Le virtù nel tempo dell’Antropocene. Il posto dell’uomo nel mondo secondo Salvatore Natoli

 

Lo sviluppo della ricerca scientifica ci spinge oggi a ripensare la centralità che l’ homo sapiens ha faticosamente  conquistato nel corso dell’evoluzione. Lo sostiene Salvatore Natoli nel suo recente Il posto dell’uomo nel mondo. Ordine naturale e disordine umano, Feltrinelli, 2022. Dal mito di Prometeo, alle diverse declinazioni del Post-human, la tecnica ha consentito in modi diversi di signoreggiare la natura, ma gli effetti sul pianeta sono stati talora devastanti.

Nel 1979, in Il principio responsabilità, Hans Jonas avvertiva l’esigenza di elaborare un’etica per la società contemporanea, in cui coglieva un “Prometeo irresistibilmente scatenato”, al quale la scienza e l’economia avevano concesso forze senza precedenti. Di fronte a questi nuovi scenari, proseguiva Jonas, era necessario concepire un’etica che limitasse la potenza della tecnica, nella consapevolezza che le sue promesse avrebbero potuto trasformarsi in pericoli. Un’etica della responsabilità esige allora, a suo avviso, un atteggiamento di cautela e una “euristica della paura”, dal momento che i rischi cui siamo esposti derivano più dall’uomo che dagli eventi naturali.

Affrontare la questione ecologica ponendo al centro la salvaguardia dell’ambiente diviene  fuorviante, se non ridefiniamo il nostro modo di stare al mondo, che secondo Natoli non può certamente configurarsi nella visione arcadica adottata da tanti movimenti ambientalisti.

La Rivoluzione scientifica ha teorizzato una concezione quantitativa della natura, che è stata considerata come un’immensa fonte di energie da sfruttare. All’immagine del grande organismo alimentato dall’anima mundi si è così progressivamente sostituito, dopo Bacone e Cartesio, Galilei e Newton, un grande meccanismo, a cui accostarsi con i metodi della matematica e della fisica.  Chiamare in  giudizio la scienza significherebbe però negare il divenire storico, assumendo atteggiamenti antimoderni incapaci di cogliere la complessità del presente.

Di fronte agli apocalittici e ai cantori di un progresso inarrestabile, Natoli riprende un tema che attraversa tutta la sua ricerca. Si tratta della questione del limite, che sta alla base dell’etica antica. Non potendo vincere la morte, l’uomo ha da sempre tentato di procrastinarla, attraverso una forma di oblio o mediante tecniche che potessero il più possibile prolungare la vita. Accade sempre più spesso che il sapere medico si applichi non solo alla cura delle malattie, ma anche al potenziamento delle performance, rispondendo al bisogno di andare oltre le normali funzioni del nostro organismo.

L’interazione tra informatica e neuroscienze ha consentito di estendere le capacità umane in maniera illimitata. L’intelligenza artificiale offre in questo campo immense opportunità, ma anche indiscutibili rischi, ove si pensi che, in assenza di strumenti di controllo democratico, le sue applicazioni, potrebbero tradursi in un sistema oppressivo.  L’automazione potrà anche favorire la crescita economica, ma se l’incremento di ricchezza non promuoverà un miglioramento della qualità della vita, non realizzeremo l’utopia di un mondo liberato dalla fatica del lavoro. Ci avvieremo piuttosto verso un futuro distopico. Si prevede che entro pochi decenni l’intelligenza artificiale svolgerà adeguatamente gran parte delle professioni umane. Raggiunto questo livello, ha scritto il filosofo svedese Nick Bostrom, è probabile che andremo incontro a forme imprevedibili di “superintelligenza”.

I sistemi di intelligenza artificiale più complessi sono infatti concepiti per funzionare autonomamente, ma proprio tale autonomia potrà renderli indipendenti da chi li ha progettati e da chi dovrebbe gestirli. Il rischio di passare dal dominio umano sulla tecnologia alla sottomissione alle macchine è sempre dietro l’angolo, come ha evidenziato Remo Bodei.

In questo clima, in cui siamo portati a forzare il limite in ogni direzione, Natoli invita a orientarsi verso quelle virtù, che, intese come “abilità a esistere”, consentivano ai filosofi antichi di gestire con equilibrio l’imprevedibilità dell’esistenza. La pratica delle virtù, presente nel pensiero greco da Solone a Socrate, da Aristotele alle filosofie ellenistiche,  trova una significativa applicazione  nello Stoicismo, in cui è sempre presente la coscienza di sé in ogni situazione: si tratta del compos sui, a cui Natoli fa riferimento più volte.

Elemento essenziale era per gli stoici l’attenzione, prosoché, intesa come una costante vigilanza. Affinché ciò si realizzi, è necessario, scriveva Epitteto, che la distinzione fra le cose che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi sia sempre chiara. La libertà si esprime infatti entro un orizzonte di necessità con cui bisogna fare i conti. Ciò appare evidente nelle applicazioni irresponsabili della ricerca, in cui l’aspetto strumentale si svincola dai fini e dalla phronesis. Non tutto ciò che la tecnica ci consente di fare è infatti opportuno fare. Ecco perché diviene fondamentale un confronto critico, e al tempo stesso privo di pregiudizi, con la ricerca scientifica.

Allo stesso modo di Epitteto, Marco Aurelio pensava che il saggio dovesse avere costantemente presenti i capisaldi della dottrina, per poter agire in modo adeguato nelle diverse circostanze. Tali principi dovevano essere “a portata di mano”, come lo sono gli strumenti che il medico ha sempre con sé, al fine di intervenire efficacemente nei casi più gravi e urgenti. La virtù, così concepita, non rappresenta un annullamento del desiderio, ma un’arte del vivere, che coincide con la capacità di governare le nostre pulsioni.

Come ha scritto in Salvezza senza fede, Natoli è ben lontano dal pensare a un improbabile ritorno ai greci. La sua ricerca è costantemente orientata a porre in luce, piuttosto, come la dimensione tragica del pensiero antico possa tradursi, nell’esperienza contemporanea, in un’etica del finito.  Su questo terreno Atene e Gerusalemme possono incontrarsi. Nella tradizione ebraico-cristiana l’uomo, nella sua creaturalità, accetta la finitezza, nella quale può riconoscersi anche chi, richiamandosi esclusivamente alla  natura, è consapevole della sua condizione mortale.

Sappiamo da Spinoza che ciascun ente si sforza di perseverare nel suo essere, cercando un punto  in cui si incontrano la tendenza a espandere la propria potenza e l’esigenza di governarla. Il bilanciamento di questi movimenti contrastanti si esprime biologicamente attraverso l’omeostasi. Per il neuroscienziato Antonio Damasio, attento lettore di Spinoza, le complesse procedure che sono alla base della vita democratica costituiscono il corrispettivo, sul piano politico, dei dispositivi omeostatici degli organismi.

Il modello biologico preso a modello da Damasio appare a Natoli coerente con la mesòtes aristotelica, intesa come la capacità “di individuare il giusto mezzo in condizioni di variabilità e di agire di conseguenza”. Nella perenne instabilità delle vite individuali e delle società è necessario trovare una bussola “per tenere la rotta e non fare naufragio”.  Richiamarsi oggi a un’etica delle virtù significa allora declinare al presente l’idea di misura, accogliendo la “fenomenologia dell’azione” che ci proviene da Aristotele, e superando il pregiudizio secondo cui il dominio delle passioni comporterebbe la loro negazione.

Nelle società umane la ricerca di questo equilibrio si svolge in modo complesso, scrive Damasio, e coinvolge un ampio spettro di tonalità emotive e di valori, dalla religione all’arte, dalla filosofia alla politica. Gli individui, come le comunità, hanno bisogno di ridefinirsi di continuo per rispondere ai mutamenti, che non sempre sono prevedibili o favorevoli. La crisi dell’Antropocene richiede dunque un doppio ridimensionamento, imposto, sostiene Natoli, da un lato dalla natura, dall’altro dalle forme più avanzate della tecnologia con cui ci troviamo a convivere.

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