L’8 settembre, 78 anni dopo

La fuga da Roma dell’8 settembre fu a mio avviso l’atto più condivisibile del lungo regno di Vittorio Emanuele III. Lasciando la città per Brindisi, che si trovava in territorio già occupato dagli alleati, evitò che i vertici del Paese cadessero in mano ai tedeschi, divenuti il nostro nemico.

Salvaguardò così un governo italiano che potesse interloquire con i vincitori del conflitto e avviare l’Italia verso una pace difficile da trattare, che tuttavia si ottenne, dopo la fine della guerra, in termini non umilianti.

Ben altre sono le vergogne di questo re. Anzitutto il quasi colpo di stato che avvenne quando, di nascosto, tradì la triplice alleanza e concordò l’accordo con inglesi e francesi che condusse alla tragica entrata nella Prima guerra mondiale. L’Italia fu partecipe di quella strage che rappresentò l’inizio della decadenza politica dell’Europa del XX secolo.

Altra infamia è stata l’adesione alle leggi razziali; non si trattava allora della persecuzione che ha portato all’olocausto, ma si creava comunque una gravissima discriminazione tra cittadini italiani, indegna delle conquiste sociali che il Paese aveva maturato anche sotto il fascismo.

Vittorio Emanuele non si può sottrarre nemmeno dalla corresponsabilità con Mussolini nell’entrata nella Seconda guerra mondiale, espressa non già dal tradimento di un’alleanza ma determinata dal desiderio di partecipare al bottino del vincitore.

Infine, sotto il suo regno si sono realizzate le diverse fasi dell’avventura italiana in Libia e in Etiopia. Nei due Paesi la presenza italiana si è caratterizzata per inaudita ferocia nella repressione delle forze militari di opposizione in Etiopia e dei tentativi insurrezionali delle tribù locali in Libia. Più che le opere pubbliche realizzate, i due Paesi ricordano la ferocia dei nostri generali.

Diversi sono i motivi che intaccano pesantemente la memoria di questo re e non mi sembra il caso di aggiungere quell’unica circostanza in cui, consapevole del ruolo di rappresentante del Paese, preferì l’umiliazione della fuga e l’accettazione, sia pure in modo disordinato, della sconfitta sulla quale poi si ricostruì la nuova Italia. La mia assoluzione sulla fuga non vuole ovviamente nascondere le gravi conseguenze che derivarono in quelle circostanze su Roma, divenuta città aperta; non credo però che la presenza del re e di un governo in rotta avrebbe cambiato le cose.

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