro e di stimarsi loro uguale. L’umanità nella sua persona è l’oggetto del rispetto, che egli può esigere da un altro uomo”.

Diviene dunque un dovere ribellarsi contro ogni tentativo di ridurre l’uomo a mezzo. Prendendo le mosse da queste considerazioni de La metafisica dei costumi, Cassese commenta una sentenza del Consiglio di Stato francese sul tema della tutela della dignità della persona. Nel 1991 il gestore di una discoteca di un paese vicino Parigi, Morsang-sur-Onge, decise di proporre ai clienti, nello spettacolo serale, di cimentarsi in una gara consistente nel “lancio del nano”. Alla decisione del sindaco, che vietò lo spettacolo, il gestore si oppose, rivolgendosi al tribunale amministrativo di Versailles, che accolse le sue ragioni. Il sindaco fece allora appello al Consiglio di Stato che, nel 1995, annullò la sentenza del Tribunale amministrativo di Versailles.

Il Consiglio di Stato non si limitò a fare riferimento alle leggi francesi, ma citò l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che vieta ogni trattamento disumano. L’utilizzazione, “come proiettile”, di una persona affetta da un handicap fisico, veniva così condannata come un comportamento che “lede la dignità della persona umana”. Il Consiglio di Stato dovette anche prendere atto delle dichiarazioni del nano, che, richiamandosi    alla libertà di impresa, sosteneva di aver agito liberamente. Il Consiglio decise così che “il rispetto della dignità della persona umana dovesse prevalere sia sulla volontà del nano sia sui diritti di libertà da lui accampati”.

Kant, commenta Cassese, “avrebbe detto che il nano non doveva accettare di ridurre se stesso a mezzo di divertimento di altre persone, perché doveva considerarsi un fine in sé. Il Consiglio di Stato affermò lo stesso concetto, stabilendo che un essere umano non può volontariamente rinunciare alla propria dignità. A maggior ragione quella dignità deve essere rispettata dagli altri”.

Se è facile constatare il fatto che spesso, nell’esperienza quotidiana, il nostro prossimo è considerato raramente come un fine in sé, “ci può essere una intensità diversa nel nostro usare gli altri come strumento per i nostri fini”, commenta Cassese e le diverse forme di vessazione “forse traggono origine e trovano le loro lontane radici nel nostro quotidiano, minuto e quasi inconsapevole trascurare i dettami kantiani”.

 

Testi citati

A.Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005.

C.Antoni, La restaurazione del diritto di natura, Neri Pozza, Venezia, 1959

Calamandrei, Costituzione e leggi di Antigone, in Scritti e discorsi politici, La Nuova Italia, Firenze, 1966.

I. Kant, Metafisica dei costumi, trad. it., Laterza, Roma-Bari, 1991

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