L’algoritmicità della condizione umana

Questa che segue è una riflessione intorno all’algoritmo ed alla condizione umana nel senso più gustosamente arendtiano che ho portato come commento ai testi affrontati per il mio esame di Filosofia Etico-Politica. Credo che avendo già riflettuto prima, sempre tra le pagine del blog della Fondazione Einaudi, intorno al metaverso ed alle problematiche emergenti da una regolamentazione algoritmica, questa ulteriore analisi possa risultare interessante.

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Il discorso vertente la possibilità che la condizione umana potesse interagire con una tecnica, ormai tecnetronica, pervasiva è quantomai anziano, e trova una delle sue più importanti declinazioni contemporanee nella riflessione arendtiana. In Vita activa (cfr. ivi, Bompiani, Milano, 2017, pp.34-39), H. Arendt sostiene, infatti, dapprima che la tecnologia si massificasse attraverso la globalizzazione del XXI secolo, come fosse non solo plausibile ma certo che le possibilità tecnologiche avrebbero portato ad una sorta di automazione dell’agire. In quest’istanza, vorremmo appunto – per quanto sinteticamente – occuparci proprio di questo: l’arendtianamente autentico agire viene preservato nell’epoca della tecnetronica, e se sì, in che misura?

L’analisi arendtiana della condizione umana – condotta sotto la lente della politica certamente, ma ciononostante fatta su misura dell’umano come tale – risulta interessante nella misura in cui assuma i tratti di una prospettiva storicistica dell’agire: questo non è quindi statico o stagnato in sé stesso, ma risulta vivo, dinamico, effervescente, a seconda delle categorie culturali strutturanti una certa configurazione sociale. Uno spartiacque fondamentale nella storia dell’agire è rappresentato da Galilei, e soprattutto dall’emersione dello strumento inteso come potenziamento delle proprietà sensibili dell’umano; questo potenziamento non solo permette una più completa conoscenza delle cose, ma permette un epocale distacco dal paradigma aristotelico dapprima reputato vicino all’infallibilità (cfr. op.cit., pp.275-290).

Un cambiamento di paradigma culturale, questo, che oltre ad aver introdotto nuove modalità d’approccio epistemologico, ha anche rimescolato le carte circa la condizione umana: se l’uomo si sentiva prima in potenza di una conoscenza corretta per come apriori costituito, ora sente che lo strumento invalidi quella sicurezza; il venir meno di questa tronfia presunzione, ha portato l’umano a doversi ripensare come tale. Di fatti, l’uomo agente, con l’introduzione dello strumento, diventa homo faber: l’uomo non agisce, ma produce; utilizza lo strumento in modo processuale affinché esso gli renda qualcosa. L’azione autentica, quella moralmente fondata ed eticamente determinata, sbiadisce, si illanguidisce, lasciando che un’opacità ossessiva di produzione irrigidisca la vitalità dell’agire.

Questo percorso storico-culturale ma soprattutto umanamente politico, porta infine al contemporaneo, dove, alla produzione, s’affianca il consumo, ed il lavoro, costituente una delle attività fondamentali dell’umano, diventa mero impiego. Attualmente, assistiamo addirittura ad una esacerbazione di questa tendenza: il progetto del metaverso, che intende trasportare gran parte delle attività fondamentali del quotidiano in un mondo virtualmente configurato, sta per realizzarsi e, per quelle che sono le sue premesse, rischia di candidarsi ad ulteriore spartiacque di paradigmi culturali. Non troppo remotamente è stato tentato un simile trasferimento[1], ma con scarsi risultati; credo ciò fosse dovuto dalla scarsa consapevolezza sociale della convenienza della tecnologia avanzata, ed al contempo dall’acerbità della tecnologia a disposizione. Quanto fu, quindi, un buco nell’acqua, oggi potrebbe seriamente rappresentare una rivoluzione paradigmatica non troppo dissimile da quella dello strumento nel XVI-XVII secolo.

Da ciò, emergono degli interrogativi prepotentemente impellenti; primo fra i quali, è necessario interrogarsi circa le modalità attraverso cui il metaverso sarà regolamentato. Le realtà social facenti capo all’azienda Meta – azienda che sta gestendo la costruzione del metaverso –, tra le quali Instagram e Facebook ma non solo, godono di una regolamentazione pervasivamente algoritmica. Dunque, appare lapalissiano che pari destino avrà il metaverso stesso. D’altronde, è da notare come anche la strutturazione stessa dell’attività nel metaverso, rispetto ai social di cui sopra, è ben differente: se sui social network si utilizzano dei nickname totalmente virtuali la cui massima interazione sta nei commenti, nei “mi piace”, e nei messaggi privati o di gruppo, nel metaverso l’individuo stesso come tale si materializzerà virtualmente con un avatar del quale potrà comandare le movenze. A patto che, ovviamente, si disponga del dispositivo hardware necessario. Una gestazione diversa da quella algoritmica, tanto conveniente nella sua matematicità e nella sua proprietà di calcolo computazionale, mi sembra alquanto insperabile.

Una domanda che penso possa essere ancora più interessante porci è la seguente: quale è davvero il senso del metaverso? La sua produzione, la sua fabbricazione, a quale desiderio dell’umano fa capo? Soddisfa una purchessia mancanza? Una plausibile risposta, ritengo convintamente possa venire dalla considerazione arendtiana dell’agire umano: quanto maggiormente angoscia, quanto più ha portato l’uomo a crogiolarsi nella ordinata e piacevole sistematicità del processo del fare, è l’aleatorietà dell’azione. Non tanto il metaverso come tale, ma il fatto che stia economicamente investendosi così tanto in questo, lasciandone come trasparire l’ineludibile necessità, è molto probabilmente il compimento finale del «[…]tentativo di eliminare l’azione a causa della sua incertezza e di proteggere gli affari umani dalla loro fragilità» (vedi op. cit., p.248). L’homo faber, dunque, in questo modo non solamente avrà la sua essenza nella produzione di altro-da-sé, ma si determinerà autenticamente nella coincidenza perfetta di soggetto ed oggetto: il prodotto della produzione è corrispondente al produttore stesso. Il movente è quindi che «[…]chi agisce non sa mai ciò che sta facendo e diventa sempre “colpevole” delle conseguenze che non ha mai inteso provocare o nemmeno ha previste[…]» (ivi, p.251).

L’introduzione della meccanica del processo, di una causalità dagli effetti prevedibili, allieta considerevolmente lo squassamento emotivo del quale soffre chiunque si trovi nella condizione dell’azione: una regolamentazione algoritmica di un mondo reale nella sua virtualità, porta ogni azione ad essere incapsulata in una linea di prevedibilità grazie alla quale si possono conoscere gli esiti di ogni scelta. Tanto quelli intenzionali, quanto quelli preterintenzionali. Sotto questo prospetto, si ha una circoscrizione del concetto di metaverso tutto sommato positiva: chi non ha mai desiderato di assolversi dalle responsabilità non intenzionali di quelle azioni che, invece, intenzionali lo erano? Il discorso non si esaurisce così, però: sarebbe bene anche domandarsi chi stia per intraprendere questo percorso di trasferimento – o forse di trascendenza. Quale umano sta passando in questa nuova realtà? L’attuale impalcatura sociale prevede delle evidenti discrepanze, delle forti minoranze, delle grandi tensioni, delle enormi problematiche strutturali: anche questo verrà trasferito? E se sì, come sarà regolamentato dall’algoritmo? Perciò: quanta democraticità può esserci in un calcolo semplicemente matematico delle possibilità? Se l’umanità si sposta, a spostarsi non è una quantità, ma una qualità: l’umano inteso olisticamente è ciò che viene mosso.

Dovremmo quindi interrogarci con una certa urgenza circa cosa si perda e cosa si acquisisca non tanto a livello di convenienza, quanto a livello di umanità intesa come natura umana: all’evidenza delle cose sbagliando, Arendt era sicura che, potendosi pure spostare su un altro pianeta, la natura umana sarebbe stata preservata perché, che potesse localizzarsi anche in un altrove sconfinatamente lontano, sarebbe stato solo un cambiamento di spazialità da un punto A ad uno B (ivi, pp.42-43). Al massimo, la modificazione avrebbe riguardato la condizione dell’umano, e non, ancora, la sua natura. È ancora vero ciò nella misura in cui la traslazione avvenga in universo la cui natura è essenzialmente virtuale?

Note

1: Stiamo facendo riferimento a Second Life, un mondo virtuale dal 2003 esistente, ideato dalla società statunitense Linden Lab.

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