Il dramma dell’incomunicabilità all’interno di 4.48 Psychosis

Dedicato a chi, in silenzio, soffre, e non sa dare alla sua sofferenza nessun senso, né un nome.

 

Ho sempre sostenuto che il fascino della letteratura sia quello di mettere in scena personaggi fittizi coi quali ci si può identificare, virtualizzandosi nella loro condizione e maturando grazie alle riflessioni che da questo scaturiscono. Il personaggio autorialmente elaborato non è una semplice marionetta sottostante all’intreccio narrativo, ma è un modello per il soggetto-lettore: nell’immedesimazione, processo noetico tanto affascinante quanto prodigioso, il soggetto-lettore si dissolve nei personaggi della narrazione e matura nel suo pensarsi nella storia. Storia che, come deducibile, non è più mero materiale esterno che viene letto e gustato, ma è affare di una soggettività che la vive come fosse la sua personale.

 

Di fatti, il soggetto-lettore, nella sua immedesimazione, percepirà come personali le scelte che sono rimesse al personaggio col quale si virtualizza, e con ciò rifletterà intorno alla giustezza ed alla moralità del da farsi. Potrà condividere l’agire di un personaggio, o potrà anche rinnegarlo: in questo modo, l’attività della lettura inerirà una soggettività attiva e crescente nel lavorio stesso del leggere. Grazie al processo di identificazione, il soggetto-lettore, ritornato nel suo reale, potrà ripensare le sue azioni ed interrogarsi in merito all’autenticità di sé stesso proprio perché la storia letta lo ha chiamato all’appello rispetto a scelte dalle caratteristiche morali, etiche ed esistenziali virtualmente probabili.

 

Ovviamente, il processo identificativo avviene con molta più facilità quando l’opera di narrazione costruisce un contesto narrativo coerente e funzionale all’immedesimazione: la strutturazione di un mondo credibile, le cui logiche per quanto astruse si incastrano tra loro linearmente, rende la virtualizzazione sicuramente più semplice. Il mondo letterario autorialmente architettato deve possedere delle leggi funzionanti entro le quali i personaggi possano agire e grazie alle quali il soggetto-lettore si veda davvero chiamato ad una scelta complessa e che per questo necessita di una riflessione profonda. La letteratura, così, può metaforicamente pensarsi costituita di tanti mondi quanti sono i libri, ognuno caratterizzato da una propria fisica e dalle proprie leggi dalle quali dipende la sussistenza dei personaggi ideati. Allo stesso modo di come noi stessi, per l’appunto, viviamo all’interno di un contesto narrativo – quello inerente le nostre esistenze – subordinato alla strutturazione complessa del nostro mondo. Ogni lettura nella quale ci si identifica è pertanto una sorta di mondo-altrimenti nel quale ci immergiamo e grazie al quale possiamo potenziarci in quanto soggetti-lettori attivamente posizionati.

 

Ciononostante, l’immedesimazione può avvenire con facilità anche senza un mondo narrativo costruito in modo logicamente certosino. È il caso di quei testi che basano la loro coerenza su un substrato di incoerenza giustificato con necessità di tipo narrativo o stilistico. Ad esempio, l’intramontabile Ulisse di J. Joyce deve la sua fortuna proprio ad uno stile certo confusionario ma coerente rispetto alle sue premesse narrative: raccontare una giornata di vita sotto il filtro del fluire costante ed idiosincratico dei pensieri. La virtualizzazione, qui, avviene con facilità perché il contesto narrativo è ben esplicato e congruente alla predilezione di stile.

 

Prima di considerare l’opera teatrale che vorrei trattare, penso sia più che mai necessario – perché la sua comprensione risulti puntuale – presentarne l’autrice: Sarah Kane. Il mondo letterario e teatrale di Kane è tanto mostruosamente complesso quanto abissalmente affascinante, e queste proprietà sorgono proprio dal fatto che, ciò che vien messo in scena, è direttamente desunto dalla situazione emotiva e psico-patologica dell’autrice. Personalmente, ho sempre ritenuto che una buona autorialità ed una buona letteratura siano date non dalla mera competenza tecnica, ma dal fatto che colui che scrive si immerga completamente nei concetti che elabora, calandosi nella semantica del suo testo. In questa maniera, la bontà di una produzione non dipenderebbe solo da un lavoro meticoloso ma anche da un coinvolgimento sincero e genuino. Nel caso di Kane, l’immersione è così profonda da sembrare quasi che i testi vadano oltre la stessa consapevolezza dell’autrice, essendo le narrazioni ad esplicitarle qualcosa di sé che le è sconosciuto.

 

Sarah Kane era affetta da una forma importante di depressione che, a soli ventotto anni, nel 1999, l’ha portata alla morte per suicidio. I drammi esistenziali, i deliri psicogeni, gli sbalzi emotivi ed i deliqui della mente di chi tra le altre cose è spesso sotto effetto di psicofarmaci, sono tutte questioni note all’autrice e contenute all’interno delle sue opere teatrali. Opere, quindi, strettamente interconnesse al suo vissuto. Quello di Kane è un esempio di teatro crudo, senza filtri, che non ha paura di raccontare la realtà delle cose: le rappresentazioni di Kane fecero – intuibilmente – enorme scandalo, e questo perché alcune delle scene includevano sessualità sfrenata così come antropofagia esplicita e scene di stupro [1].

 

Per quanto siano certamente possibili delle interpretazioni psicoanalitiche, credo che una filtrazione di questo tipo fraintenda la focalizzazione principale delle rappresentazioni: Kane non mirava a portare in scena quello che l’umano tiene reconditamente a bada, facendo passare il messaggio per cui noi si sia sconosciuti a noi stessi; l’autrice voleva piuttosto comunicare qualcosa di più personale, ovverosia la sua condizione esistenziale, deviata e permanentemente compromessa, le cui sofferenze sono fraintese ed i cui patemi sono sminuiti perché dovuti ad una condizione di malattia. Quasi come fossero delle produzioni allucinogene, dunque. La sofferenza di chi è depresso viene fraintesa in quanto, si pensa, non si soffre davvero, essendo compromessi mentalmente, e ciò, tra l’altro, priva quel dolore della sua dignità. Per questo, l’attenzione deve essere indirizzata alla risoluzione del problema psichiatrico e non all’ascolto del soggetto che ne patisce. È chiaro che a causa di ciò chi soffre prova anche un’esperienza di solitudine ed incomunicabilità del suo dolore: nessuno sembra capirlo, ed alla meglio, nel tentativo, non può che essere frainteso.

 

L’incomunicabilità sussistente tra il soggetto depresso e l’alterità è, tra le altre cose, tema fondamentale dell’opera teatrale di cui vorrei discutere: 4.48 Psychosis. Seppure è vero che l’incomunicabilità del malessere sia, con intensità variabili, un tema portante di tutta l’antologia di Kane, credo che 4.48 Pyschosis incapsuli e dirima la tematica nel modo più convincente. Anche per una motivazione prettamente stilistica: i drammi di Kane, da Dannati a Purificati, comprendevano dei protagonisti muniti di un nome e, quindi, di una riconoscibilità. Da Purificati in poi, si assiste invece ad una lenta ed inesorabile deflagrazione e smaterializzazione del protagonismo. È come se non ci fossero attori ma solo parti. Se però in Febbre i personaggi possono ancora riconoscersi mediante delle semplici lettere, in 4.48 Psychosis si assiste a qualcosa di inconsueto nella sua rappresentabilità teatrale: l’identità soggettiva sparisce, e l’interezza del dramma si presenta come un lungo monologo interiore.

 

Un flusso di coscienza, quello di 4.48 Psychosis, decisamente sui generis: non si tratta di una individualità sana che parla dei suoi patemi circoscrivendoli in contesti esaurienti o sufficientemente logici, ma della mentalità sconclusionata e disordinata di chi, vittima di depressione, pensa il mondo e la sua soggettività sotto il cappello dell’estraniazione. Il mondo è incomprensibile, e peggio ancora lo stesso soggetto depresso è incomprensibile a sé stesso. La pervasività di questa condizione è tale che «Una stanza di facce senza espressione osserva la mia sofferenza, così priva di senso da essere frutto di una mente diabolica» (S. Kane, 4.48 Psychosis). Nel disperato tentativo di lenire la sofferenza, il soggetto si riferisce ad una personalità presuntivamente professionale: uno psichiatra. La sua figura è centrale nello sviluppo del dramma in quanto ne viene sottolineata l’inconcludenza e l’inefficacia alla cura reale della persona. La psichiatria, infatti, sembrerebbe macchiarsi di un peccato ben specifico: scambiare i soggetti di cura. Laddove l’attenzione dovrebbe essere focalizzata sulla persona che soffre, essa viene indirizzata alla malattia: l’individuo patente non viene mai davvero ascoltato perché, come già detto, qualsiasi cosa possa dire sarebbe frutto di un’illusione psicogena causatagli dalla malattia.

 

“Dottori imperscrutabili, dottori sensibili, dottori completamente di fuori, dottori che scambieresti per pazienti se non ti dimostrassero il contrario, fanno le stesse domande, mi mettono le parole in bocca, mi offrono cure chimiche per combattere un’angoscia congenita[…]” (ibid.).

L’atto della cura in psichiatria, con l’emersione di terapie psico-farmacologiche sempre più apparentemente efficaci, ha visto un’inversione di marcia alquanto pesante nella sua significazione. Il termine come tale suggerisce un contesto semantico ben diverso: il dizionario Treccani dichiara infatti che la cura è un «Interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività» [2]. Nella psichiatria contemporanea, vi è una predominanza perniciosa del concetto di terapia su quello di cura: la visione terapeutica del farmaco fagocita l’ascolto preoccupato della cura in senso stretto. E con ciò, a subirne maggiormente le conseguenze è il soggetto che soffre il quale, dimenticato nella sua individualità, sente che «Il Dottor Questo e il Dottor Quello e il Dottor Come va che è di passaggio e crede di poter piombare qui a prendere anche lui per il culo» (ibid.).

 

Nondimeno, sia pure questo, il permanere della sofferenza e dell’angoscia porta il soggetto non solo a non rinnegare la cura – che pure non vede di buon occhio, ma a desiderarla ardentemente perché, nella disperazione, cerca sollievo anche attraverso quanto risulterebbe aborrevole in altre istanze. A prescindere, però, «Non c’è nessun farmaco sulla terra che può dare senso alla vita» (ibid.).

 

“Okay, va bene, mi faccio le medicine, mi faccio la lobotomia chimica, radiamo al suolo le funzioni più sofisticate del mio cervello, forse così sarò un po’ più capace di vivere cazzo. Va bene” (ibid.).

La dimenticanza del valore delle soggettività nel percorso psicoterapeutico e della loro situazione emotiva ed esistenziale, è quanto di più disprezzabile possa esserci in un contesto in cui figurano degli individui speranzosi di essere compresi e recuperati in tutta la loro nudità e purezza. Non sono soggettività filtrate quelle che intraprendono un percorso di cura: non c’è alcuna configurazione sociale o alcuna formalità a destabilizzarle, e lo spaesamento a cui ci si possa sentire soggetti nell’ambito della psicoterapia è sintomatico di una realtà psicoterapeutica che sta perdendo qualcosa di molto importante: la preoccupazione e la valorizzazione del soggettivo oltre il suo stato patologico. È partendo dalla pericolosità di presupposti simili che, nel corso dei suoi anni di attività, Eugenio Borgna, psichiatra Italiano, ha tentato di conferire dignità e rispetto alla figura del malato psichiatrico: la sua condizione psicopatologica non lo avrebbe contraddistinto da una soggettività sana da un punto di vista qualitativo, ma da uno quantitativo. La differenza intercorrente tra un soggetto malato ed uno mentalmente sano sarebbe la presenza più intensa di questa o quella proprietà comune ad entrambi i soggetti. L’individuo sano diventa, così, una sorta di malato in potenza. Grazie a questo approccio è stato possibile riabilitare la dignità di un soggetto psichiatricamente compromesso laddove, socialmente, rispetto al sano era perlopiù considerato un reietto da dover escludere.

 

L’incomunicabilità del dissidio di cui è preda chi è sofferente sta anche in un paradosso alquanto complesso: nella sua visione assolutamente nichilista, quanto il soggetto-malato più ricerca, dall’abisso nel quale sguazza, è proprio la vita, ed a questa anela più di chiunque altro, più di qualunque altra soggettività sana. Il dolore squassante ed emotivamente brutale che una soggettività depressa può provare, la può porre nella condizione di desiderare la morte, potendo essere questa la conclusione ultima ed unica delle proprie sofferenze. Quanto però nella morte si ricerca è la vita, è il poter boccheggiare da un’esistenza scandita solo da una sensazione perenne ed inevitabile di dolore. Il soggetto-malato vive un’esistenza fatta di sofferenza, angoscia e disperazione incommensurabili a cui vorrebbe spasmodicamente dar fine anche se la pace fosse rinvenibile nella morte, nonché nell’annullamento completo. Nel morire, vedrebbe la sua salvazione. Una morte che sarebbe, perciò, come dice Kane, preterintenzionale nella sua implicita e sommessamente urlata velleità di affermare la voglia di vivere.

 

“La disperazione mi spinge al suicidio
Un’angoscia che i dottori non riescono a curare
E non vogliono capire […] Non ho nessuna voglia di morire
nessun suicida ne ha mai avuta” (op.cit.).

Tirando le somme, bisognerebbe domandarsi se debba davvero essere la soggettività malata a doversi rendere comprensibile o invece l’alterità, professionalmente preparata o meno, a doversi porre nella condizione di ascoltare ed auspicabilmente comprendere chi soffre. Il testo che abbiamo preso in oggetto ci aiuta a comprendere in modo diretto e non filtrato il mondo emotivamente e psicologicamente complesso di un soggetto che soffre di certe patologie. L’incomprensibilità è forse inalienabile: addirittura la stessa Kane, come detto, finisce per lasciarsi andare alla volontà di vivere più profonda ed autentica. Ma dovremmo domandarci: la morte è davvero quanto possa risolvere definitivamente una sofferenza di questo genere? Ed ancora, quale ruolo giocano davvero le soggettività nel discorso della malattia: la comprensione e la compassione autentiche, unite ad un ascolto pronto ed empatico, potrebbero essere la chiave di volta non solo per una considerazione più dignitosa della malattia mentale, ma anche per una psichiatria davvero preparata a discorrere dell’animo.

Note

[1] Cfr. S. Kane, Dannati.

[2] Significazione del lemma mutuata dal dizionario online Treccani, consultabile al seguente link: https://www.treccani.it/vocabolario/cura/ (URL consultato in data 28/07/2022).

Bibliografia essenziale

Tutti i riferimenti bibliografici intorno all’antologia teatrale di S. Kane sono desunti dalla raccolta S. Kane, Tutto il teatro, a cura di L. Scarlini, trad. it. curata da B. Nativi, Einaudi, Torino, 2000.

Ho approfondito con maggiore estensione il tema del personaggio nella letteratura in un contributo sempre edito Einaudiblog che puoi recuperare qui: https://www.einaudiblog.it/perche-berserk-e-importante/; un altro riferimento importante, presente anche all’interno del rimando appena proposto, è sicuramente P. Ricœur, L’identité narrative, in «Revue des sciences humaines», LXXXXV, 221, janvier-mars 1991, pp. 35-47. Una traduzione è ivi consultabile: https://www.allegoriaonline.it/8-lidentita-narrativa (URL consultato in data 29/07/2022).

Consiglio caldamente di approfondire la visione di E. Borgna attraverso la lettura dei seguenti: E. Borgna, La follia che è anche in noi, Einaudi, Torino, 2019; E. Borgna, La fragilità che è in noi, Einaudi, Torino, 2014; E. Borgna, Parlarsi. La comunicazione perduta, Einaudi, Torino, 2015.

In merito al tema dell’esclusione sociale e ad una riabilitazione inclusiva del malato psichiatrico, rimando a F. Semerari, L’esclusione. Analisi di una pratica diffusa, Quodlibet, Macerata, 2020, pp.15-19; pp.125-130.

In caso di interesse nei confronti di una psichiatria dalle influenze convintamente esistenzialiste, e pertanto con una forte inflessione al soggettivo, rimando sicuramente ai seguenti: V. E. Frankl, Logoterapia ed analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia, 2005; V. E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, Brescia, 1998; V. E. Frankl, F. Kreuzer, In principio era il senso. Dalla psicoanalisi alla logoterapia, Queriniana, Brescia, 1995.

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