La responsabilità del datore di lavoro per contagio da covid-19

Nell’affrontare il tema della responsabilità del datore di lavoro in caso di contagio da Covid -19 occorre una premessa, a mo’ di prooimion metodologico: le righe che seguono sono polemiche (perché solo l’ipocrisia mi risulta più indigesta dell’incapacità) e di non facile lettura (perché involgono questioni tecniche e – nonostante quello che vi hanno inculcato in anni di salotti televisivi con annesso plastico di una “scena del crimine” purchessia – il diritto è materia complessa). Insomma chi cerca unanimismo patriottardo e banalizzazione argomentativa si rivolga altrove.
La questione è persino risalente; dapprima l’art. 42/2 del D.L. 17.3.2020 (cosiddetto Cura Italia) e, di seguito, la Circolare INAIL n.13 del 3.4.2020 hanno disposto che, per amplissime categorie di lavoratori “nei casi accertati di infezione da coronavirus” l’INAIL stessa assicuri un indennizzo in automatico, qualificando in ogni caso l’evento quale infortunio sul lavoro.
Chi scrive, come d’abitudine in sguarnita compagnia, aveva sin da subito denunciato la possibile efficacia mortale (per le aziende) di una norma tanto mal congegnata. Son dovuti, tuttavia, passare due mesi e che se ne accorgessero i giornali (fino a quel momento pensosamente assorbiti dalle questioni derivanti dall’abbigliamento della giovane Silvia Romano) perché il tema facesse, in qualche modo, ingresso nel dibattito pubblico.
Meglio tardi che mai si dirà, purché si giunga in qualche modo all’abrogazione (atteso che nel frattempo il Decreto Cura Italia è stato convertito, nell’indifferenza generale, con Legge 24.4.2020 n. 27) che determini la cessazione dell’efficacia di una norma giuridica tanto scombiccherata.
Giammai, dapprima gli ineffabili burocrati dell’INAIL e poi il Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli ci hanno spiegato, non senza un certo sussiego, che non c’è bisogno di abrogare alcunché, poiché non è previsto “nessun automatismo tra infortunio sul lavoro e responsabilità”.
Insomma, ma cosa ci eravamo messi in testa noi soliti malpensanti? Occorre immediatamente rassicurare i nostri illuminati rappresentanti. Che il Decreto Cura Italia avesse introdotto non una presunzione semplice (come tale rimessa al prudente apprezzamento del Giudice), bensì una presunzione, pur sempre legale, ma relativa e non assoluta (che come tale non avrebbe ammesso prova contraria) l’avevamo capito da soli. Vien pure, ci si perdoni l’impudenza, da aggiungere che ci mancava pure che, per ciò che riguarda l’ambito penale, in presenza di una posizione di garanzia del datore di lavoro e, quindi, a fronte di una responsabilità ex art. 40.2 c.p., trattandosi di reato omissivo improprio, qualcuno avesse pensato di introdurre un invincibile pregiudizio probatorio degno del Malleus Maleficarum.
In definitiva, vi ringraziamo della spiegazione, ma ci era già sufficientemente chiaro. Da umile studioso del diritto penale, tuttavia, mi permetto di dare un’ulteriore informazione a coloro che tanto attentamente vigilano sulla salute nostra e delle nostre imprese. Che chi applichi rigorosamente le, pur cervellotiche e contraddittorie, regole poste a tutelare i lavoratori dal rischio di contagio fosse impossibilitato ad offrire la prova dell’adempimento alla propria posizione di garanzia non c’era venuto in mente neppure a fronte del situazionismo che pare connotare l’intera gestione governativa dell’emergenza sanitaria. Vi faccio, però, una confidenza: quella prova contraria l’imprenditore potrà darla nell’ambito di un lungo e, per lui, costoso procedimento penale, magari dopo aver subito il sequestro dell’attività e sarà una prova diabolica, stante l’impossibilità sostanziale di circoscrivere con certezza il luogo del contagio. Insomma, magari tra qualche anno (sempre che, vincendo le resistenze di un certo sindacalismo ultra-corporativo, i Tribunali prima o poi riaprano), gli imprenditori italiani avranno la possibilità di dimostrare l’assoluta correttezza del proprio agire; perdura una sola incertezza: chissà se per allora ci saranno ancora le aziende.
In conclusione, più che Cura Italia vien da dire Auguri Italia, a occhio ne abbiamo un gran bisogno.

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