Raymond Aron. Lo sguardo critico e l’oppio ideologico

Nell’introduzione ai Mémoires di Raymond Aron, Tzvetan Todorov scrive che, per accostarsi al suo pensiero, è necessario considerare le vicende che lo segnarono durante il soggiorno in Germania nel 1933. In quel clima, ricorda Aron, Alain o Brunschvicg, i filosofi che erano stati i suoi maestri, non potevano più offrirgli strumenti adeguati per comprendere il nazismo, in cui colse la concezione globale della storia che sta a fondamento di ogni forma di totalitarismo.

Ecco perché, già nel 1942, malgrado l’alleanza tra i sovietici e le potenze occidentali contro Hitler, Aron sentì il bisogno di condannare, insieme al nazismo, l’altra “religione secolare”, il comunismo, fondata sulla “fede in un al di là terreno”. Scrive in proposito nei Mémoires che il comunismo è apparso meno odioso rispetto al nazismo perché il messianismo, incarnato da una classe, ha impressionato meno rispetto al razzismo nazista. In questa analisi, distaccata rispetto agli eventi, Aron dichiara di ispirarsi a Machiavelli e a Tocqueville, i cui sentimenti, quando affiorano qua e là, “sono espressi in formule ironiche, e sempre in poche parole”.

Nel 1955, in controtendenza rispetto all’orientamento prevalente nell’Intellighenzia, pubblica L’oppio degli intellettuali. Il libro si apre con la celebre citazione di Marx, che vede nella religione l’oppio dei popoli, a cui si contrappone, però, un passo di Simone Weil, in cui si legge che il marxismo può essere considerato una religione nel senso più impuro della parola, perché, come tutte le forme inferiori della vita religiosa, può essere usato, “secondo l’espressione così calzante di Marx, come oppio del popolo”.

Analizzando quel che definiva “il mito della sinistra”, Aron si chiedeva se la distinzione fra destra e sinistra avesse ancora un significato o se fosse necessario riproporre la questione in termini diversi. Se si identifica la sinistra con il bolscevismo, che vuole realizzare l’uguaglianza e la destra col franchismo, che si richiama alla religione e alla patria, sosteneva Aron, la contrapposizione appare chiara. Ma non è più così chiara se si considera che il nazismo, come il comunismo, identificando il partito con lo Stato, riconoscono nel liberalismo, e nello Stato di diritto, il nemico comune.

Nei regimi totalitari si assiste così, secondo Aron, “alla fusione di destra e sinistra, o meglio, della pseudo-destra fascista e della pseudo-sinistra comunista”. Il comunismo si propone di liberare l’individuo dallo sfruttamento capitalistico, ma sottomette in realtà i singoli al potere di uno Stato che invade ogni aspetto dell’esistenza.

Aron si chiedeva quali fossero le ragioni del contrasto tra Sartre e Camus, che animava il dibattito culturale e politico in Francia. Il motivo non risiedeva in questioni teoriche, in quanto, entrambi esistenzialisti, rifiutavano la concezione deterministica del materialismo storico. Li divideva il giudizio sull’Unione Sovietica, che Camus considerava un regime tirannico e Sartre un modello politico che, nonostante le sue criticità, non poteva essere del tutto condannato. Tali questioni eludevano, secondo Aron, i problemi reali ed erano poco comprensibili al fuori dei caffé di Saint-Germain-des-Prés.

Era evidente che l’entusiasmo suscitato dal comunismo sulla sinistra europea, e sulla sinistra francese in particolare, non era per niente paragonabile alle tiepide attenzioni riservate al laburismo britannico o alla socialdemocrazia svedese. Il fascino del profetismo e del messianismo non riusciva, fra gli intellettuali, ad essere intaccato dal razionalismo riformista. Aron trova una conferma evidente di questa tendenza in Umanismo e terrore, in cui Merleau-Ponty attribuisce solo al proletariato la capacità di realizzare l’umanità e l’autocoscienza che i filosofi hanno astrattamente teorizzato. In questo quadro, marxisti, esistenzialisti e cristiani progressisti, “vogliono osservare la realtà solo attraverso la lente di questa profezia”.

Ma i miti della sinistra e del proletariato sono tramontati, ironizzava Aron, la Rivoluzione è ormai alle nostre spalle e in Italia come in Francia “non dobbiamo più espugnare la Bastiglia”, anche se il dogmatismo e l’ingenuità permangono e rischiano sempre di tradursi in fanatismo. Quando, ad esempio, sempre in Umanismo e terrore, Merleau-Ponty scrive che il marxismo non è un’ipotesi qualunque, assolutizza fideisticamente un’ideologia. Perché non ammettere, commenta Aron, che i filosofi hanno sbagliato nell’attribuire al proletariato una missione unica?

Non è possibile determinare a priori il corso degli eventi, perché la storia, scrive, si svolge come “un insieme di fatti eterogenei che si dispongono in modo omogeneo nel corso del tempo. Non è, in sé, né progresso, né decadimento, né ripetizione indefinita degli stessi cicli”. Soltanto l’esperienza può dimostrare in che misura o in quali settori gli eventi si organizzino in progressione, o in cicli.

Il marxismo ci si presenta, secondo Aron, come una filosofia della storia che pretende di ordinare il caos riducendo la complessità a semplici principi interpretativi: “Le classi obbediscono al loro interesse, gli individui alle loro passioni, ma le forze e i rapporti di produzione fanno scaturire, da questa mischia confusa, la successione dei regimi, inesorabile quanto benefica, poiché la società senza classi ne segnerà il termine”.

Si giunge così a una forma di “idolatria” che ha la pretesa di essere definitiva. Se la coscienza storica, sostiene Aron, ci insegna a rispettare l’altro anche quando non ne condividiamo le posizioni, l’idolatria della storia vede nell’altro solo un nemico, che ostacola la marcia verso il bene. Aron accusa l’Intellighenzia occidentale di essere succube di questa concezione e di esercitare una critica corrosiva verso le liberaldemocrazie, per esaltare poi la presunta purezza del modello sovietico. Nel sogno della rivoluzione, coltivato dagli intellettuali, ci si sottrae così “all’impurità della storia concreta”. Le concezioni politiche, ammoniva Aron, non esprimono verità assolute, ma metodi ragionevoli per orientarsi nella realtà e ciò deve valere, in particolar modo, per il liberalismo.

Il mondo occidentale commetterebbe un errore fatale, scriveva con grande preveggenza, “se credesse di possedere un’ideologia unica, paragonabile al marxismo-leninismo”. Da liberale incorreggibile, come si dichiarava, era consapevole che “la tolleranza nasce dal dubbio” e che bisogna quindi guardare con sospetto alle utopie che non si limitano alla perfettibilità, ma pretendono di realizzare la perfezione. Con una lucidità di cui si sente oggi la mancanza, Aron avvertiva quindi l’esigenza di mettere in guardia gli americani dalla tentazione di esportare, con “spirito missionario”, il modello liberaldemocratico in giro per il mondo.

 

Testi citati

R. Aron, Mémoires, Robert Laffont, Paris, 2005.

R. Aron, L’etica della libertà, trad. it., Mondadori, Milano, 1982.

R. Aron, L’oppio degli intellettuali, trad. it. Editoriale Nuova, Milano, 1978.

 

 

 

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