Stato e mercato nel futuro assetto energetico globale

La crisi energetica di questi mesi potrebbe essere la peggiore dell’ultimo mezzo secolo. Sebbene la catena del supply sia più vasta, diversificata e affidabile, e l’economia mondiale non abbia il dispendio intenso del passato (oggi si fa uso di minore energia per unità di prodotto interno lordo), la congiuntura sorpassa la questione del petrolio, e trascina con sé inflazione, recessione, chiusura di imprese, e razionamenti. Il sistema era sotto stress ormai da tempo. In Europa, e altre regioni, i dilemmi sono incrementati, dovuto al fatto che dopo anni di introiti in calo, gli investimenti in greggio e gas si sono contenuti, con il risultato di limitazioni negli approvvigionamenti. In aggiunta, una porzione dell’elettricità proviene da fonti discontinue, come la solare e l’eolica. Le problematiche indotte dalla pandemia Covid-19 hanno imposto ulteriori pressioni su volumi e importi e, nel 2021, e all’inizio del 2022, i governi hanno iniziato a sovvenzionare le bollette delle famiglie.

Le sanzioni al Cremlino, combinate con la riluttanza dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec, per la sigla in inglese) a compensare la perdita di forniture dalla Russia, hanno dilatato le tariffe. Il circuito creditizio si è contratto, e con una ridotta liquidità per la compravendita, sia la domanda sia l’offerta hanno subito duri colpi, e il business dell’energia è diventato volatile. A fine maggio, il barile era già a 100 dollari, e il gas statunitense aveva toccato l’apice dal 2008, raddoppiando il valore. L’incidenza sul paniere dei consumatori europei, per via dei trasporti, sarebbe più acuta se non fosse per due elementi: i lunghi e reiterati lockdown in Cina che stanno detenendo i flussi; e il provvedimento, in controtendenza storica, degli Stati Uniti, di aprire il rubinetto delle riserve strategiche, immettendo quantità senza precedenti. Si tratta, però, di circostanze provvisorie. Quando la Cina avrà arginato le recenti ondate di contagio, il suo fabbisogno si innalzerà, lievitando i costi.

Per di più, le sanzioni fanno registrare effetti secondari sull’ambiente e i poveri della terra. Il vecchio continente incetta le quote fruibili, in virtù della sua capacità di assorbimento e solvenza. Il comportamento accaparratore pone a repentaglio l’industria e l’agricoltura – i fertilizzanti vengono fabbricati con il gas naturale – di nazioni a basso reddito pro capita, soprattutto in Asia. Le costringe, oltre al resto, a fare ricorso al sostituto meno caro, malgrado contaminante, del carbone, per coprire le necessità vitali dell’apparato produttivo e della popolazione. Tuttavia, l’estensione della richiesta muove questo bene verso l’alto, mettendo in seria difficoltà stati, come l’India e il Pakistan, nel mezzo di eccezionali cambi climatici.

La crisi degli anni settanta invita a una comparazione e la possibilità di qualche lezione appresa. Se nell’attualità, il disegno unipolare di Washington incalza nella direzione dell’isolamento e la soppressione degli antagonisti dei propri interessi particolari, anche in quel frangente, controversie politiche dettarono la sospensione delle esportazioni, di sei membri dell’Opec, agli Stati Uniti e alcuni alleati, che avevano appoggiato la guerra del Yom Kippur, sferrata da Israele, contro Egitto e Giordania. In entrambi i casi, i governi hanno manipolato rapporti e operazioni mercantili sulla base di piani di ordine geostrategico e vigilanza di aree di influenza. Per arginare l’embargo, nel novembre del 1973, Richard Nixon creò un programma federale, incaricato di calmierare i prezzi e disciplinare l’erogazione di propano, olio combustibile, miscele per l’aviazione, diesel e distinti carburanti, con l’esito di un fiasco e il panico generale. Il persistente intervento dello stato, che ne seguì, finì per esacerbare la situazione, provocando stalli e ripetuti crolli.

Jimmy Carter liberalizzò il costo del carburante, processo accelerato da Ronald Reagan. Le amministrazioni dei decenni posteriori fuoriuscirono dalla gerenza dell’economia energetica, conservando un peso determinante in esplorazioni e concessioni, anzitutto nel Golfo del Messico e in Alaska, e la definizione di standard. L’applicazione di sanzioni, in opposizione a produttori concorrenti, è stata la grande, drastica, eccezione al paradigma. Nella globalità interconnessa, tale approccio ripercuote sul mantenimento del potere competitivo, essenziale per il buon andamento degli scambi, e la loro indipendenza, che ricade in migliori condizioni per i compratori. Al contempo, causa disparità tra paesi in stadi diversi della traiettoria di crescita, e derivato potere d’acquisto, ed espande la breccia della povertà.

Questi eventi possono dare indicazioni rispetto all’equilibrio da ricercarsi fra il lavoro del governo e l’autonomia del mercato. La fiducia nell’abilità di quest’ultimo ha apportato enormi vantaggi negli scorsi quarant’anni, con l’ampliamento dell’efficienza economica, che ha reso l’energia meno gravosa e più disponibile, permettendone l’impiego dove è improrogabile, perché vincolato alla sopravvivenza. Nonostante ciò, si sono rilevate alcune falle, che possono essere rimosse soltanto con l’esercizio delle funzioni pubbliche: l’insufficienza di porti o terminali, per attingere con celerità da ubicazioni addizionali, quando avvengano interruzioni di qualsivoglia indole, su un dato segmento; l’inesistenza di scorte adeguate, in gestione degli stati, molti dei quali in Europa; la carenza di installazioni e servizi confacenti per arrivare, in un lasso accettabile, a zero emissioni nette di Co2; la mancanza di incentivi, affinché le imprese private si uniscano alla sfida; e l’incipiente sensibilizzazione sociale sull’utilizzo responsabile.

I contesti integrati assicurano eterogeneità nelle opzioni geografiche e tecnologiche, ma ostruzioni e blocchi, che siano di origine naturale o politica, non sono né prevedibili né calcolabili, per tutelare il ritorno di oneri finanziari per infrastrutture, nel corto e medio termine. Neppure ci si può attendere che le compagnie si consegnino a una rivoluzione del settore che, nell’imminente futuro, le renderà obsolete, o le forzerà a complesse riqualificazioni, senza salvaguardie riguardo al capitale o, ancora, che abbraccino la causa, senza garanzie che si raggiungano gli obiettivi in un periodo predisposto. Il ruolo dello stato diviene, quindi, fondamentale per sostenere la sicurezza energetica, veicolare il passaggio all’energia pulita, e mitigare le minacce del clima, in consonanza con portatori di valori e prospettive differenti, e facendosi carico delle incombenze opportune.

Sono, infatti, indispensabili, per soddisfare le esigenze correnti, sia stabilimenti tradizionali, benché a ristretta impronta ecologica, sia di transizione, con misure di difesa degli azionisti; così come la riconversione di piante a idrocarburi, o la costruzione di idonee per il nuovo assetto energetico, basato su cattura del carbonio, biocombustibili o, per esempio, idrogeno e ammoniaca. Nella presente, e le prossime fasi, è nodale la pronta identificazione di componenti dell’industria del petrolio e il gas con potenzialità per un rapido adattamento, e di progetti versatili sul fronte della produzione e la distribuzione. Gli stati dovranno, inoltre, adoperarsi per regolamentare l’estrazione di minerali imprescindibili per la trasformazione energetica – litio, nichel e cobalto – che potrebbero trovarsi presto in scarsità e presentano criticità ambientali.

La tematica comporta un’altra prova per gli equilibri transnazionali: quella di procurare mezzi finanziari, a rischio controllato, per generare o trasferire energia, a circoscritte emissioni di carbonio, nei paesi in via di sviluppo, che hanno moltiplicato i consumi. Secondo l’agenzia intergovernativa dell’energia, almeno il 70 per cento degli investimenti dovrà essere realizzato in realtà emergenti, con il fine di non varcare la soglia pregiudizievole di riscaldamento atmosferico, entro il 2050. Non è un mistero il dato che il fardello grava in modo sproporzionato sulle spalle di quegli attori che hanno inciso in grado inferiore sull’inquinamento. Con +2 gradi centigradi di temperatura, 420 milioni di persone in più saranno costrette a vivere con ondate di caldo estremo e fino a 80 milioni di individui in più patiranno la fame. Le aree di massimo impatto saranno l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale e sudorientale. In tale forma, si preverrebbero gli azzardi scaturenti dalla rivalità con i paesi ricchi sull’accesso alle risorse, che finiscono per ripercuotere nelle aree della lotta alla criminalità organizzata e il terrorismo, la gestione di disastri e pandemie, e la risoluzione di conflitti di vario genere.

Se, come sembra, si irrobustiranno dinamiche di protezione nazionalistica, e trinceramento in blocchi tattici, si aprirà un’era di frammentazione, contraria all’orientamento che, dal 1973, ha favorito l’interdipendenza globale. Come se non bastasse, si ipotizza un picco di dispute territoriali, intorno a ricognizioni geologiche e sfruttamento di bacini idrici, fra le quali campeggia lo scontro per l’Artico, in cui sono coinvolti Stati Uniti e Russia. La politicizzazione di questa piazza, con la riduzione della facoltà di allocare le materie prime, dove sia utile o conveniente, altera i flussi di import-export. Non solo le imposizioni dirette, ma persino la diplomazia, si stanno frapponendo a decisioni che appartengono alle relazioni economiche, minando il credito del libero mercato e aprendo strada a una reazione a catena di ritorsioni.

Il duplice imperativo della sicurezza energetica e dell’azione sul clima va abbordato, in maniera olistica, con una postura bilanciata di stato e mercato. Mentre le deficienze del commercio possono essere colmate da politiche e stanziamenti pubblici, un mercato si mantiene sano, grazie a uno stato non ideologico, espressione di larghe coalizioni. Gli spasmi da guerra fredda, che continuano a essere il principale motore e interpretazione del mondo, invece, spingono nel senso di una disgregazione, disseminata da incognite e pericoli, nel momento in cui il pianeta potrebbe avvicinarsi a un punto di non ritorno.

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