A cento anni da Storia e Coscienza di Classe di György Lukács

Nella formazione di György Lukács influirono profondamente Kierkegaard, la cui presenza si coglie in L’anima e le forme (1911), come anche Dilthey, Simmel e Weber, prima che maturasse l’interesse per il marxismo nel clima della Repubblica dei consigli di Béla Kun (1919), in cui ricoprì l’incarico di commissario all’istruzione. In seguito alla fine drammatica di quella breve esperienza, per sottrarsi alla repressione si recò a Vienna e poi Berlino. L’avvento del nazismo lo costrinse nel 1933 a fuggire a Mosca, dove rimase fino al 1945. Negli anni berlinesi elaborò un ripensamento del marxismo che prese corpo nel 1923 con la pubblicazione di Storia e coscienza di classe.

Lukács si proponeva di mettere in luce le radici hegeliane di Marx, che avevano gradualmente lasciato il posto a uno scientismo poco sensibile verso la dialettica dei processi storici. Se nella Seconda Internazionale il quadro di riferimento era rappresentato dal positivismo e dal neokantismo, nell’ambito dell’ortodossia marxista, sotto l’influenza di Engels, il “materialismo volgare” si applicava alla natura come alla storia. Le ideologie e le diverse espressioni della cultura, divenivano così, nella scolastica marxista, un effetto necessario della struttura economica. Lukács non accettava l’idea di porre sullo stesso piano i fenomeni sociali e i dati oggettivi della ricerca scientifica. Non condivideva inoltre la convinzione, comune a neokantiani e positivisti, che il reale potesse essere considerato indipendentemente dal soggetto.

 

Nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel, l’idea assume consapevolezza di sé attraverso un percorso in cui la natura, avvertita in principio come alterità, si rivela gradualmente alla coscienza come sua creazione. In questo processo dialettico si realizza l’identificazione di soggetto e oggetto, identificazione che Lukács riconosce nel proletariato, visto come il soggetto collettivo che produce la storia. La coscienza di classe, in cui coincidono teoria e praxis rivoluzionaria, incarna a suo avviso la totalità, una categoria del tutto estranea al liberalismo a al socialismo riformista.

In Storia e coscienza di classe emerge una tensione che, per usare una espressione dello stesso Lukács, ha il carattere di un “settarismo messianico”, inteso come una “rottura totale con tutte le istituzioni e le forme di vita derivanti dal mondo borghese”. L’antitesi rispetto alla socialdemocrazia è dunque netta, come netta è anche l’opposizione alla democrazia liberale, accusata di confondere la libertà formale con la libertà reale.  La libertà autentica, secondo Lukács, si realizza attraverso la disciplina di partito, che non è solo una premessa fondamentale per il corretto funzionamento del partito stesso, ma “è una delle più alte questioni spirituali dello sviluppo rivoluzionario”.

Ci troviamo dinnanzi a una reductio ad unum, in cui è evidente l’annullamento dell’individuo nella coscienza di classe, che prende corpo solo nel partito. L’entità collettiva assume così una priorità assoluta sul singolo. Ciò che distingue il marxismo dalla scienza borghese, scrive Lukács, manifestando la sua vena hegelo-marxista, non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità.  La prevalenza dell’intero sulle parti costituisce infatti l’essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel riformulandolo in modo originale. La separazione capitalistica del produttore dal processo complessivo del lavoro ha causato “l’atomizzazione della società in individui che producono sfrenatamente al di fuori di qualsiasi piano e di qualsiasi nesso”. L’aspetto profondamente nuovo della scienza proletaria non consiste solamente nel contrapporre contenuti rivoluzionari alla società borghese, prosegue Lukács, ma nell’essenza del metodo stesso, dal momento che “il dominio della categoria della totalità è il veicolo del principio rivoluzionario della scienza”.

Al “collettivismo metodologico” e alla pretesa di guardare le cose dal punto di vista della totalità, si potrebbe opporre la tesi dell’ “individualismo metodologico”, secondo cui il sapere è frammentato e non può aspirare alla totalità. La società può essere considerata dunque il frutto di comportamenti individuali, come sosteneva Menger, secondo un orientamento condiviso anche da Weber, per il quale sono proprio i singoli a dar vita alle entità collettive. Anche un’economia socialista, a suo avviso, dovrebbe essere compresa “in base all’agire degli individui”.

L’hegelismo di Storia e coscienza di classe attirò su Lukács, da parte della Terza Internazionale, l’accusa di idealismo e di revisionismo, da cui dovette difendersi. Il suo rapporto con l’ortodossia marxista conobbe condanne e “autocritiche”. A causa della partecipazione al governo di Imre Nagy nel 1956, subì anche una deportazione in Romania e solo nel 1967 fu riammesso nel partito. L’abiura del filosofo riguardo alle sue posizioni “idealistiche” e al suo “deviazionismo borghese” non può ricondursi a semplice opportunismo, ma testimonia in realtà un’adesione fideistica alla causa che richiama il sentimento religioso. Lo stesso Lukács sostiene che, indipendentemente da ogni sconfitta, il progetto rivoluzionario compie la sua strada fino alla meta. Questa visione finalistica, che svela i toni di una teologia secolarizzata della storia, si contrappone radicalmente alla libertà borghese, che secondo Lukács rappresenta un “principio corrotto e corruttore”, proprio in quanto guarda all’individuo ignorando la totalità.

Nel 1967, nella prefazione a Storia e coscienza di classe, scriverà che le ragioni della sua autocritica erano legate al fatto che l’esclusione dal partito gli avrebbe impedito in quel momento di partecipare attivamente alla lotta contro il fascismo. Le motivazioni teoriche dell’autocritica riguardano l’identificazione, in quell’opera, del concetto di alienazione con quello di oggettivazione. Tale identificazione portava a considerare l’alienazione come un carattere costitutivo della condizione umana, al di là dei modelli sociali ed economici di riferimento e poteva dar voce a quelle tematiche esistenzialiste e borghesi che egli stesso condannò senza appello in La distruzione della ragione, nel 1954. L’alienazione, precisava Lukács, rappresenta invece l’aspetto che l’oggettivazione, connaturata alla vita sociale e ai rapporti di lavoro, assume nel modo di produzione del capitalismo e può essere superata solo attraverso la prassi rivoluzionaria.

Di fronte alla condanna degli inquisitori del Diamat, Lukács seguì la linea imposta dal partito. In seguito, delineando il suo percorso politico e intellettuale, sostenne che un comunista può dire soltanto: “Right or wrong, my party”, nella consapevolezza che l’accettazione di questa formula può comportare anche la giustificazione dello stalinismo.

Nel suo saggio Figures de Lukács del 1972, tradotto in italiano col titolo Il gesuita della rivoluzione, il sociologo Yvon Bourdet si è soffermato sul fatto che ne La montagna incantata Thomas Mann si ispirò a Lukács nel costruire la figura del gesuita Naphta.  Ernst Bloch, come Bourdet, evidenziò anche la somiglianza fisica fra i due. Nel romanzo Naphta si contrappone a Settembrini, un illuminista che difende i principi del liberalismo. Per Naphta, che rifiuta del tutto il formalismo liberale, bisognerebbe tornare all’insegnamento dei Padri della Chiesa e allo “Stato divino del Cristianesimo”, in cui il capitalismo era considerato come un “tizzone d’inferno”. Nel movimento comunista egli scorgeva i segni di una rinascita dello “Stato divino”, tramontato con lo sviluppo del capitalismo moderno.

 

Lo zelo di Gregorio Magno, nella teologia millenaristica di Naphta, era stato assunto dal proletariato e il terrore costituiva l’unico strumento efficace per restaurare la “figliolanza divina senza stato e senza classi”. Ecco perché Hans Castorp, il protagonista del romanzo, poteva definire Naphta “un rivoluzionario della conservazione”. La Chiesa svolgeva infatti per lui un compito rivoluzionario proprio in quanto dissolveva l’ordine temporale per rifondare la società secondo l’ideale comunista del Regno di Dio. Una missione che richiedeva la dedizione assoluta di un rivoluzionario o di un gesuita, perinde ac cadaver. Lukács non si riconobbe nel gesuita, perché, scrive Bourdet, rifiutava di identificarsi in una figura che, come Naphta, lascia intendere che Stalin sia il continuatore di Lenin, ma non si può ignorare che si sarebbero trovati d’accordo nel sostenere la superiorità del partito-chiesa sulle scelte autonome del singolo.

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