La direttiva della politica economica cinese e l’impatto dell’A.I.

La direttiva della politica economica cinese e l'impatto dell'A.I.

Il segretario generale del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC), Xi Jinping, nel presiedere l’undicesima sessione di studio del gruppo dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale del PCC, appositamente costituita per la promozione dello sviluppo di alta qualità, ha impresso la linea direttiva della politica economica cinese per gli anni a venire.

L’espressione “sviluppo di alta qualità” è sorta in occasione della discussione sulla Agenda 2030 e, come è noto, prende in considerazione le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile – quella economica, sociale ed ecologica – con l’obiettivo di porre fine alla povertà, di lottare contro l’ineguaglianza e d’affrontare i cambiamenti climatici. Nella logica di Xi, essa è interpretata nella costruzione accelerata di un moderno sistema economico, che promuova l’autonomia tecnico-scientifica, attraverso l’innalzamento del livello generale dell’istruzione, della scienza e della tecnologia. Centrale è la “cura dei talenti”, che sono di fatto il motore di questa “rivoluzione”. Solo questo salto culturale, nella logica del Leader massimo, potrà permettere l’aumento della produttività necessario per affrontare e vincere la sfida globale.

La dichiarazione d’intenti appare invero una riedizione della rivoluzione culturale già lanciata nella Repubblica Popolare Cinese nel 1966 da Mao Zedong quando la sua direzione fu posta in discussione a causa del fallimento della politica economica da lui ideata e pianificata nel cosiddetto grande balzo in avanti. Tuttavia, certamente, al momento nessuno sembra mettere seriamente in discussione Xi, ma il rallentamento dell’economia cinese ed il vacillare di colossi privati (nonché l’insofferenza di molti di loro sulle ingerenze del PCC) può costituire un serio ostacolo al potere assoluto del Leader che, invece, può trovare una nuova linfa attraverso una riaffermazione anche ideologica del predominio del pubblico sul privato.

Ma oltre a tale considerazione, le analisi di Xi potrebbero, invero, essere la reinterpretazione, in un contesto nuovo caratterizzato dagli scenari aperti dalla rivoluzione tecnologica innestata dalla intelligenza artificiale, della tradizionale correlazione tra aumento della produttività e diffusione tecnologica. In effetti, la misura tradizionale della produttività ed in particolare di quella del lavoro, che misura l’efficienza con cui si impiegano le risorse umane nel processo di produzione, lascerebbe il posto ad una analisi che punta lo sguardo sui fattori produttivi, inserendo anche quelli riproduttivi, a partire dal tempo di vita e di miglioramento generale della qualità della vita. Emergerebbe, secondo tale lettura, uno sguardo interdisciplinare, capace di cogliere tutte le sfaccettature di un fenomeno complesso e di una ri-politicizzazione del “potere sovrano”, inteso come nuovo protagonismo delle istituzioni politiche nel dirigere, anziché assecondare, i mutamenti tecnologici.

Come noto, infatti, il dibattito in corso sul tema della IA si dirama in due branche quello concernete il rapporto tecnologia – jobs,  che si sofferma sull’impatto dell’IA sui salari, sulla domanda di lavoro e sulla creazione di nuovi mestieri  e che vede una scuola di pessimisti confrontarsi con un nutrito gruppo di  studiosi convinto dei benefici in termini di produttività della IA, e quello che si concentra sull’aspetto tecnologia – work, ovvero, che analizza le implicazioni dell’IA per autonomia e qualità del lavoro.

Ebbene sembrerebbe che Xi voglia decisamente indirizzare il gruppo di studio dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale del PCC verso l’analisi e l’individuazione delle soluzioni di intervento pubblico, atteso che, da quanto è dato capire, il governo cinese ritiene più tangibili gli effetti dell’IA sulla compressione di domanda e retribuzione del lavoro. In quanto tecnologia di automazione, infatti, l’AI sarebbe intrinsecamente capace di espandere l’insieme delle funzioni interne al processo di produzione eseguite dal capitale anziché dal lavoro ed in tal modo attuerebbe un progressivo ma costante effetto sostituzione non più sul lavoro manuale ma anche su quote importanti di quello cognitivo legato a mansioni ripetitive.

Ora il citato effetto sostituzione attiverebbe una spirale di riduzione dell’offerta di lavoro e di abbassamento dei salari, a cui seguirebbe anche una crisi nell’accesso ai consumi. L’aumento di produttività coinciderebbe, pertanto, con un disaccoppiamento tra l’accumulazione di capitale e l’aumento della redditività del lavoro.

A bene vedere, il passaggio ad una economia capital intensive a scapito di quella ad alto assorbimento di lavoro, sembrerebbe trovare conferma isolando l’esperienza del settore manifatturiero degli ultimi anni. In effetti, circa 50 anni fa, la più importante azienda manifatturiera produceva autovetture ed era la General Motors; essa generava, prima del tracollo degli anni 80, circa 50 miliardi di profitti ogni anno ed impiegava oltre 800.000 persone. Oggi, la più importante azienda manifatturiera è la Apple e produce sistemi operativi, smartphone, computer e dispositivi multimediali, generando circa 100 miliardi di profitto impiegando nel 2020, circa 137.000 dipendenti a tempo pieno.

Ciò premesso, se questa interpretazione coglie l’indirizzo di Xi, la “politica della conoscenza” appare la chiave che consentirebbe di governare il negativo effetto strutturale in quanto alla forza lavoro verrebbe assegnato il ruolo di dirigere il processo tecnologico. Pur non condividendo l’analisi negativa sul ruolo dell’IA, c’è da dare atto, tuttavia, di un dibattito che viene calato nella realtà politica e che trova materia di discussione in una assemblea pubblica (quella del PCC, partito che nel 2022 contava oltre 98 milioni di membri). Di una discussione del genere non c’è traccia, invece, nelle mature democrazie occidentali, dove la politica si riduce spesso a leader che si rincorrono tra hashtag e dichiarazioni virali, che dopo aver occupato l’agenda mediatica, lasciano poco o nulla; i dibattiti sul futuro dei popoli restano, invece, prerogativa di élite economico-culturali, gestite spesso da interessi lobbistici esclusi al confronto democratico.

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