Matteucci e il populismo: una sana e attualissima rilettura

Tra i pensatori le cui riflessioni risultano essere maggiormente utili per capire la situazione sociale attuale figura anche un brillante studioso italiano: Nicola Matteucci. Lo scienziato sociale bolognese, infatti, oltre a essere fondamentale per i suoi lavori sul costituzionalismo e su Alexis de Tocqueville, è stato assai importante per mettere a fuoco un fenomeno al giorno d’oggi imperante: l’insorgenza populistica.

L’opera a cui si fa riferimento è evidentemente “Il liberalismo in una democrazia minacciata” apparso nel 1981, ma in effetti composto da saggi risalenti ai due anni precedenti. In realtà, già nel 1972 con “Il liberalismo in un mondo in trasformazione”, Matteucci si occupa degli influssi populistici sul tessuto sociale e democratico; tuttavia, tali questioni sono affrontate in modo ancor più centrale nel testo uscito negli anni ‘80. Matteucci vede come questa reazione illiberale, di fatto, si nutra dell’idolatria dell’appiattimento delle condizioni, della veemente critica verso ogni forma di autorità e, in definitiva, dell’ideologia di un popolo che si fa massa, di una democrazia che si fa “massocrazia”, come direbbe probabilmente Giovanni Sartori. Non dimentichiamo, a questo punto, i mirabili volumi di José Ortega y Gasset (“La ribellione delle masse”, 1929) e Johan Huizinga (“La crisi della civiltà”, 1935, anche se il titolo in lingua olandese corrisponderebbe pressappoco a un ben più plumbeo e minaccioso “Nelle ombre del domani”), i quali già avevano visto come l’erosione assoluta del principio di autorità, la perdita totale della memoria storica e, potremmo dire, la massificazione montante prospettavano un futuro eufemisticamente fosco.

Ebbene, secondo Matteucci, come sostenne già Peter Wiles nel primo fondamentale studio sul populismo uscito nel 1969, questa reiezione della modernità non assume le sembianze di una vera e propria ideologia, bensì di «una sindrome, un insieme di idee semplici ed elementari, di intuizioni e di emozioni che vengono vissute attivisticamente nell’azione» facendosi «un credo e un movimento». Non mi soffermo sull’annoso problema definitorio del populismo, giacché, a causa della scivolosità concettuale dello stesso, ancora oggi gli studiosi non riescono a trovare un punto di vista convergente. È il seguito dell’analisi dello studioso bolognese ad essere assai pregnante e di limpida attualità.

Infatti, egli nota come il fenomeno nasconda in sé un afflato profondamente antimoderno, antilluministico e antindividualistico già nel fatto che «per il populismo il solo ed unico depositario dei valori è il popolo», ovvero un concetto collettivo che, in virtù della sua estrema aleatorietà e se utilizzato in modo dogmatico, letterale e onnipervasivo mina le (precarie) fondamenta di una società libera, o aperta, e tende a schiacciare il pluralismo tipico della democrazia liberale. Uno dei pericoli, nota l’autore, è che, se la democrazia s’impregna della “febbre” populista e non trova gli anticorpi per riassorbire l’agente patogeno (Matteucci usa un’espressione piuttosto forte, ma nel complesso calzante: parla di “redenzione” del momento populistico in quello costituzional-pluralistico), allora l’esito sarà verosimilmente l’instaurazione di una democrazia a vocazione totalitaria o autoritaria, giacché la democrazia populistica si configura come regime politico intrinsecamente instabile.

Com’è noto, e come pertinentemente osserva lo studioso, il populismo si scaglia contro «i pochi, le oligarchie, chi comanda». Inoltre – e qui emerge tutta la sua carica sessantottina che, forse, per la componente “antitradizionalistica” va ad abbracciare solo una parte dei populismi, potremmo dire quelli di tipo progressista-egualitaristico – «è sostanzialmente attivista – e in questo irrazionalista e antistoricista – per una mistica fiducia nel nuovo; è profondamente anti-intellettualista […] è in radicale protesta contro la tradizione». In virtù del suo nuovismo estremo, del suo rigetto nei confronti del passato – o, perlomeno, di quella parte di passato dominata dai “potenti” – e dell’idoleggiamento del principio di “sovranità popolare”, la rottura con il momento pre-populista deve essere dirompente. La democrazia in salsa populistica, così, desidera la rottura con le briglie che dovrebbero contenere il rischio “demolatrico”, è ostile alla separazione dei poteri e vuole instaurare il principio di partecipazionismo puro, ovvero «la partecipazione di tutti su tutto, in ogni ambito, in un complessivo livellamento delle scelte».

In altri termini, viene iper-esteso il momento politico, «segno di una situazione non sana, perché segna il passaggio dal pluralismo alla società di massa, da una concezione individualistica della politica a una totalitaria, perché porta alla distruzione delle articolazioni della società civile». Se, in teoria, l’ “uomo-massa” ha in tal modo un guadagno in chiave politica, giacché la democrazia diretta è l’inveramento e l’assolutizzazione del potere legittimo detenuto dal popolo, sul piano privatistico-individualistico esso non è più nulla, poiché perde la dimensione che lo rende unico e irriducibile.

In questo senso, si può ben dire che esso si configura come una «violenta forma di reazione al processo di modernizzazione, in nome della democrazia diretta», dal momento che, se la dimensione politica diviene ipertrofica, le attività economiche vedono necessariamente una loro erosione. E, allora, considerare il populismo – quasi inevitabilmente legato all’approdo verso una società chiusa – «un’ideologia del ristagno e del sottosviluppo», per dirla con Matteucci, non è molto lontano dal vero.

Concludiamo, giunti a questo punto, con un’ultima ficcante osservazione del pensatore bolognese. Il contrasto a una degenerazione sociale massocratico-populistica deve partire, ancorché non solamente, dal ripristino dell’autentico compito proprio dell’istituzione universitaria. Essa, con le parole del Nostro, deve tornare ad essere «sede di formazione della personalità umana, della Bildung», ovvero «deve servire a formare e liberare le personalità» e non a “produrre” individui indistinti, impersonali e amorfi. Sicuramente sarebbe corrivo attribuire unicamente alla massificazione universitaria la responsabilità della situazione attuale; tuttavia, se questa “palestra” di menti e di spiriti critici tornerà ad assolvere il suo primario e imprescindibile ruolo, già si saranno fatti notevoli passi avanti. Accanto a ciò, nondimeno, occorre che l’individuo riscopra da sé il piacere di elevarsi da uno stato di minorità intellettuale che minaccia di ricoprire la modernità di una coltre greve, brumosa e narcisistica.

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