Covid19, l’occasione per ripensare a un federalismo che nasca dal basso.

Non eravamo pronti. Alla prima evidenza nazionale del Covid-19 in Lombardia il governo italiano si è fatto trovare senza nessuna strategia di prevenzione al riguardo. Dopo una prima fase di lockdown gestita discretamente, in una fase due dai connotati incerti e fluidi, con migliaia di morti sulle spalle e una crisi economica da paura nel futuro prossimo, tra i datori di lavoro “colpevoli d’ufficio” e i farmacisti “ladri di mascherine”, il dito accusatorio per i numeri disastrosi della pandemia è stato puntato anche verso la regionalizzazione della sanità pubblica. «Basta Regioni, sanità da ricentralizzare. M5S d’accordo» Secondo Orlando del PD e altri esponenti politici che lo sostengono è necessario «un ritorno delle competenze sanitarie allo Stato centrale». Il Coronavirus si presenta come un goloso boccone da addentare al volo per chi, in preda a una crescente fregola statolatrica, non tiene conto del fatto che la legge è chiara (d.l. 1/2018) e specifica nel definire responsabilità e catene di comando a seguito di una dichiarazione d’emergenza (31 gennaio) e che il Presidente del Consiglio è stato investito di ulteriori ampi poteri con successivi decreti legge, per i quali le funzioni di coordinamento spettano al Presidente del Consiglio dei Ministri e l’organo chiave di comando diventa il Comitato operativo della Protezione civile. Vediamo inoltre come questa posizione sia totalmente priva di fondamento e, se è vero che regioni diverse offrono una qualità di cure diversa, il miglioramento dell’efficienza delle peggiori non sia da cercare in una centralizzazione decisionale, ma, al contrario, liberando e responsabilizzando quelle energie e quei talenti che tutti i territori possiedono. La Lombardia fino a gennaio 2020 era considerata un’eccellenza nel campo della sanità e lo è ancora, tanto che una facile previsione è quella secondo la quale, terminata l’emergenza Covid-19, la migrazione sanitaria ricomincerà come prima. Non solo, anche la gestione finanziaria degli ospedali è premiante: il policlinico di Milano, per esempio, spende (con tanto di bilancio in regola) la metà di quanto costa l’Ospedale di Reggio Calabria (struttura fatiscente e senza bilanci ufficiali), curando il doppio dei pazienti in modo non paragonabile. D’altro canto però, la sanità lombarda è stata caratterizzata da una polarizzazione delle cure dei pazienti presso ospedali altamente specializzati, caratteristica che, se in tempi ordinari fornisce servizi molto soddisfacenti, diventa un ostacolo quando la gestione non si deve focalizzare sugli individui, ma sulla collettività. Una pandemia ha portato alla luce i difetti della carenza di una ramificazione territoriale della sanità lombarda portando probabilmente la stessa ad avere risultati disastrosi. Contemporaneamente, il modello Veneto è diventato un esempio mondiale di contrasto alla pandemia: implementando un sistema di biosorveglianza microterritoriale a disposizione delle autorità locali, che integra in tempo reale i dati a disposizione, consente di fare due cose fondamentali: primo, ricostruire le relazioni della persona positiva e sottoporle immediatamente tutti a tampone; secondo, costruire una mappa dinamica dell’epidemia, non nazionale o regionale, ma comunale, arrivando fino alle singole famiglie. In questo caso è stato un non allineamento a linee guida centrali, uno scatto di decisa autonomia dalle direttive ministeriali a permettere che la situazione fosse tenuta sotto controllo. Ridurre le competenze regionali a causa della malagestione lombarda della pandemia è una tentazione irresistibile per gli statalisti, ma si può tranquillamente rispedire al mittente in quanto la Regione ha agito in ottemperanza ai protocolli ministeriali, appiattendosi senza coraggio sulle indicazioni centrali, senza operare specifiche valutazioni sulle caratteristiche della struttura sanitaria esistente e del territorio. Non ci sono prove quindi che lo Stato avrebbe fatto meglio. Durante l’emergenza Covid-19 la Lombardia ha obbedito pedissequamente alle direttive del Ministero, allorché si brancolava ancora nel buio tra “le mascherine non servono” e “Milano non si ferma”, almeno fino a che, in un ospedale di Bergamo, si è deciso di procedere a effettuare un’autopsia violando il protocollo ed evidenziando così altre caratteristiche letali del virus. Un’altra colpa lombarda è anche quella di non aver proceduto a decidere in autonomia di chiudere in zone rosse i focolai intorno a Bergamo. Una responsabilità pesantissima, ma esattamente il contrario di ciò che accusa chi vorrebbe riportare a Roma il controllo totale. Osservando la storia recente, quindi, si deduce che ciò che bisognerebbe rafforzare sia l’autonomia decisionale dei territori, non la centralizzazione, in quanto la procedura vincente è nata da diverse decisioni regionali difformi ai protocolli OMS e ministeriali. È lecito pensare che se il Veneto avesse seguito le linee guida centrali, gli esiti sarebbero stati disastrosi. Il decentramento decisionale spinge le autorità a cercare risposte ai problemi simili offrendo risposte diverse, permettendo di evidenziare le buone pratiche di successo e mettendole a disposizione di tutti gli altri territori. Noi non avremmo la possibilità di confrontare il caso veneto e quello lombardo se tutto fosse gestito centralmente in modo uniforme, così come non potremmo confrontare il caso lombardo (delle situazioni ordinarie) con le altre regioni. Sono stati proprio gli spazi di indipendenza ad aver consentito l’emersione di alcuni spiragli di eccellenza, quegli spazi di autonomia locale che i nostri governi contrastano con tutti i mezzi possibili, ma che sarebbero preziosissimi generatori di innumerevoli buone pratiche da diffondere se lasciati liberi da resistenze ideologiche e di conservazione di potere. Diventa quindi evidente come le differenze di resa tra la sanità di un territorio e un’altra non si sanerebbero con una centralizzazione sanitaria neanche in situazione ordinaria: le differenze si appianerebbero certo, ma con una forzata omologazione al basso che danneggerebbe tutti i cittadini, sia del Sud che del Nord. Al contrario, per favorire una riforma efficace, il passo corretto è quello verso una maggiore libertà e responsabilizzazione delle classi dirigenti locali, lasciando ai cittadini il diritto di giudicarli per come vengono spesi i loro soldi. In questi giorni la tensione tra i Presidenti regionali più attivi e un governo centrale bulimico di potere è ormai palpabile: il tentativo di soffocarla senza ascolto sarebbe un fallimento istituzionale. La pandemia ha dato finalmente voce alle richieste di diversificazione amministrativa in base alle necessità territoriali. L’augurio è che da questa crisi, superando i difetti di un regionalismo di stampo prefettizio che amplifica l’irresponsabilità dell’amministrazione centrale invece di abbatterla, nasca un dibattito con al centro un vero federalismo competitivo che parta dal basso, stimoli le eccellenze, unisca nelle differenze e riporti le istituzioni e la politica vicino a cittadini, perché è solo nel momento in cui riconosciamo il valore aggiunto di un’amministrazione locale responsabilizzata che il voto locale riacquista un senso.

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