Sessanta anni dalla scomparsa di Luigi Einaudi

 

1- Il concetto cardine. Luigi Einaudi è scomparso sessanta anni or sono all’età di 87 anni e mezzo. E’ stato un uomo dallo stile modesto e parsimonioso, che ha avuto un altissimo rilievo nel panorama degli studi economici, delle cariche istituzionali, dell’informazione (oltre la cattedra, utilizzava i giornali, i libri e le riviste). E non solo in Italia. Con un unico filo conduttore attraverso i decenni, chiaro, ragionato  e convinto: che il fulcro della vita di uno Stato è la libertà del cittadino, principalmente come indipendenza attiva nell’operare. Anche lui, è ovvio, era figlio della sua epoca, ma – va constatato, tanto più a distanza – senza restare chiuso nel clima che c’era in quell’epoca. Era  consapevole che la libertà vive nel tempo e che non può ridursi ad una concezione statica e teorica. Questa consapevolezza rende ancor oggi attuale l’insegnamento einaudiano, per tutti e in specie per i liberali.

 

 

2- Liberismo e liberalismo. Gli scritti di Einaudi mettono  fuoco una questione tuttora essenziale nel dibattito politico economico, particolarmente nel nostro paese: il liberismo non va confuso con il liberalismo e tanto meno considerato un suo sostituto.  Se per liberismo si intende una teoria economica autonoma, allora il liberismo è di per sé una teoria talmente disattenta al parametro libertà del cittadino, dal finire, o prima o poi, per non tenerne affatto conto; e dunque è un progetto  illiberale nei principi  e nella pratica. Se invece per liberismo si intende l’applicare nell’attività economica il principio liberale della libertà, allora il liberismo è solo un derivato del liberalismo, e perciò non può mai prescindere dal tener conto di continuo del parametro libertà di ogni cittadino, quale suo fattore determinante.

 

Capire ciò, significa cogliere il nucleo del pensiero  einaudiano. Nella vita, l’economia non è un mondo a sé stante e dipende anch’essa dagli impulsi di libertà emessi dall’iniziativa di ciascun cittadino. Fornire la garanzia che l’iniziativa economica privata sia libera (rendendo quegli impulsi di libertà effettivamente possibili) è tra le funzioni più importanti  dello Stato liberale e delle sue istituzioni.

 

3- Finalità delle istituzioni liberali.  Per Einaudi, tale funzione non può svolgerla né lo Stato   autoritario fascista né quello totalitario comunista. Ambedue asserviscono la libertà del cittadino, la prima incatenandola al conformismo del culto per il capo, la seconda dissolvendola nell’unica e compatta volontà del partito e della classe dominante. In più e in generale, quella funzione istituzionale non può essere svolta mediante politiche protezionistiche, che impediscono l’attivarsi diffuso della libera iniziativa individuale nei rapporti economici.

 

Peraltro  tale funzione non viene esercitata nemmeno dallo stato minimo né dallo Stato che guarda senza intervenire mai. Perché lo stato minimo è un sistema che pretende di stabilire a priori la quantità di strutture utilizzabili, quindi deterministico ed estraneo alla mutevole realtà composta da una miriade di umani diversi.  Mentre lo Stato che osserva senza intervenire mai, è un sistema analogo che resta indifferente anche quando le libere relazioni civili tra i cittadini vengono soffocate o con mezzi illegali oppure approfittando della mancanza di leggi e della loro inadeguatezza. E così facendo ostacola la decisiva spinta a fare da sé, diceva Einaudi.

 

Su tutti questi argomenti Einaudi è stato sempre coerente ed esplicito negli scritti e nei comportamenti. Tre esempi. Già nell’agosto del 1924, con due fondi sul Corriere della Sera, mise a nudo le gravi responsabilità del silenzio degli industriali acquiescenti al governo Mussolini all’indomani del delitto Matteotti. Un’acquiescenza che, dietro il motivo dell’evitare gli orrori del bolscevismo, portava  troppi industriali a prediligere l’olio di ricino, il manganello e la perdita della libertà di stampa, ritenuti un minor male. Circa i guasti indotti dal marxismo sulla libera convivenza, scrisse in molte occasioni per sottolineare che con il comunismo gli strumenti di azione economica non hanno una volontà propria, diversa e indipendente da quella dello Stato. Perché, precisava,  il comunismo non tollera ideologie concorrenti , che minerebbero l’indispensabile volontà unica del partito. E quanto al rifiuto dello Stato minimo e  non interventista, oltre ai testi scritti, è dirimente il suo comportamento.

 

Einaudi, nel periodo in cui esercitò effettivamente la funzione di Governatore della Banca d’Italia (tra il gennaio ’45 e tutto il maggio ’47), al fine di ripristinare il mercato, aveva liberalizzato l’impiego in Italia della valuta ottenuta dagli esportatori con le vendite all’estero. Ma applicò subito la sua convinzione nel settembre 1947 (quando era da poco più di tre mesi Vice Presidente del Consiglio, Ministro del Bilancio) in una serie di atti di intervento della mano pubblica dello Stato per bloccare l’inflazione che era divenuta galoppante. Che furono inequivoci (e definiti restaurazione capitalistica dal PCI). Quali la drastica  riduzione della quantità di moneta in circolazione, soprattutto congelando il 25 per cento di tutti i depositi bancari, ma anche aumentando sia la riserva obbligatoria che, per un terzo abbondante, il  tasso di sconto.

 

Quei provvedimenti  ottennero l’immediato  risultato di abbattere il tasso d’inflazione e di rendere stabile il valore della moneta. Il costo fu provocare sul subito una crisi nel finanziamento all’industria e un’ondata di licenziamenti. Però, rassicurati i detentori di stipendi fissi, si avviò il risanamento indispensabile per rilanciare la crescita con maggiori spese di investimento, senza pericolo dall’inflazione, per porre il mercato in grado di utilizzare gli aiuti del piano Marshall allora in corso di approvazione al Congresso americano. In pratica era la fornitura gratuita da parte USA (per un valore di 400 miliardi di lire dell’epoca) di frumento, di carbone, di combustibili liquidi e di quelle altre materie prime necessarie che l’Italia non era in grado di pagare con le sue esportazioni. Il Tesoro italiano, ricevendo il materiale, non lo doveva distribuire ma venderlo, versando l’intero ammontare ricavato in un fondo presso la Banca d’Italia, che il Parlamento ed altri organi incaricati avrebbero deciso come impiegare.

 

Tralasciando di approfondire il tema Piano Marshall, osservo peraltro che la sua accettazione fu principalmente una scelta di linea politica e non di tecnica economica. Il governo nell’insieme, De Gasperi ed Einaudi scelsero due linee precise. La linea di confermare l’adesione al modello di vita occidentale fautore della libertà del cittadino di esprimersi, di consumare, di accedere ai beni, che era un modello contrapposto al comunismo russo (non a caso una clausola del programma European Recovery Program – lo strumento operativo del Piano Marshall – autorizzava “l’ampia divulgazione di informazioni atta a sviluppare il sentimento di sforzo comune e di aiuto reciproco”). E l’altra linea di mettere in moto l’economia, modernizzandola (in un’intervista Einaudi disse circa l’utilizzo dei contributi ERP: “Il popolo italiano lo deciderà, ma esso dovrà necessariamente servire a opere di ricostruzione, ripristino delle ferrovie, dei porti, continuazione delle bonifiche delle strade, potenziamento e rinnovamento degli impianti industriali”). Dal ’47 al ’53 la crescita  del reddito nazionale fu del 58%, ossia del 9,6 all’anno. Una crescita del genere, spalmata nei singoli anni e con bassa inflazione, è un primato tuttora esistente e non solo per l’Italia. Nel complesso, Einaudi effettuò un tipico intervento pubblico non liberista, fondato su una cornice istituzionale adeguata all’utilizzo degli spiriti imprenditoriali dei liberi cittadini secondo le indicazioni del Parlamento. Del resto non poteva essere diversamente.  Per Einaudi “va confutata ancora una volta la grossolana favola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare”. Come liberale, ha sempre sostenuto che lo Stato è indispensabile  – sempre sino ad un punto critico – iniziando da due questioni che giudicava essenziali: la lotta contro i monopoli e l’uguaglianza nei punti di partenza tra gli individui.

 

 

4- Contro il monopolio. Il monopolio impedisce la concorrenza e quindi l’iniziativa individuale che è il motore della società (Einaudi afferma che “i due estremi monopolismo e collettivismo sono  ambedue fatali alla libertà”). Nella realtà economica quotidiana si possono formare, in via naturale oppure artificiale, concentrazioni di potere o per l’ammasso di merci o in relazione al formarsi dei prezzi. Da qui una fatale distorsione della concorrenza, che rende necessario un intervento dello Stato per rimuoverla (la lotta contro i monopoli “è uno dei principali scopi della legislazione di uno stato, i cui dirigenti si preoccupino del benessere dei più e non intendano curare gli interessi dei meno”).

 

Una simile caratteristica è distintiva dello Stato liberale, che evita di mantenere monopoli in proprio, ricerca vie alternative per dissolvere quelli formatisi naturalmente e smantella quelli che sono sorti artificialmente per abusi di legge o per una sua carenza, “siano monopoli dei datori di lavoro, siano dei lavoratori” (scrive che “la sola maniera logica di distruggere i monopoli  d’origine artificiale è di distruggere l’artificio”, e siccome “i monopoli devono ai dazi la loro origine, il rimedio è ridurre la protezione doganale, ridurre od abolire i dazi”).

 

Su questo tema è significativo che Einaudi, in piena coerenza, presentò alla plenaria dell’Assemblea Costituente un emendamento aggiuntivo  a quello che sarà l’art.41, per stabilire che “La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; e ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta”. Ebbene l’emendamento ricevette molti apprezzamenti, soprattutto dall’area DC, accompagnati però dal giudizio di essere superfluo, in quanto il suo principio era ricavabile da altre parti della Costituzione. Così, posto ai voti, venne respinto. Era il maggio del 1947. Così, per oltre 43 anni, mentre fiorivano i monopoli pubblici e privati, l’Italia non avrà una  legge antimonopolio. E quando venne varata la legge (n. 287/1990), essa recepì la legislazione antimonopolistica dell’Unione Europea (concerne  i fenomeni pregiudizievoli per la concorrenza, quali le intese, gli abusi di posizione dominante e le concentrazioni) e si pose in posizione subordinata rispetto all’UE, applicandosi la 287/90 all’Italia solo quando i fenomeni non incidano sulla concorrenza extranazionale. Dunque una norma varata quasi a forza e con molta cautela. Ad oggi, lo spirito einaudiano rimane abbastanza incompiuto.

 

 

5- Uguaglianza dei punti partenza. Il tema dell’uguaglianza dei punti partenza fu una proposta innovativa di Einaudi, in consonanza con il coevo progetto messo in campo in  Inghilterra da un altro grande liberale, Beveridge. Era la conseguenza del vedere il cittadino individuo come l’architrave della spinta umana ad andare avanti. Fornire ad ognuno un uguale punto di partenza è “una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini”. E questo, abbassando drasticamente l’importanza delle condizioni in cui ci si trova alla nascita, da rilievo alle specifiche qualità dell’individuo nel farsi strada  nella vita e nel contribuire allo sviluppo della società: “la gara della vita tra gli uomini non è leale se a tutti non sia concessa la medesima opportunità di partenza per quel che riguarda l’allevamento, la educazione, la istruzione e la scelta del lavoro”.

 

Naturalmente, Einaudi era ben conscio che il considerare l’individuo l’architrave della società implica varie conseguenze strutturali. Va garantita la libertà di iniziativa del cittadino, economica e di qualsiasi altro genere, e insieme va garantito il frutto di quell’iniziativa. In questa prospettiva, Einaudi insisteva sull’abolire il valore legale del titolo di studio, che fa un duplice danno. Induce lo studente a valutare più il certificato ottenuto che il formarsi davvero nella maturazione critica, e spinge i corpi accademici ad abbassare il livello di contenuto dei titoli dottorali rilasciati per aumentare il numero degli iscritti. Quando invece “la scuola di stato si salva e progredisce nella libertà”. In campo strettamente economico, tale prospettiva richiede di cominciare dal divenire il proprietario del frutto dell’iniziativa presa e dal goderne il profitto ricavato. Perché “il profitto è il prezzo che si deve pagare perché il pensiero possa liberamente avanzare, perché gli innovatori mettano alla prova le loro scoperte, perché gli intraprendenti possano continuamente rompere la frontiera del noto, e muovere verso l’ignoto ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità”. Tra l’altro, quei profitti derivanti dalle iniziative di tutti i singoli cittadini, sono il nerbo dell’utilità sociale nella convivenza. E inoltre, il considerare l’individuo l’architrave implica pure la conseguenza di dover sempre preoccuparsi che chi resta troppo attardato possa rientrare nel meccanismo attivo dell’esprimere sé stesso in qualche modo. Cosa che si attua capendo il perché dell’attardarsi e proponendosi di curarlo con provvedimenti coerenti all’esprimersi individuale nel convivere.

 

Per Einaudi, una simile attitudine a sostenere il cittadino al fine di metterlo in piena condizione di adempiere al proprio ruolo, è l‘opposto di un provvedimento assistenziale. E’ una chiave dinamica per consentire a ciascuno di esprimere la propria miglior capacità di fare. Pertanto, nel costruire la rete attuativa, va evitata ogni impostazione che possa incentivare  nel cittadino – in quello interessato e negli altri – la cultura del disinteresse operativo, della scarsa responsabilità civile, se non perfino dell’abbandonarsi all’ozio (tanto a lavorare ci pensano gli altri).

 

 

6- La lotta e l’equilibrio. Nell’insieme, la proposta einaudiana esprime una logica del tutto diversa da quella di dare allo Stato il compito di assistere il cittadino favorendone la pigrizia. In Italia, invece,  la logica dell’assistenza rassicurante è stata il ritornello delle politiche sociali del mondo politico cattolico e di quello socialista marxista. Ciò è  avvenuto perché è divenuta predominante, specie attraverso i mezzi di comunicazione, la cultura anti individualista,  sostenitrice che ogni umano è  uguale ben oltre i propri diritti costituzionali. Questa cultura, al di là delle intenzioni di chi la pratica, produce il ristagno dei rapporti del convivere (poiché l’effettiva realtà del mondo è la diversità di ciascun essere umano, salvo appunto lo sforzo istituzionale di dotare ciascuno di uguali diritti costituzionali). Da qui l’insistenza di Einaudi perché lo stato liberale si preoccupi di garantire l’uguaglianza giuridica dei cittadini, ma insieme intervenga con il tessere una rete finalizzata a consentire ad ogni cittadino di esprimere le proprie idee e di avviare le proprie iniziative economiche. E’ evidente che l’obiettivo non è arrivare a rendere tutti uguali nei meriti, nei beni e nei servizi (cosa impossibile perché cozza contro la realtà concreta del mondo e degli umani) , bensì ottimizzare il contributo di ogni cittadino. Einaudi rifugge l’assistenzialismo che alimenta la propensione al parassitismo (oltretutto livellando verso il basso) e punta a creare le condizioni per far esercitare al meglio le capacità insite nella diversità individuale. La socialità einaudiana non incatena il cittadino, ma fluidifica le relazioni aperte tra i cittadini per valorizzare l’operato di ciascuno.

 

Una simile concezione delle relazioni tra i cittadini è il modo più adatto a corrispondere alla realtà del mondo concreto.  Perché l’esercizio della libertà è il metodo più efficace per ampliare la conoscenza delle cose e dei rapporti interpersonali. Non per caso, nel 1921, nell’aula del Senato Einaudi affermò “ le lotte del lavoro sono feconde; e che non le lotte e le discussioni dovevano impaurire, ma la concordia ignava e la unanimità dei consensi”. E nel 1925, nella prefazione all’edizione curata da Gobetti dell’opera di Stuart Mill “On liberty”, Einaudi scriveva che “conformismo, concordia, leggi regressive degli abusi della stampa sono sinonimi ed indice di decadenza civile. Lotte di parte, critica, non conformismo, libertà di stampa preannunciano le epoche di ascensione dei popoli e degli Stati”. Esaltava il vantaggio della discordia, facendo così emergere il senso vero delle regole del convivere date dalle istituzioni liberali: rendere possibile, depurandolo dal ricorso alla forza fisica, il conflitto tra le idee, le iniziative e gli interessi di ogni cittadino. Regole che costituiscono il metodo cornice. Perché l’esperienza storica ha mostrato, diceva, che i vincoli posti dal legislatore sono efficaci  solamente quando non  sono arbitrari. E’ indispensabile compenetrare i termini dei problemi. Detto altrimenti, si deve conoscere per deliberare. Allora, nel rispetto di quella cornice, sono fisiologici la discordia e il conflitto tra proposte differenti per metterle alla prova. Einaudi  riassumeva questa caratteristica nel concetto di bellezza della lotta.  La vita non è mai statica e i suoi equilibri non possono mai essere prestabiliti a tavolino.

 

Non per caso Einaudi indicava quattro caratteri dell’equilibrio. Primo “è preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore”; secondo “perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato ad ogni istante di non durare”;  terzo “l’equilibrio consiste in una successione di continui mai interrotti perfezionamenti, attraverso a oscillazioni, le quali attribuiscono la vittoria ora a questa, ora a quella delle forze contrastanti”; quarto “la natura umana è cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita”.

 

Per agevolare il crearsi nella convivenza di un equilibrio rispettoso di quei quattro criteri, le istituzioni non  dovrebbero mai intervenire andando oltre un punto critico. Quello di non indebolire la libertà del cittadino. Il che avviene quando lo Stato fuoriesce dal proprio ambito pubblico per  invadere senza motivo quello individuale, trasformando il cittadino in suddito (ad esempio quando il numero eccessivo degli impiegati e dei pensionati pubblici spinge fatalmente ad una minore reattività civile) . Mantenersi entro  il punto critico, è più agevole quando chi governa è consapevole di non volerlo superare. Questo era in sostanza il motivo per cui Einaudi dava importanza all’impegnarsi perché si  formino di continuo classi dirigenti. Servono a costruire il buongoverno dello Stato, dato che lo Stato esiste per dare buoni servizi ai cittadini e non come strumento di potere pubblico. Diceva che la maggioranza si fa orientare da una minoranza informata che ne conosce i bisogni e li rappresenta a livello decisionale : ” Lo stato rappresentativo è fondato sull’esistenza di forze indipendenti e distinte dallo stato medesimo: resti di aristocrazia terriera, classi medie che traggono la loro propria vita dall’esercizio di industrie, di commerci e di professioni liberali, rappresentanti di operai organizzati di industrie non viventi di mendicità statale”. Einaudi riconosceva che “i grandi filosofi, i saggi ed i virtuosi di ogni tempo hanno  il potere morale e talvolta sono assai più potenti di coloro che detengono il potere politico. Costoro compongono la classe eletta” . Peraltro la classe eletta non doveva mai scadere nell’autoreferenziale poiché la decisione dell’indirizzo non può che appartenere alle valutazioni dei cittadini.

 

 

7- Alla Consulta Nazionale e all’Assemblea Costituente. Il suo bagaglio intellettuale di dottrina e di esperienza liberali, Einaudi lo adoperò alla Consulta Nazionale (dal settembre ’45 alle elezioni per la Costituente) e poi all’Assemblea Costituente (dal 2 giugno 1946 al 31 dicembre 1947). In tutti quei mesi Einaudi, per la sua collaudata professionalità economica, era Governatore della Banca d’Italia. In quella veste venne nominato alla Consulta (composta da 400 Consultori quale espressione delle forze vive del paese, di tutte le esperienze e di tutte le competenze) mentre nell’Assemblea venne eletto dai liberali.

 

Alla Consulta, oltre a prendere parte alla discussione sulla legge elettorale per l’Assemblea Costituente, si occupò dei lavori della Commissione Finanze e Tesoro in moltissime sedute e fu relatore per l’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sulle spese di lusso. All’Assemblea Costituente fece parte della Commissione dei 75 incaricata di predisporre il progetto di Costituzione che poi sarebbe stato definito nell’Assemblea plenaria. Dei suoi numerosi interventi nei due consessi, almeno alcuni vanno messi in evidenza per le questioni liberali di fondo che sollevano.

 

Intervenendo nella discussione sull’art.1 della Costituzione, Einaudi attirò l’attenzione sulla specificità del “rispetto della volontà popolare   e della sovranità popolare. Oggi effettivamente non c’è altra formula dalla quale partire, ma si tratta soltanto di una formula e non di una verità scientificamente dimostrabile. Essa appartiene al novero di quei concetti che si chiamano miti, che sono, in sostanza, formule empiriche, accettabili in vista di determinati scopi (per esempio: trovare il migliore governo, stabilire un clima di libertà, evitare qualunque tipo di tirannia) ma che possono anche cambiare”. Si tratta di un aspetto di rilievo per intendere in qual senso i liberali si affidano ai cittadini. Non adottano una teoria (immutabile per definizione) bensì  una valutazione critica dei fatti che, in quanto libera, può mutare in qualcosa e ha in questa possibilità il suo vero fondamento. Ovviamente questa notazione tipicamente liberale sfuggì, e sfugge ancora, a molti che sognano la sovranità popolare svincolata da quello che accade nella realtà, mettendola sopra ai fatti e senza vitalità (facendola divenire estranea all’essenza delle libere relazioni tra i cittadini).

 

All’art.4 Einaudi riuscì ad evitare un emendamento di Rita Montagnana (PCI) che voleva inserire le parole “un piano il quale dia il massimo rendimento per la collettività”.  Einaudi argomentò che nessuno conosceva il modo di sommare le utilità tra due individui diversi e che dunque  non è possibile sapere cosa sia un piano  indirizzato a dare il massimo di utilità sociale. Per di più, avendo già scritto prima nello stesso articolo 4  che ogni cittadino ha il dovere di svolgere una attività conformemente alla propria scelta, sarebbe  “logicamente impossibile di approvare altre parole le quali dicono che la scelta deve esser fatta da qualcun altro, che è lo Stato” . Inoltre Einaudi si disse  “contrario al principio generale dei piani complessivi da formularsi dallo Stato. Non abbiamo bisogno di piani complicati imposti dall’alto e di assurda applicazione. Le leggi di cornice che stabiliscono limiti all’iniziativa privata favoriscono sempre l’iniziativa individuale e fanno sì che questa possa svolgersi completamente; i piani generali dall’alto la mortificano….Sono non uno strumento di elevazione sociale ed economica, ma uno strumento di oppressione politica. Noi, che vogliamo l’elevazione delle classi lavoratrici, vogliamo conservare il principio della libertà di scelta e siamo contrari all’emendamento, che questa libertà di scelta logicamente e necessariamente nega”. Il richiamo riuscì nella forma ed evitò l’inserimento in Costituzione di un concetto dannoso. Ma i 73 anni trascorsi provano che la mentalità di quella proposta abortita continua ad albergare in molti, i quali, per cultura, sono restii ad affidarsi ai cittadini e preferirebbero la strada di governare dando tutto il potere ai dirigenti pubblici (per credo religioso od ideologico).

 

In materia di autonomie locali e di regionalismo (che nella Costituzione allora varata erano l’art.5, l’art. 114 e l’art.115), Einaudi era  un antico fautore delle autonomie regionali, da lui reputate (e per l’intera vita) “condizioni necessarie per rinsaldare l’unità nazionale”. Per di più , nel luglio del ’44, aveva scritto, sotto lo pseudomino Junius, un articolo sulla Gazzetta Ticinese in cui auspicava con decisione che si togliesse dall’ordinamento l’istituto del prefetto, introdotto dai Borboni e proseguito da Napoleone per comprimere le libertà locali . Riporto qui dei brani molto espressivi. “Il sistema prefettizio venne esteso anche a quelle parti d’ltalia, come le province ex-austriache, nelle quali la lue erasi infiltrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura. Democrazia e prefetto repugnano profondamente l’una all’altro. Non si avrà mai democrazia, finché esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto…. La classe politica non si forma tuttavia se l’eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l’opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l’eletto non è responsabile e non impara ad amministrare…… Il ministro dell’interno è il vero padrone della vita amministrativa e politica dell’intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l’iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l’approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali.  A volta a volta servo e tiranno dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l’esito delle pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.”

In un quadro simile, Einaudi segnalò nel dibattito alla Costituente la centralità del problema della finanza delle autonomie territoriali, in particolare delle Regioni. Per alcuni “il valore di Statuto per una Regione si deve ricercare nella Regione stessa. Ora, in sede di Consulta Nazionale, scrissi una relazione contro lo Statuto siciliano. È necessario che questi Statuti provengano direttamente da leggi che siano votate dal Parlamento. La formulazione data ai due Statuti per la Sicilia e per la Val d’Aosta, sta a significare che è distrutta l’unità italiana. Quelle determinate Regioni hanno manifestato chiaramente il desiderio di non pagare più una imposta allo Stato, pur desiderando riceverne tutti gli aiuti. Ciò significa la distruzione dello Stato italiano. Se si vuole affermare un simile principio, è necessario che sia discusso e deliberato dal Parlamento”.

 

La previsione einaudiana era stringente per dare un contenuto alla definizione di “Repubblica una e indivisibile” enunciata nell’art.5. Eppure, al di là della generica normativa costituzionale, le istituzioni non si applicarono a risolvere le concrete dinamiche finanziarie delle regioni. Così lo stesso Einaudi, a fine anni ’50 scriveva in riferimento all’esperienza delle Regioni a Statuto speciale,  che “il grosso delle entrate regionali è fornito dall’erario dello stato. Enti territoriali non vivono vita sana e feconda se non hanno entrate proprie, autonome nate e volute e patite dai contribuenti locali in aggiunta e non in sostituzione delle imposte statali…. Se regioni, provincie, comuni devono ricorrere ad entrate proprie, nasce il controllo dei cittadini sulla spesa pubblica, nasce la speranza di una gestione sensata del danaro pubblico. Se gli enti territoriali minori vivono di proventi ricevuti o rinunciati dallo stato, manca l’orgoglio del vivere del frutto del proprio sacrificio e nasce la psicologia del vivere a spese altrui”.  Non ci si era attrezzati  per capire cosa stava avvenendo. Così  nel 1960 Einaudi osservò in un fondo sul Corriere  della Sera che “dei risultati delle quattro esperienze italiane, il meglio si possa dire è che non se ne sa nulla. Il desiderio di luce pareva onesto e parrebbe necessario soddisfarlo quando si vogliano compiere nuovi passi sulla via della applicazione del principio regionalistico.. Non si sapeva nulla e si continuava a non sapere nulla”. Non solo. Non venne seguita l’impostazione di Einaudi per costituire un metro di comportamento nel legiferare in materia regionale. In pratica non si seguì neppure in seguito alcuna esperienza già maturata. Prima, nella seconda metà degli anni sessanta, venne varato l’ordinamento regionale previsto in Costituzione senza definire, ancora una volta,  praticamente niente  degli aspetti finanziari del nuovo istituto. Poi nel 2001, è stata fatta nella Costituzione una riforma dell’istituto regionale che ha moltiplicato le competenze delle Regioni (al punto di minare l’unitarietà della Repubblica) senza riferimenti sperimentali e previsioni operative.

 

In materia di rapporti Stato Chiesa, Einaudi era un cittadino istituzionalmente molto laico e personalmente molto credente. Ma prima di tutto liberale (“Lo stato liberale non è agnostico in materia di fede…. Quando lo stato si astiene dall’intervenire nelle controversie religiose e non vuole sancire la supremazia di una chiesa sulle altre, ciò fa perché sua dottrina è che al senso del divino possa elevarsi solo la coscienza individuale”). Per di più, all’inizio dei lavori della Costituente a giugno ‘46, il tema inserimento dei Patti Lateranensi in Costituzione non pareva così incombente come divenne nei mesi successivi in modo crescente. La Chiesa, intesa come gli alti ambienti della Curia, nutriva prima di tutto un forte interesse alla conferma dei Patti, alla stregua di un qualunque  strumento pattizio con altri Stati. Una conferma che avrebbe rassicurato il mondo cattolico (in particolare mantenendo i vantaggi concreti) anche nella nuova struttura politica del post fascismo. Nella DC la situazione era differente. Il clima politico era ancora fluido rispetto al compattarsi della  maggioranza interna che avverrà circa un anno dopo.

 

Vi era una corrente molto robusta, quella dei cosiddetti professorini, Dossetti, Fanfani,  Moro, La Pira, Lazzati, in parte Tupini (e forti collegamenti con Mortati),  giovani guidati dal primo che era già stato vicesegretario di De Gasperi. I professorini, forti anche di fitti rapporti con la Curia, avevano (soprattutto Dossetti) un preciso intento concernente la configurazione da dare alla Repubblica italiana. Avrebbe dovuto essere una società modellata con ampiezza sulle istanze religiose e su quanto implicavano, iniziando dal trascurare l’individuo a favore della comunità e della famiglia; perciò il Concordato non poteva essere considerato solo alla stregua di un Trattato internazionale. Naturalmente ognuno dei professorini conservava la propria personalità, ma insieme riuscivano ad essere molto influenti sul corpo DC; e in più va considerato che la parte dei costituenti laici era numericamente molto forte ma assai frastagliata in termini politico ideologici.

 

Così Dossetti, tra l’altro docente di Diritto Canonico, tesseva la rete curiale e parlamentare insistendo in modo quasi spasmodico per introdurre i Patti Lateranensi in Costituzione. Da parte sua Moro, nel suo stile avvolgente, rassicurava in Commissione dei  75 a fine ’46, che l’obiettivo della DC dossettiana era il mantenimento della pace religiosa, “nella certezza che saranno operati nel Concordato quei ritocchi che valgano a rendere i termini della pace religiosa perfettamente aderenti allo spirito liberale e democratico della nostra Costituzione”.  L’impostazione di Moro, ripetuta in seguito altre volte, venne ritenuta verosimile da Einaudi, anche perché De Gasperi, nel viaggio negli Stati Uniti all’inizio  gennaio ‘47, dichiarò  che “non credeva che i termini del Concordato sarebbero stati inclusi nella Costituzione”, andando oltre quanto aveva dichiarato Moro e avvalorandone la sostanza. Nella seduta del 23 gennaio Einaudi, preso  atto di quanto detto da Moro circa la futura modifica dei Patti Lateranensi, si disse disponibile al voto favorevole e esemplificò  usando il caso Buonaiuti. Lo definì “uno di quelli che hanno offeso di più la coscienza degli studiosi italiani. La scienza nel suo campo è per lo meno altrettanto indipendente e sovrana come la Chiesa e la religione e, quindi, quell’interferenza che vi è stata in quel caso dovrà essere eliminata attraverso una revisione bilaterale dei Patti Lateranensi”.

Nel frattempo, però, il quadro generale  andava modificandosi profondamente. Da un lato Dossetti aveva continuato nella sua ragnatela facendo inclinare la  Curia verso la richiesta di costituzionalizzazione da lui avanzata in Commissione di 75 e altresì ottenendo la massima disponibilità di Togliatti a votarla; dall’altro lato stava emergendo, nelle settimane seguenti gli avvenimenti di gennaio (il viaggio in America e la scissione nel PSI con la nascita dei saragattiani), che De Gasperi si stava preparando all’estromettere dal governo il PCI nel nuovo quadro della guerra fredda. Tutto questo favorì la convergenza della DC e del PCI –  per motivi in realtà contrapposti ma ambedue con l’intento di accattivarsi subito il sostegno della Chiesa e in prospettiva i voti dei cattolici – sulla tesi dossettiana del mettere in Costituzione i Patti Lateranensi. Questa convergenza  tagliò fuori le possibilità del grosso fronte dei laici.  L’esito scontato del voto indusse molti, tra cui Einaudi (ma anche Gaetano Martino), a non prendere parte alla votazione (Einaudi l’aveva fatto già nel 1929 quando il Senato aveva approvato i Patti Lateranensi), nonostante il forte discorso di Croce (“l’inclusione è uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico”). L’art.7 entrò in Costituzione, ma in seguito la modifica dei Patti Lateranensi non ci fu, nonostante che Moro fosse ai vertici della Repubblica per i trenta anni seguenti (il primo e insistente sollecito alla revisione venne dal Papa nella seconda metà degli anni ’60). Insomma, quelle dichiarazioni erano state un esempio genetico di  “democrazia parolaia”.

 

All’art.47, quello sul risparmio, Einaudi presentò un emendamento aggiuntivo (“A tal fine è garantito il rispetto della clausola oro”), sul quale vi fu un ampio dibattito, che fu gratificato da numerosi dichiarati apprezzamenti ma che alla fine non venne approvato. Einaudi illustrò con precisione il motivo molto realistico dell’emendamento: evitare il danno dell’inflazione per quanto possibile e mantenere in ogni modo un rapporto leale tra lo Stato debitore e il suo creditore. “I creditori hanno diritto di garantirsi contro le svalutazioni della moneta …… Quando si ha il diritto di pagare in unità monetarie nominali quelle sono promesse vane. Il solo contenuto concreto consiste nel consentire che tutti coloro che entrano in rapporto di credito verso privati, verso istituti o verso lo Stato, possano garantirsi contro il pericolo della svalutazione. La garanzia non può aversi se non scrivendo nella Costituzione il principio che la legge non possa mettere nel nulla la clausola oro, quando essa sia spontaneamente e volontariamente convenuta tra le parti…..È un articolo permissivo, è una disposizione non coattiva……Noi non dobbiamo pregiudicare con incerte promesse il risparmio, dobbiamo mantenere i nostri impegni verso tutti i risparmiatori indistintamente. Se noi lisciamo il pelo per il suo verso al capitalista, l’effetto che si ottiene (che è il vero effetto che noi vogliamo ottenere) è quello della riduzione del saggio di interesse……La clausola permissiva che io propongo non impone nulla allo Stato. ….. Ma, non ci vogliamo nascondere le sue conseguenze. Essa sarà un esempio per lo Stato; e sarà ben difficile che, una volta che essa si sia generalizzata, ci possano ancora essere privati, enti o lo Stato stesso, che possano sottrarsi all’obbligo morale di sottoporsi alla clausola permissiva. Il risultato dell’osservanza generalizzata della clausola sarà che i rapporti di credito e di debito istituiti entro di essa condurranno ad un saggio di interesse notevolmente minore del saggio di interesse per gli altri rapporti di debito e di credito istituiti in moneta nominale”. Qualora la restituzione nominale “valga  la decima o la ventesima parte di ciò che valeva all’atto in cui è avvenuta la promessa da parte dello Stato, è evidente che lo Stato solo per forma mantiene gli impegni suoi ed in realtà li viola. Non è assai preferibile invece che lo Stato apertamente dichiari che non è per il momento in condizioni di far fronte? Solo il debitore onesto, anche se impotente, conserva onore e credito. Allora soltanto lo Stato sarà un debitore onorato e i creditori serberanno fiducia in lui, ..quando lo Stato, in casi straordinari, dirà apertamente di non poter far fronte a tutti i suoi impegni e ne spiegherà le ragioni, lo Stato non perderà credito ma ne acquisterà…..Quanto più leale questa condotta di quell’altra ipocrita che si ha affermando di voler pagare, ed in realtà pagando in una moneta di dimensioni reali minori di quella convenuta.”.

 

La reiezione di questo emendamento di Einaudi mette in luce una tipica mentalità conservatrice, diffusa al centro, a sinistra e in ambienti dell’avvocatura. Al di là delle belle parole e delle promesse usate da chi governa le istituzioni, non esiste una considerazione effettiva del ruolo del cittadino e viene praticata l’abitudine  tendenziale di raggirarlo, che alla loro epoca gli stati assolutisti adoperavano di continuo. Per tale motivo non poteva venire accolta la proposta di Einaudi, che pareva tecnica ma introduceva un forte cambiamento politico nei rapporti tra Stato e cittadini, improntato alla trasparenza e alla valorizzazione del rispetto dovuto al cittadino dalle istituzioni. Alla luce del rifiuto della Costituente, sono semplicemente ridicole le accuse fatte solo qualche mese dopo ad Einaudi, divenuto Ministro del Tesoro, di perseguire con la svalutazione il blocco dell’inflazione a danno delle classi lavoratrici.

 

L’Art.81 è quello in cui è stata più forte l‘impronta  di Einaudi (ovviamente mi riferisco al testo della Costituzione del ’48 e non alla versione riformata nell’aprile 2012, che è molto distorta dal punto di vista einaudiano). Come noto, l’articolo tratta della legge di bilancio dello Stato ed Einaudi, intervenendo alla riunione  della seconda Sottocommissione dei 75, propose di introdurre un quarto comma in base ad una valutazione chiara. Disse che “l’esperienza ha dimostrato che è pericoloso riconoscere alle Camere tale iniziativa (in materia finanziaria), perché, mentre una volta erano esse che resistevano alle proposte di spesa da parte del Governo, negli ultimi tempi spesso è avvenuto che proprio i deputati, per rendersi popolari, hanno proposto spese senza nemmeno rendersi conto dei mezzi necessari per fronteggiarle. Così stando le cose, si prospettano due soluzioni: o negare ai deputati delle due Camere il diritto di fare proposte di spesa, ovvero obbligarli ad accompagnarle con la proposta correlativa di entrata a copertura della spesa, così che la proposta abbia un’impronta di serietà”. Sulla spinta di questo intervento, venne concordata tra lo stesso Einaudi, Mortati e Vanoni la dizione che diverrà, salvo ritocchi lessicali, il testo del quarto comma dell’art.81 nella Costituzione del ’48, formalmente connesso al comma precedente sul bilancio: “Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.

 

Per comprendere la portata distorsiva della riforma del 2012 in chiave einaudiana, è opportuno partire dal richiamare con ampiezza la valutazione dell’art.81 fatta dallo stesso Einaudi a dicembre del ’48 in una lettera al Ministro Pella. Dopo aver svolto un ragionamento analitico molto dettagliato, procede ponendo una serie di quesiti: “in tempi straordinari, ci si può contentare di un equilibrio formalmente determinato in un bilancio in cui il pareggio non esista. Si può, pur in siffatte circostanze straordinarie, dimenticare che se in un certo momento fu giocoforza al parlamento approvare un bilancio che fosse lontano dal pareggio, lo sforzo di tutti deve tendere verso la meta del pareggio?… Finché non si verifichi l’atto formale di una nota di variazione, la convenienza porterebbe infatti a trarre partito dagli incrementi naturali delle entrate per coprire le spese lasciate scoperte nel bilancio di previsione; intervenuto l’atto formale della variazione di bilancio, altra potrebbe essere la destinazione delle maggiori entrate medesime. Dipenderebbe, cioè, dalla volontà del governo e del parlamento di destinare le maggiori entrate a coprire il disavanzo di bilancio (silenzio) ovvero nuove o maggiori spese (nota di variazione dell’entrata).

 

L’articolo 81 della costituzione costituisce il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore costituente allo scopo di impedire che si facciano nuove o maggiori spese alla leggera, senza aver prima provveduto alle relative entrate. Quando il legislatore costituente ha introdotto nella costituzione una norma tanto giustamente rigida, è forse partito dal presupposto che essa potesse essere interpretata nel senso di lasciar perpetuarsi un disavanzo preesistente? Forse, a cosiffatte gravi domande, non si può dare una risposta perentoria, valida in tutti i casi. La soluzione da darsi al problema della utilizzazione degli incrementi di entrata non sembra che possa essere sempre la stessa. La norma posta dall’articolo 81 non vieta esplicitamente che l’incremento di entrata possa essere devoluto a coprire nuove spese; ma non obbliga a seguire siffatta regola.”

 

Si tratta di un tipico modo di ragionare di Einaudi, rigoroso nell’esaminare i fatti e nel proporre ipotesi di comportamento, e insieme consapevole a fondo che la realtà creata dalla miriade di cittadini può distaccarsi da ciò che in anticipo può apparire la  linea da seguire.  Il rigore praticato da Einaudi non è mai impositivo, proprio perché è liberale. Non confonde mai l’opportunità di praticare una valutazione, che di per sé sembra corretta, con la sicurezza che un’assemblea la pratichi effettivamente, tenendo conto anche di altri punti di vista   per giungere al frutto di una discussione aperta. Ed erano questi lo spirito e la logica dell’art.81 originario ispirato da Einaudi.

 

La riforma costituzionale del 2012 segue un registro tutto diverso ed assai lontano dal metodo liberale. Infatti,  con la riscrittura completa, il vecchio quarto comma viene eliminato. E’ sostituito da un quadro nel complesso molto più vincolante per il Parlamento, e in particolare da previsioni rigide, corrispondenti alla convinzione di poter definire per legge quale sia un comportamento virtuoso. Si pongono stringenti condizioni per ricorrere all’indebitamento (nuovo secondo comma), regole fisse per l’aspetto economico di qualsiasi legge (nuovo terzo comma), principi definiti con legge costituzionale per redigere il bilancio dello Stato, l’equilibrio nelle pubbliche amministrazioni e la sostenibilità del debito (nuovo sesto comma). A parte il fatto che a distanza di anni ancora mancano questi principi prescritti dal sesto comma, in ogni caso l’intero meccanismo economico risulta ingessato e contrapposto alla logica duttile di quello einaudiano.

 

E’ altresì necessario  sottolineare, seppure al volo, che ciò non è avvenuto per caso. La riscrittura completa dell’art. 81 è avvenuta in una stagione quasi drammatica delle condizioni economico finanziarie dell’Italia. All’epoca a livello europeo, siccome un forte debito pubblico nazionale non è compatibile con un mercato unico dotato di  moneta unica, si  scelse di varare  la cooperazione rafforzata in tema economico (Fiscal Compact). A parte che questa linea di liberismo rovesciato (dallo stato assente in economia, allo stato che fissa i comportamenti del mercato) tradottasi nell’austerità, in generale  non ha (era prevedibile) raggiunto in seguito i risultati voluti, in Italia si accettò questa impostazione realizzandola con la riscrittura di due articoli della Costituzione (perché non c’è solo l’art.81). E ciò pone un non piccolo problema di coerenza nella struttura istituzionale italiana quanto a libertà civile.

 

Di fatti la procedura di controllo del Fiscal Compact è istituita tra i paesi aderenti all’Euro con le regole di un trattato internazionale (non di quelle UE) e prevede un controllo della Commissione sul bilancio e sul debito degli stati membri Euro. Ora la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella carta costituzionale”, non solo ha riscritto l’art.81 ma ha anche aggiunto un primo comma all’art. 97 (“Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”). Il combinato disposto di queste due modifiche viene presentato come un richiamo al Fiscal Compact (e quindi alle sue norme circa l’equilibrio di bilancio) e vuol far intendere che tutte le pubbliche amministrazioni italiane sono sottoposte alle valutazioni ed interventi della Commissione previste nel Fiscal Compact. Però così non è. Il Fiscal Compact è un trattato internazionale della zona euro e che tra l’altro l’UE ancora non esiste come organica entità sovranazionale democratica. Dunque quel richiamo corrisponde ad un intento di spostare il governo economico dai cittadini ad istituti in mano a centri non controllabili agevolmente dall’opinione pubblica. Di conseguenza, a meno che non si persegua proprio il fine di non applicare la struttura giuridica italiana, le rigidità sopra segnalate come estranee ai principi einaudiani, riguardano solo l’eccesso di vincoli posti ai comportamenti politici nel paese e non possono dare alla Commissione UE poteri sovrastanti quelli delle nostre autorità nazionali attribuiti nella Costituzione.

 

 

8- Durante e dopo la Presidenza della Repubblica. Einaudi venne eletto Presidente della Repubblica (11  maggio 1948) al quarto scrutinio con il 57,6% dei voti (la maggioranza semplice la aveva avuta già al terzo), dopo che nei due primi scrutini erano restati lontani dal quorum il rinnovo di De Nicola e la  candidatura di Sforza, considerato troppo filo americano dalle sinistre e dai dossettiani. Eletto, Einaudi riconsegnò subito la tessera di iscritto al PLI in quanto incompatibile con il suo nuovo ruolo. Peraltro, nel suo discorso di insediamento, Einaudi richiamò in estrema sintesi i capisaldi delle sue convinzioni liberali.

 

Partì dalla questione istituzionale, ricordando che, come successore di De Nicola,  “ha usato ripetutamente  del suo diritto di manifestare una opinione, radicata nella tradizione e nei sentimenti suoi paesani, sulla scelta del regime migliore da dare all’Italia; ma, come aveva promesso a se stesso ed ai suoi elettori, ha dato poi al nuovo regime repubblicano voluto dal popolo qualcosa di più di una mera adesione. Il trapasso avvenuto il 2 giugno dall’una all’altra forma istituzionale dello stato fu non solo meraviglioso per la maniera legale, pacifica del suo avveramento, ma anche perché fornì al mondo la prova che il nostro paese era oramai maturo per la democrazia; che se è qualcosa, è discussione, è lotta, anche viva, anche tenace fra opinioni diverse ed opposte; ed è, alla fine, vittoria di una opinione, chiaritasi dominante, sulle altre”. Poi sottolineò l’importanza del ruolo del Palamento eletto dai cittadini: ”se v’ha una ragione di rimpianto nel separarmi, per vostra volontà, da voi è questa di non poter partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte, torto e ad accedere, facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi”. Infine riaffermò il senso dell’importanza del voto esteso a tutti i cittadini: “Il suffragio universale parve ed ancor pare a molti incompatibile con la libertà e con la democrazia. La costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida a questa visione pessimistica dell’avvenire”. E riaffermò i valori cardine  del suo pensiero: la Costituzione “afferma due principi solenni: conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza”.

 

Einaudi è stato definito dai non liberali il Presidente notaio. Non lo era affatto. Solo che esercitava il mandato senza enfasi e senza abusi, non anteponendo le proprie convinzioni sul futuro ed applicando le norme costituzionali con il distacco di chi ha il dovere di rispettarle. Perché Einaudi  non concepiva che il Presidente della Repubblica si sostituisse al Governo o al Parlamento (“la politica del Paese spetta al governo il quale abbia avuto la fiducia del Parlamento e non invece al Presidente della Repubblica”). Il  compito del Presidente è quello di vigilare che il Governo presenti disegni di legge conformi alla Costituzione.  Poi quello di valutare che siano conformi alla Costituzione le leggi votate dal Parlamento, rinviandole se le ritiene non conformi.  Pensava infatti che “i freni hanno lo scopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori”.

 

Come Presidente della Repubblica, rinviò quattro volte le leggi alle Camere perché deliberassero di nuovo. Due volte per violazione dell’ultimo comma dell’art.81 (mancata indicazione dei mezzi per far fronte a nuove spese), una volta perché si prevedeva  un accesso all’ordine giudiziario senza concorso (in violazione di quanto previsto dall’articolo 106), una quarta volta in relazione ai cosiddetti diritti casuali, cioè compensi al personale degli uffici dipendenti dai ministeri delle finanze e del tesoro e dalla Corte dei conti (perché un’ulteriore proroga di un sistema di compensi cui ormai occorreva  dare con urgenza un diverso assetto).

 

Con la medesima indipendenza di giudizio Einaudi nominò i Senatori a vita secondo l’art. 59 della Costituzione. Furono otto, tutti nomi di prestigio internazionale. Nel 1949 il matematico Guido Castelnuovo e il direttore d’orchestra Arturo Toscanini (che gli scrisse per dire di essere “costretto con grande rammarico a rifiutare questo onore. Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa”). L’anno dopo nominò lo scultore Pietro Canonica, lo storico Gaetano De Sanctis, l’economista Pasquale Jannaccone e lo scrittore Carlo Salustri (noto come Trilussa) che morì il dicembre seguente. Nel 1952, dopo la scomparsa anche di Castelnuovo, nominò il sociologo don Luigi Sturzo e l’archeologo Umberto Zanotti Bianco.

 

Quanto agli indirizzi politici usati per dare l’incarico di Presidente del Consiglio, Einaudi assecondò sempre l’impostazione  del Parlamento a maggioranza centrista nella prospettiva delle libertà occidentali. Per i primi cinque anni scelse sempre De Gasperi, finché, quando il VII governo dello statista trentino non ottenne la fiducia in parlamento (luglio ’53),  Einaudi, senza indicazioni da parte DC, dette l’incarico al democristiano Pella che varò un ministero monocolore di transizione. Nel gennaio successivo Pella si dimise per contrasti nella DC sull’indirizzo di governo in tema di rapporto con il Maresciallo Tito circa Trieste e sulla nomina a Ministro dell’Agricoltura di persona sgradita al capogruppo Moro e alla Coldiretti (nomina per cui il Presidente ribadì formalmente la propria esclusiva competenza ai due capigruppo DC, dopo averli convocati al Quirinale in un gelido incontro in cui li tenne in piedi). Einaudi dette l’incarico a Fanfani (che in partenza venne bocciato in Parlamento) e poi a Scelba che restò primo ministro fin dopo il settennato einaudiano.

 

Einaudi , durante la Presidenza, mantenne sempre equilibrati contatti sia con il mondo universitario e quello delle istituzioni economiche scientifiche di cui faceva parte sia con i direttori dei principali organi di stampa (sui quali esprimeva il proprio punto di vista personale ricorrendo a pseudonimi). Ovviamente inviava anche messaggi nella sua qualità di Presidente ( tipo quello inviato al Convegno sulla Resistenza  cui augurò “operosi e fervidi dibattiti del Convegno per l’esaltazione dei valori della Resistenza continuatrice degli ideali del risorgimento italiano”); comunque evitò in ogni modo di compiere atti che potessero configurarsi quali precedenti tali da non trasmettere al suo successore le facoltà del Presidente integre. In tal modo, nel privato continuò ad annotare con gran frequenza le sue osservazioni sugli avvenimenti politici, che per lo più pubblicò solo nel 1956 ne “Lo scrittoio del Presidente”, un libro in cui riprodusse molti di quelle osservazioni e da cui sono tratte diverse citazioni fatte nel presente articolo.

 

Nell’ultimo anno del suo settennato, accettò che venisse pubblicato, a cura di Ernesto Rossi (ma da lui riservatamente seguito), “il Buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954)”, che contiene un’ampia rassegna delle sue concezioni. Terminato l’incarico presidenziale e cessata l’incompatibilità (maggio 1955), Einaudi riprese la tessera del PLI  (del resto stava nell’area liberale già da senatore a fine del 1919 prima dell’avvento del fascismo, nel 1925 era stato tra i primi a sottoscrivere il Manifesto degli Intellettuali antifascisti di Croce e, su richiesta dello stesso Croce, nel 1945 aveva redatto le linee base del programma economico liberale). L’anno successivo, oltre a riprendere ufficialmente la sua attività  pubblicistica, si dotò di un proprio organo particolare, la rivista a dispense Prediche Inutili, aperta con il famoso pezzo “Conoscere per deliberare”. Scrisse di aver scelto il nome della rivista in ricordo del fatto che le sue prediche non erano mai state seguite dai governi Mussolini (aggiungo, anche sottintendendo l’alludere alla circostanza che nell’immediato il destino delle prediche liberali è quello di restare inascoltate). Con questi strumenti, durante gli anni ’50 Einaudi si espresse su varie questioni di rilievo politico ed economico. Oltre alle questioni dell’agricoltura (da lui sempre  molto seguite), vanno richiamati almeno due temi significativi: il rapporto tra liberali e socialisti e la partecipazione alle vicende del PLI.

 

Sul primo dei due temi, nel quarto numero di Prediche Inutili, Einaudi scrisse un articolo ampio e chiaro. Mise in evidenza che  i liberali e i  socialisti  “pur avversandosi non sono nemici, perché amendue rispettano l’opinione altrui: e sanno che vi è un limite all’attuazione del proprio principio….Sanno di collaborare ad un’opera umana, esaltando al massimo a volta a volta il principio della libertà umana o quello della collaborazione degli uomini viventi in società…La stabilità politica e sociale è minacciata solo quando venga meno il limite: e l’uomo liberale rinneghi totalmente la necessità della collaborazione degli uomini viventi in società o l’uomo socialista neghi  il diritto dell’uomo di vivere diversamente dal modo che egli abbia dichiarato obbligatorio”.

 

E specificò. “E’ vero che il pensiero è libero anche se la persona fisica langue nelle segrete del carcere; è vero che i martiri liberamente rifiutarono di prestare omaggio alla divinità dell’imperatore; ma è vero anche che la libertà pratica di operare, di discutere, di eleggere o di licenziare i magistrati chiamati a governare la  Nazione è negata di fatto quando gli uomini dipendono tutti per il procacciamento del pane quotidiano da un unico datore di lavoro. Il nome dato all’unico distributore dei mezzi di vita, sia esso lo Stato proletario o lo Stato degli eletti per grazia di Dio o per virtù di sangue, non ha importanza”.

 

Concludendo poi che “Il liberale è nemico del socialismo o del  comunismo integrale perché sa che, quando una volta la proprietà collettiva di tutti i mezzi i produzione sia stata decretata, agli uomini  sarà vietata, nonostante rivolte sanguinose, ogni possibilità di sottrarsi alla tirannia……Ogni passo compiuto sua via che va dalla legislazione cornice a quella dirigistica  è un passo verso la perdita della libertà. Nessun può dire in  generale quale sia il punto critico, al di là del quale si affaccia il pericolo…..Certo è che un punto critico, diverso da tempo a tempo, da Paese a Paese, esiste…..Se è vantaggiosa l’elevazione dei singoli, questa non può giovare se non si apprestino quei beni comuni di istruzione, educazione e sicurezza sociale senza i quali l’elevazione dei singoli  avrebbe luogo con disuguaglianza eccessiva a vantaggio dei più forti”.

 

Sull’altro tema, le vicende del PLI, nell’agosto del 1951 scrisse a Pannunzio considerazioni significative circa il dibattito in corso (relativo al documento varato il mese prima dal Consiglio Nazionale PLI) a proposito del Congresso dell’unificazione liberale di Torino (dicembre dello stesso anno). Einaudi riteneva confuse e vaghe le formule come “politica di centro”, “terza forza”, “contrasto fra partito liberal-conservatore e partito liberal-democratico”,  “destra e sinistra”. Einaudi non dava credito alle esortazioni  per un liberalismo ispirato a principi anche giusti ma che discute solo sul “luogo dove debbono situarsi i liberali”, al centro o a destra o a sinistra. Affermava invece che “occorre stabilire che cosa vogliono in concreto….. finché subiranno il complesso di inferiorità di non fare abbastanza quel che altri dice, andranno  in malora”.

 

Poi sei anni dopo, a dicembre 1957, Einaudi scrisse a De Caro, allora presidente del PLI, esponendogli una sua posizione molto netta e decisiva. “Caro amico, vedo che si discorre assai sui giornali di alleanze o intese fra i partiti collocati nella cosiddetta destra della Camera in vista delle elezioni generali. Io sono l’ultimo dei politici il quale abbia ragione di prendere parte ad una simigliante discussione. Pur appartenendo da tempo immemorabile al gruppo liberale, sono sempre stato negligentissimo là dove si discuteva e si deliberava tra gli appartenenti a quel partito.

 

Per aver ragione di discutere e di decidere intorno a problemi di politica quotidiana – prosegue Einaudi – fa d’uopo sopportare le fatiche, che io dico disumane, delle lunghe interminabili sedute, ascoltare con rispetto discorsi belli e buoni o mediocri ed inutili, esser l’ultimo a uscire dalla riunione, quando i pochi resistenti colgono l’istante propizio per far accettare un ordine del giorno non desiderato dai più, i quali a mezzanotte furono persuasi dalla stanchezza ad andarsene a casa.

 

Chi non ha la tempra paziente, chi non tollera le critiche maliziose e le insinuazioni e le male parole delicatamente dette dagli amici – scrive Einaudi – non faccia il mestiere del politico quotidiano; non abbia l’ambizione, che è legittima e necessaria, di essere ascoltato e seguito e lasci decidere a coloro che hanno le qualità, che sono di pochi, e sono degne di ammirazione e di invidia, necessarie per dominare un partito.

 

A te, che hai conquistato la fiducia dei liberali con la serenità del tuo volto sorridente e la bontà del tuo cuore, debbo domandare, tuttavia, venia se debbo chiederti che, ove in qualsiasi maniera il partito liberale si fondesse od alleasse o stipulasse accordi duraturi o provvisori, generici od occasionali con i partiti della cosiddetta destra, dalle varie confessioni monarchiche ai missini, tu voglia considerare chiusa la mia appartenenza, sia pigra e nominale, al partito liberale. Cordialmente tuo Luigi Einaudi”.

 

Ho riportato integralmente la lettera di Einaudi, perché è assai espressiva del suo modo di essere, schivo e al contempo determinato, non vanaglorioso. Lui che, nominato Senatore del Regno nel 1919, aveva preso parte attiva ai  lavori per tanti anni, nel 1928 aveva votato contro la legge per la lista unica alle politiche decisa dal Gran Consiglio e nel 1938 aveva votato contro le leggi razziali del PNF. Voti emblematici contro norme liberticide. In particolare il secondo, siccome quelle leggi  costituirono una vergogna indelebile, oltre che per il fascismo, per la persona regnante e furono la causa di fondo della violenza contrapposta che serpeggiò in Italia fino negli anni del dopoguerra, soprattutto al Nord.  Tra l’alto quella lettera è stata il presupposto della fermissima opposizione culturale del PLI malagodiano per oltre un quindicennio alle sollecitazioni a favore della grande destra, provenienti in modo insistente dall’Italia e dall’estero.  Einaudi  ha costantemente tenuti fermi i suoi principi di libertà. Che sono essenziali per coglierne l’essenza in tutte le sue facce così da rendere possibile che ciascun individuo possa manifestarla nelle relazioni del convivere nel mondo per agevolare il cambiamento nelle epoche.

 

 

9 – La federazione europea. La posizione di Einaudi sul tema Europa, pur essendo stata espressa con estrema nettezza, è percepita dall’opinione pubblica italiana come avvolta nella nebbia. Non si è consapevoli che Einaudi scrisse svariati articoli sull’Europa, da fine ‘800 a metà anni ’50. Sempre in un quadro molto professionale, da liberale e da economista, e sempre in un’ottica federalista. Scritti che sono molto legati alle esperienze possibili all’ epoca della loro stesura e ai quali mi riferirò di seguito.

 

Lo spunto iniziale venne dal riflettere sulla guerra mossa dalla Grecia all’impero ottomano con lo scopo di annettersi Creta, guerra presto bloccata con la forza dalle  sei potenze europee dell’epoca. Einaudi osservò che le sei potenze si erano comportate come se fossero una federazione unica. E ne dedusse che la differenza tra una semplice alleanza e un patto federale consiste nell’accettare le decisioni della maggioranza da parte di sovranità differenti (ed era la strada dell’Europa “attraverso cui si giungerà a poco a poco ad un punto in cui la maggioranza potrà imporsi alla minoranza, e questa ne accetterà i deliberati senza ricorrere all’ultima ratio della guerra”). Sul tema ritornò durante il primo conflitto mondiale, nel 1918, quando si pensava alla Lega delle Nazioni. E, riprendendo gli avvenimenti che avevano portato alla  Costituzione degli Stati Uniti, Einaudi concluse che allora il punto di svolta era stato l’accettare da parte degli Stati membri una forma di tassazione comune, che aveva consentito alla Confederazione di disporre dei mezzi per le iniziative da assumere. Quindi la Lega delle Nazioni, che era un istituto intergovernativo, non corrispondeva ad un intento federale. E ciò perché partiva dal ritenere intangibile la sovranità assoluta dei vari stati, che è la peggior idea possibile, funzionale solo al dominio e non alla libertà (“la verità è l’interdipendenza dei popoli liberi, non la loro interdipendenza assoluta”). Dunque perché il meccanismo della Lega delle Nazioni potesse operare, era indispensabile adottasse una concezione limitata della sovranità per sviluppare una cooperazione integrata tra le varie Nazioni partecipanti. Non avvenne (e Einaudi ebbe occasione di dire,  parlando alla Costituente, che “il vizio era chiaro: la Società delle Nazioni era una lega di stati indipendenti ognuno dei quali serbava intatti un esercito proprio, un regime doganale autonomo ed una rappresentanza sovrana sia presso gli altri stati sia presso la lega medesima. Era facile prevedere, come a me accadde di prevedere, che essa era nata morta “). Non per caso, nei successivi venti anni, la Lega delle Nazioni tese a dissolversi.

 

Einaudi scrisse il nocciolo delle sue tesi sull’Europa Federale durante l’esilio svizzero nel ’43-’44. La  caratteristica di questo nocciolo è che, in coerenza con il concetto di integrazione, tratta essenzialmente solo le materie che gli stati membri dell’Europa federale dovrebbero mettere in comune, al di sopra delle rispettive sovranità. Le materie erano il mercato unico con la libera circolazione di beni prodotti e materie prime; il non fare nessuna discriminazione in base alla nazionalità di beni e persone nei trasporti ferroviari, marittimi e aerei; la libertà di circolazione dei cittadini europei attraverso le frontiere; stabilire dei tassi di cambio fissi tra le varie monete europee per dar vita ad una sorta di moneta unica; un’amministrazione unica di poste, telegrafo e telefono così da facilitare al massimo le comunicazioni; condividere regole uniche per la proprietà intellettuale, i brevetti, le malattie contagiose umane, animali e vegetali; un commercio estero regolato dall’autorità federale con tariffe daziali verso i paesi terzi decise dal futuro Parlamento; una tassazione federale nei settori di competenza federale.

 

Prevedendo simili materie in comune tra gli Stati membri della futura Europa federata, Einaudi configurava un tipo di stato duttile, appunto una sorta di cooperazione integrata che favorisse l’esercizio della libertà dei cittadini. Per questo Einaudi auspicava di andare anche oltre le materie elencate e la necessità di abolire “la sovranità dei singoli Stati in materia monetaria. Se la Federazione europea toglierà ai singoli Stati federati la possibilità di far gemere il torchio dei biglietti, avrà compiuto opera grande”. Einaudi insisteva su questo punto da decenni.

 

Sulla questione Europa federalista ritornò nell’intervento a fine luglio ’47 durante il dibattito all’Assemblea Costituente per la ratifica del Trattato di Pace della Seconda Guerra Mondiale. Forse anche perché spinto dall’intervento di Croce da cui Einaudi prese le mosse. “Ho ascoltato con commozione ed ho riletto con ammirazione profonda il giudizio storico che Benedetto Croce ha pronunciato in quest’aula…. Vorrei tentare qui a guisa di appendice una ideale prosecuzione….. guardando non più al passato; ma all’avvenire. Invece di una magnifica pagina di storia conclusa, il mio sarà un informe tentativo di indovinare le logiche conseguenze odierne di quelli che furono i connotati essenziali delle due grandi guerre combattute in Europa nel secolo presente”.

 

Dopo questo inizio, Einaudi fece un esame dettagliato delle conseguenze delle due guerre mondiali e arrivò al  punto dell’Europa. “L’Europa che l’Italia auspica, per la cui attuazione essa deve lottare, non è un’Europa chiusa contro nessuno, è una Europa aperta a tutti, un’Europa nella quale gli uomini possano liberamente far valere i loro contrastanti ideali e nella quale le maggioranze rispettino le minoranze e ne promuovano esse medesime i fini, sino all’estremo limite in cui essi sono compatibili con la persistenza dell’intera comunità. Alla creazione di quest’Europa, l’Italia deve essere pronta a fare sacrificio di una parte della sua sovranità….Scrivevo trent’anni fa e seguitai a ripetere invano e ripeto oggi che il nemico numero uno della civiltà, della prosperità,  è il mito della sovranità assoluta degli stati. Questo mito funesto è il vero generatore delle guerre…. In un’Europa in cui ogni dove si osservano rabbiosi ritorni a pestiferi miti nazionalistici … urge compiere un’opera di unificazione. Opera, dico, e non predicazione… Non basta predicare gli Stati Uniti di Europa ed indire congressi di parlamentari. Quel che importa è che i parlamenti di questi minuscoli stati i quali compongono la divisa Europa, rinuncino ad una parte della loro sovranità a pro di un Parlamento nel quale siano rappresentati, in una camera elettiva, direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione fra stato e stato ed in proporzione al numero degli abitanti e nella camera degli stati siano rappresentati, a parità di numero, i singoli stati. Questo è l’unico ideale per cui valga la pena di lavorare…… La forza delle idee è ancora oggi la forza che alla lunga guida il mondo. Non è nel momento in cui quattrocento milioni di indiani riconquistano, col consenso e con l’aiuto unanime del popolo britannico, la piena indipendenza, che noi vorremo negare la supremazia incoercibile dell’idea. Un uomo solo, il Mahatma Gandhi, ha dato al suo paese la libertà predicando il vangelo non della forza, ma della resistenza passiva, inerme al male”.

 

Naturalmente Einaudi, oltre che sulla prospettiva dell’Europa federale, mantenne questo approccio di politica internazionale comunque improntata ai principi di libertà e di rispetto dei cittadini, anche sulla questione – centrale nel dibattito politico della seconda metà  ’48 e poi del ’49 – dell’intervento dell’Italia nel fondare l’alleanza militare occidentale, il Patto Atlantico (NATO, aprile 1949). Einaudi, nel frattempo, era già divenuto Presidente della Repubblica ma traspariva la sua convinzione che la natura del Patto in contrapposizione fosse  giustificata dalla necessità di compiere una scelta di civiltà imperniata su un evidente conflitto di idee sul principio di libertà, una scelta che non permetteva indecisioni o sfumature.

 

A maggio dell’anno successivo, 1950, il Ministro degli esteri francese, Schumann, lanciò la proposta di costituire una Comunità Europea del Carbone e dell’acciaio (CECA). Il trattato relativo venne firmato undici mesi dopo da Belgio, Francia, Germania occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi (una svolta di rilievo nei nuovi rapporti post bellici tra francesi e tedeschi), nella prospettiva di far sorgere  l’Europa dal creare una solidarietà di fatto. A fine giugno, lo scoppio della guerra in Corea nel quadro dello scontro Occidente-Oriente, provocò una corsa al riarmo anche in Europa, che per l’Occidente era un luogo molto sensibile vista la vicinanza alla Russia. Pertanto la questione del reintegrare a pieno titolo la Germania consentendole di ricostituire il suo esercito, divenne sempre più centrale per gli Stati Uniti e pure per l’Inghilterra. In particolare Churchill suggerì la formazione di un esercito europeo, democraticamente controllato e alleato dei paesi occidentali del continente americano. A fine ottobre del 1950, la Francia approvò il piano per la costituzione di un esercito integrato europeo (la Comunità Europea di Difesa, CED), con un unico bilancio, con un ministro della Difesa europeo, controllato da un Parlamento e  un Consiglio dei Ministri, composto dalle forze terrestri fornite dai sei della CECA per formare altrettante Divisioni, rafforzate se necessario dagli eserciti nazionali, salvo però quello tedesco. Dopo aver trovato un accordo con gli Stati Uniti, a febbraio ’51 venne fatta una conferenza a Parigi sull’esercito europeo,  cui presero parte i sei della CECA più altri sei osservatori tra i quali Inghilterra, Usa e Canadà. Le trattative per la CED proseguirono tutto l’anno,  mentre venivano varate la NATO e la CECA . Poi, a giugno , nelle elezioni politiche in Francia, arretrarono gli europeisti e crebbero i comunisti e i gollisti, ambedue diversamente ostili al progetto dell’esercito europeo.

 

In questo periodo i federalisti erano in auge in Italia. Principalmente perché avevano  stabilito un rapporto diretto con De Gasperi tramite un loro esponente di punta (Spinelli) e si erano incuneati in un quadro di fibrillazioni politiche della DC. Il partito di maggioranza relativa, sotto la spinta della sinistra guidata da Dossetti (ma influenzata anche da Gronchi), era  insofferente dello stare nella NATO e in generale della politica estera (e il Presidente del Consiglio era appena divenuto pure Ministro degli Esteri). I federalisti proposero a De Gasperi di collegare la creazione dell’esercito europeo al limitare le sovranità nazionali. E De Gasperi, dopo una visita a Truman, scelse di accettare la CED, però svuotandola quale alleanza militare per mezzo del creare suo tramite una Comunità Politica Europea (CPE). Così manteneva il suo atlantismo e assecondava le richieste francesi e tedesche, facendo insieme avanzare il progetto dell’Europa. In pochi mesi , De Gasperi  riuscì ad inserire nel testo del Trattato CED un articolo con cui si avviava la formazione della CPE per dare alla CED uno sviluppo di carattere federale con un organo rappresentativo eletto su basi democratiche. De Gasperi lo sottolineò, affermando che configurava “lo sviluppo di una comunità militare in una comunità politica”.

 

Dietro le quinte, Einaudi incitava a sviluppare sempre più tale politica (si può considerare certo che aveva contatti in merito con il Presidente del Consiglio). Il 2 giugno 1952 teorizzava simili concetti (che saranno pubblicati in seguito ne Lo Scrittorio del Presidente) discorrendo appunto di comunità europea di difesa. “Esistono unioni internazionali postali, unioni per la tutela della proprietà industriale, dei marchi di fabbrica, della proprietà letteraria. Gli stati aderenti in queste materie specifiche non possono più fare quel che vogliono, ma devono osservare certe regole comuni. Le unioni di questa fatta sono amministrate da tecnici, che il grande pubblico non conosce…. Giornali e parlamenti non si interessano dei modi in cui si regolano i conti tra le diverse amministrazioni postali o ferroviarie; cosicché, nessuno si accorge della diminutio capitis.

Vista la buona esperienza di un certo numero di unioni internazionali tecniche, taluno pensò: perché non fare un passo innanzi ed estendere il principio federativo un po’ per volta ad altre materie? E così sta attuandosi l’unione europea del carbone e dell’acciaio e, più grossa di tutte, si potrà attuare la Comunità europea della difesa.

Non bisogna dir male di sforzi che sono certo prova di buona volontà. Ad una condizione: che quegli sforzi non stiano a sé, ma suppongano ed implichino a scadenza prefissata e breve il passaggio alla federazione politica. L’oggetto delle vecchie unioni internazionali  era tecnico, non attinente ai compiti fondamentali dello stato; le nuove unioni sono una faccenda ben diversa: costano assai ed entrano nel vivo della vita di ogni nazione.

Se vorranno funzionare, la Comunità del carbone e dell’acciaio e quella della difesa dovranno ingerirsi altrettanto a fondo nella vita economica e sociale dei singoli stati. Il fatto che le persone poste a capo dell’ente si chiameranno «Autorità» e non «Consiglio federale dello stato del carbone e dell’acciaio» non cancella il fatto che in tal modo si è voluto creare un vero nuovo stato territoriale, con compiti limitati ad alcune poche    cose materiali.

Più vistoso e visibile sarà, se nascerà, il nuovo stato detto «Comunità europea della difesa» non foss’altro perché pochissimi sono abituati a pensare allo stato in termini di carbone e di acciaio; ma tutti hanno sempre reputato fondamentalissimo tra i compiti dello stato la difesa del territorio nazionale.” E qui Einaudi dava dettagliate e concrete spiegazioni in proposito. Continuando poi così. “Soltanto i soliti pasticcioni possono immaginare che, in un dato territorio, possano coesistere parecchi stati dotati tutti di poteri sovrani. Per necessità logica e pratica, chi accetta l’idea di un esercito comune, deve andare sino in fondo ed accettare la idea della federazione politica.

 

Quindi argomentava sulla necessità di cominciare dalla politica e non dall’economia.” Chi invece sia convinto che gli stati dell’Europa occidentale hanno necessità di stare uniti per difendere i propri ideali civili, la libertà di pensare e di scrivere e di predicare e di credere, è contrario alle mere alleanze provvisorie, comunque mascherate con denominazioni verbalmente federalistiche. Le Comunità del carbone e dell’acciaio, quella degli accordi verdi e sovratutto quella della difesa sono accettabili provvisoriamente solo come mezzo per attuare il concetto più vasto della federazione politica. È un grossolano errore dire che si comincia dal più facile aspetto economico per passare poi al più difficile risultato politico. È vero il contrario. Bisogna cominciare dal politico, se si vuole l’economico. È vero che un unico mercato economico dell’Europa occidentale sarebbe un incommensurabile vantaggio per tutti. Gli stati europei odierni sono, economicamente, dei pigmei. Il loro territorio è troppo piccolo perché in essi si affermi una vera divisione del lavoro.” Einaudi faceva ora degli esempi dimensionali al riguardo. E poi affermava che “all’allargamento del mercato non si arriva senza dolore. Se il problema è posto al mero punto di vista economico, l’opposizione di coloro che preferiscono conservare il monopolio del piccolo mercato attuale piuttosto che affrontare l’incognita dell’adattamento al grande mercato federale sarà sempre potentissima…..Una unione doganale è un terremoto; ed i terremoti hanno sempre prodotto un qualche sconquasso.….Il mercato unico verrà poi, quando la federazione sarà attuata. Necessariamente, come detto altrove, l’esercito comune avrà bisogno di un bilancio comune, di imposte comuni, di un parlamento comune capace di deliberare le imposte comuni. Le dogane interne cadranno da sé…..” Ho riportato ampiamente l’articolo, non solo per fare intendere con chiarezza la tesi di Einaudi, ma anche perché, come dico fra poco, questo scritto è decisivo per coglierne la posizione negli anni seguenti.

 

Riprendendo il filo delle vicende politiche in corso, nell’estate avanzata del ’52, l’elaborazione dello Statuto venne affidata  all’Assemblea della CECA. E dopo mesi di compromessi, la spuntarono  i francesi, contrari a cedere sulla sovranità, e restarono sulla carta i propositi di costruire una Comunità politica sovranazionale. Comunque a metà marzo ’53, fu approvata l’ipotesi di statuto di una Comunità Politica Europea molto ridimensionata. Che corrispondeva ad un Trattato internazionale con una Costituzione. Rispetto alla CECA, nella nuova Comunità era previsto un ruolo del Parlamento  notevolmente maggiore, soprattutto per l’elezione a suffragio universale di uno dei suoi due rami. Il Parlamento avrebbe votato leggi e bilanci e unitamente al Consiglio esecutivo, avrebbe avuta  l’ iniziativa legislativa. Restava tuttavia la questione della ratifica nei sei paesi, da parte dei Parlamenti, del Trattato CED, da cui dipendeva la possibilità di arrivare alla CPE.

La questione si complicò presto. Sul piano internazionale,  la morte di Stalin allentò le tensioni della guerra fredda e per gli americani rese meno impellente la creazione della CED. In Italia ci furono le politiche e il quadripartito vinse senza ottenere il premio di maggioranza (7 giugno 1953). Si è visto che ciò portò al governo Pella, il quale, non avendo l’appoggio dei paesi alleati nello scontro su Trieste, a settembre pensò di usare la ratifica CED come arma di pressione per ottenerlo. Poi, a dicembre , alla Conferenza dei Tre Grandi alle Bermude, divenne esplicito il dissenso sulla CED tra USA e Francia, che dichiarava difficoltà per la ratifica in Parlamento. In Italia, sia con Pella che con Fanfani e poi con Scelba, si continuò ad asserire che la ratifica andava fatta, ma non veniva presentato alle Camere il disegno di legge relativo. E senza la ratifica della CED, non ci sarebbe stata neppure la Comunità Politica Europea.

 

Einaudi colse l’atmosfera e il 1 marzo del ’54 annotò (altro testo poi reso pubblico nello Scrittoio del Presidente) “Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli stati italiani della fine del quattrocento costarono agli italiani la perdita della indipendenza lungo tre secoli; ed il tempo della decisione, allora, durò forse pochi mesi. Il tempo propizio per l’unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente ad impedire l’unione; facendo cadere gli uni nell’orbita nord americana e gli altri in quella russa? Esisterà ancora un territorio italiano; non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare ad una assurda indipendenza militare ed economica.

 

Queste parole di Einaudi esprimono la considerazione appassionata di un federalista da sempre che temeva l’allontanarsi dell’obiettivo. Intanto De Gasperi, tornato ad essere segretario DC, non smetteva di battersi – con l’appoggio di PLI, PRI e PSDI convinti fautori della scelta occidentale – non soltanto contro le opposizioni (PCI e PSI contrari all’esercito europeo perché filorussi e MSI perché anteponeva la questione Trieste) ma anche contro le felpate ma solide ritrosie nel proprio partito (soprattutto nella sinistra e di Moro). In ogni modo, ad aprile indusse il Governo a presentare alle Camere la legge per la ratifica CED. Si avviarono le procedure parlamentari e De Gasperi, per  contribuire al massimo a tener vivo l’argomento, a maggio accettò di divenire presidente dell’Assemblea della CECA, posto di gran rilievo e  prestigio.

 

Nelle settimane seguenti, la situazione in Italia non cambiò sul tema ratifica CED. Da metà giugno De Gasperi fece votare, prima dalla Direzione DC e poi dal Congresso Nazionale di Napoli, documenti che sostenevano la necessità di ratificare il Trattato CED. Eppure, nella sostanza prevaleva l’idea di muoversi con calma così da attendere che fosse la Francia a ratificare per prima. Anche perché in Francia la situazione volgeva al peggio da questo punto di vista. Di fatti, a metà giugno si era insediato a Parigi il nuovo governo Mendès-France, incaricato di stipulare in poche settimane l’armistizio nella guerra in Indocina.  Mendès-France aveva la dichiarata intenzione di ottenere un miglioramento nel Trattato CED (eliminando la cessione di sovranità) e ciò prima del voto all’Assemblea Nazionale. De Gasperi continuò a premere sulla DC e a metà agosto ottenne, pur assente dalla riunione (scomparirà il giorno successivo), che fosse votato un documento in cui la Direzione confermava la CED quale strumento per “preparare la formazione di una Comunità politica, atta ad assicurare il progresso civile ed economico dei popoli europei e la pacifica coesistenza di essi con tutti gli altri popoli”.

 

La scomparsa di De Gasperi fu come un emblema del precipitare delle cose. La richiesta francese di miglioramento del Trattato CED venne prese in esame nella Conferenza di Bruxelles ma Mendès-France non volle che venissero fatte modifiche. Così, restato immutato il testo del Trattato CED, il 30 agosto ’54 Mendès-France lo presentò all’Assemblea Nazionale senza porre la fiducia. L’Assemblea Nazionale votò (55% dei voti) una mozione procedurale che rinviava la discussione sul Trattato senza fissare la data per riprenderla. Ovviamente non venne mai ripresa. E subito dopo anche l’Italia interruppe la procedura di ratifica. La vicenda CED si chiuse allora.

 

Tuttavia non terminò la vicenda politica dell’Europa. Come ho ricordato in un mio articolo pubblicato qualche mese fa su Libro Aperto (“L’esperimento Unione Europea”), due settimane dopo il voto del Parlamento di Parigi, in Italia divenne Ministro degli Esteri (proveniente dal Ministero della Pubblica Istruzione con un rimpasto) il liberale Gaetano Martino. Al cambio di ruolo ministeriale, non venne attribuito  un significato particolare, salvo la volontà del Ministro dimissionario, Piccioni altissimo esponente DC, di voler evitare il clamore dello scandalo contro il figlio (che si rivelerà montato).  Negli ambienti del PLI al più si osservava che la DC aveva applicato la saggezza curiale e si era ripresa la decisiva cura del mondo scolastico.  Ma dopo quasi settanta anni, va detto  che il processo avviato da quel  cambio è stato talmente epocale, che è improbabile sia stato  fortuito.

 

Di fatti, Gaetano Martino, da liberale maturo, in appena otto mesi riuscì a riunire la Conferenza di Messina con gli altri cinque Ministri degli Esteri della CECA (1 giugno 1955), ampliò l’impostazione di Shumann e dopo tre giorni di confronti tesi (nei quali è presumibile si basò sulla convergenza  con il belga Paul Henri Spaak, socialista, il cui zio materno era il leader dei liberali belgi), ottenne una dichiarazione (Risoluzione di Messina) improntata ad una logica del tutto differente da quella federalista, perché indicava un’Europa a passo a passo, iniziando dalla vita economica quotidiana. Il che corrisponde in modo realistico alla concezione liberale. I risultati di questa nuova logica si videro, robusti ed effettivi. A cominciare dalla firma a marzo 1957 degli storici Trattati di Roma della Comunità Economica Europea, dai quali è nata l’attuale Unione Europea.

 

Einaudi non scrisse più niente (che mi sia noto) in materia di federalismo europeo, né all’epoca della Conferenza di Messina né in seguito. Peraltro ritengo che, a parte la comprensibile disillusione umana per il tramonto del sogno federalista nella forma pensata da decenni,  ancor oggi vada confermato il valore della idea federalista di Einaudi di matrice liberale. Al contempo, prendendo atto che sulla questione Europa si è sperimentata un’ulteriore necessità che Einaudi non aveva valorizzato. Vale a dire che il configurare un’istituzione nel segno della libertà  presuppone in modo inscindibile che quell’istituzione sia accettata dai cittadini destinati a farne parte. La convinzione razionale, anche nel caso sia in sé del tutto fondata (come nella fattispecie), non è sufficiente. Al riguardo è illuminante un articolo che Einaudi aveva scritto sul Corriere della Sera il 4 aprile del 1948, intitolato “Chi vuole la pace?”.

 

Vi esponeva la tesi che  era necessario “volere la creazione di un potere superiore a quello dei singoli Stati sovrani….E, badasi, il super Stato non può essere una qualunque Società delle Nazioni od anche una Organizzazione delle Nazioni Unite.   Come i fatti mi hanno dato ragione per la Società delle Nazioni, così oggi tutti si avvedono che l’O.N.U. non è efficace strumento di pace per il mondo. A che cosa serve una lega, una associazione, la quale deve ricorrere al buon volere di ognuno degli Stati associati per mettere a posto lo Stato malfattore recalcitrante al volere comune? Priva di forza propria militare, una società di Stati è fatalmente oggetto di ludibrio e di scherno.”  E si richiamo all’esperienza degli Stati Uniti. “ Il gran passo fu fatto quando la costituzione del 26 luglio 1788 ebbe cominciamento con le famose parole: We the people of the United States, noi popolo degli Stati Uniti, e cioè non noi tredici Stati ma noi «il popolo intero degli Stati Uniti», abbiamo deciso di fondare una più perfetta unione.

Vano è immaginare e farneticare soluzioni intermedie. Il solo mezzo per sopprimere le guerre entro il territorio dell’Europa è di imitare l’esempio della costituzione americana del 1788, rinunciando totalmente alle sovranità militari ed al diritto di rappresentanza verso l’estero ed a parte della sovranità finanziaria.

 

I concetti espressi fin qui nell’articolo hanno una perenne validità razionale in termini di libertà  effettiva. Ma per i liberali sono validi in quanto hanno una condizione di fondo implicita, che viene segnalata nel medesimo articolo di Einaudi. Il quale completa il testo rivolgendosi ai lettori: “Siete  decisi a dare il vostro voto, il vostro appoggio soltanto a chi prometta di dar opera alla trasmissione di una parte della sovranità nazionale ad un nuovo organo detto degli Stati Uniti d’Europa? Se la risposta è affermativa e se alle parole seguono i fatti, voi potrete veramente, ma allora soltanto, dirvi fautori della pace. Il resto è menzogna.” Ecco questo paragrafo prova che Einaudi, da liberale,  ritiene scontato  ricorrere al giudizio con il voto dei cittadini coinvolti (del resto, sta qui il senso profondo del superare una parte della sovranità dello Stato nazionale). Ma tale giudizio dei cittadini era proprio la cosa mancante nel caso specifico della proposta di Commissione Europea di Difesa, la CED (e i fatti mostrano che erano in molti a non volere la perdita della sovranità sull’altare dell’esercito europeo). Per contro proprio l’approccio del giudizio dei cittadini è sempre presente per sua fisiologia nella strada a passo a passo seguita a Messina e formalizzata con i Trattati di Roma: è pensata per legarsi all’attività economica quotidiana (che è propria del cittadino). E’ un approccio consapevole di dover operare nei tempi lunghi necessari ad ottenere il consenso della maggioranza dei cittadini.

 

Dunque non sta nel pezzo del ‘48 la mancanza concettuale in cui incorse Einaudi. Sta in quello del 2 giugno 1952 riportato sopra, che afferma la necessità di cominciare dalla politica e non dall’economia. Ricordo che aveva scritto “è un grossolano errore dire che si comincia dal più facile aspetto economico per passare poi al più difficile risultato politico. È vero il contrario. Bisogna cominciare dal politico, se si vuole l’economico”. Un’asserzione simile può essere fondata solo in particolari contingenze, tali da consentire il dipanarsi immediato del percorso più logico. Altrimenti, in generale, è sperimentalmente dimostrato che il risultato politico più difficile non si raggiunge subito partendo da  una decisione razionale e basta. Perché un aspetto della libertà del cittadino consiste nel riguardare una miriade di cittadini tra loro diversi. E non è affatto detto che tutti pensino e ragionino allo stesso modo in ogni attimo. Su un qualunque argomento si deve passare dall’esperienza per giungere a convergere della maggioranza su una scelta concordata. Ebbene, un simile aspetto venne dimenticato nella questione CED e nell’approccio dei federalisti all’Europa (da ricordare che, sul tema Europa, lo stesso errore venne commesso, durante la vita dell’Europa, anche nei decenni successivi, in particolare dalla caduta del muro di Berlino e fino al 2019). Questo fu in sintesi il percorso con cui, nel ’53 / ’54, si giunse alla mancata ratifica della Francia e dell’Italia del Trattato CED.

 

L’aver dimenticato di sollecitare il passaggio del giudizio dei cittadini, però, non scalfisce minimamente l’importanza del contributo concettuale e pratico che Einaudi ha dato per la battaglia federalista sul tema dell’Europa. Non è casuale che, a parte la dimenticanza concernente la procedura, gli scritti di Einaudi – anche solo quelli riprodotti nel presente articolo – abbiano indicato, spesso perfino con una precisione non comune, tantissimi contenuti che, nei decenni dopo il ’57, sono già entrati a far parte  materiale dei Trattati europei nel loro progressivo edificarsi. Di più, contenuti che è probabile ed auspicabile continueranno ad entrarvi per accrescere ancor più lo stare vicini alla primaria necessità dei cittadini di esprimere sé stessi nel vivere, mantenendo quella indipendenza senza cui non può esistere libertà.

 

 

10- I rapporti puntuti dei tre grandi liberali . 10a) Il motivo del presente capitolo. E’ particolarmente istruttivo riflettere sul rapporto tra le concezioni di Einaudi e quelle di altri due grandi liberali del ‘900, Benedetto Croce e John M. Keynes. Si tratta di un tipico rapporto utile non a stabilire quale rispettiva concezione possa prevalere, bensì a far cogliere aspetti ancora da risolvere della libertà nel convivere. Infatti, gli approcci dei tre grandi liberali non sono pienamente sovrapponibili e le differenze forniscono, ancora a distanza di decenni, indicazioni costruttive sul come  affrontare l’esercizio della libertà nei rapporti tra i cittadini che muta nel tempo.

 

10b – Einaudi e Croce. Per quasi un ventennio, a partire dalla seconda metà degli anni ’20, Einaudi ebbe con Croce scambi di opinioni piuttosto vivaci a proposito dei rapporti tra liberalesimo e liberismo (raccolti poi in un noto libro degli anni ’50). Croce tendeva ad esaltare il principio di libertà, più che a soffermarsi sul come realizzarlo. Esclusi liberismo e comunismo (“sono due ordinamenti irrealizzabili; la ragione è che sono tentativi di ordinamento totale della vita e della società umana”), sosteneva che  “la libertà come moralità non può avere altra base che sé stessa, e morale non sarebbe se fosse legata ad un dato economico…. il liberalismo ha bisogno di mezzi economici e politici,  che non possono mai essere fissati in certi mezzi ad esclusione di certi altri”. Per Croce, la libertà è  un’essenza spirituale che deve realizzarsi innanzitutto nella coscienza dell’individuo e che in questo senso prescinde dal contingente ordinamento della società. “Il promovimento della libertà è il criterio con cui (l’idea liberale) misura istituti politici e ordinamenti economici, in rapporto a varie situazioni storiche, a volta a volta accettandoli e respingendoli, secondo che quegli istituti serbino o smarriscano efficacia per il suo fine”. Perciò “l’idea liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo, con la proprietà privata della terra e delle industrie”.

 

Una posizione, questa, di pensiero alto che esalta la centralità della maturazione individuale nei processi di libertà. Però – rispondendo al problema di un’epoca passata quando non c’era abbastanza riflessione su un tale aspetto – non va oltre quel problema e resta disattenta al come promuovere la maturazione nella concretezza del convivere (che è il problema successivo, nascente all’epoca). Ciò causò a Croce l’accusa di essere un teorico passatista. E a far superare tale accusa non bastò il suo forte impegno, prima negli anni ’20 e ’30, con il Manifesto degli Intellettuali e con la rivista Critica che costituirono i fari dell’antifascismo liberale e non solo; poi in tutti gli anni ‘40 e fino alla morte,  l’attività in prima persona per la rinascita del PLI di cui era infaticabile assertore. D’altra parte, la prova sul terreno ha dimostrato che per la maturazione individuale è indispensabile sì sviluppare in ciascun cittadino la cultura della libertà, ma che su larga scala – quella del convivere – non è sufficiente se non si accompagna all’applicarsi in modo coerente a quali scelte compiere sui più importanti nodi della vita quotidiana. Il che rimane, ancor oggi, un insegnamento ineludibile per i liberali.

Einaudi concordava con Croce sull’idea che le varie forme di liberismo “si muovono nell’ambito dell’economia e non hanno un legame necessario con la visione liberale del mondo”. Ma sottolineava che “la libertà non è capace di vivere in una società economica nella quale non esista una ricca fioritura di vite umane, indipendenti le une dalle altre, non serve di un’unica volontà…..non derivanti dalla tolleranza dell’organo del tutto”. E concludeva “pare difficile scindere compiutamente l’idea liberale dallo strumento con cui essa si converte in azione operante…..”. “L’idea della libertà non informa di sé la vita dei molti e dei più se non quando gli uomini siano riusciti a creare tipi di organizzazione economica adatti a quella vita libera”.

 

Dunque, il distinguo di Einaudi con Croce è su quali possano essere questi tipi di organizzazione economica. Senza dubbio Einaudi è nel giusto: devono esserci. Ma constatarlo non consente di respingere le parole di Croce (riportate sopra) sui legami contingenti e transitori dell’idea liberale. La frase di Einaudi – “il liberalismo non può assistere concettualmente all’avvento di un assetto economico comunistico, come pare ammetta Croce” ­– traballa nel dimenticare gli insistiti attacchi di Croce al comunismo ma soprattutto sembra non cogliere il come siano essenziali (e coerenti) le parole di Croce secondo cui la libertà “misura istituti politici e ordinamenti economici a volta a volta accettandoli e respingendoli, secondo che quegli istituti serbino o smarriscano efficacia per il suo fine”. E ancor meno coglie il senso quando aggiunge che la tesi di Croce secondo cui “la libertà morale è compatibile con qualunque ordinamento economico, è vera per gli eroi, per i pensatori e per gli anacoreti” e non per le persone comuni, che hanno bisogno di “un ordinamento economico conforme alla loro esigenza di libertà”. Perché così Einaudi introduce una distinzione dal profumo classista, seppur vago. In effetti, il punto vero è che la libertà non è solo per le persone comuni, è per ciascun individuo (anche quando lui non ne ha piena consapevolezza). Per questo, l’inefficacia quanto a libertà di un istituto politico o di un ordinamento economico, va misurata nel  funzionamento che ne deriva, non è inclusa nel concetto di libertà. Perché il concetto di libertà include solo il criterio di massimizzare le relazioni rese possibili tra i singoli cittadini di un territorio con il praticare la libertà.

 

In generale Einaudi svolge argomentazioni assai giuste, ma, non soffermandosi abbastanza sul ruolo imprescindibile della libertà del cittadino in ogni momento pubblico (da qui i suoi comportamenti nella vicenda art.7 oppure nella procedura della CED), non poté evitare di essere frainteso nella pratica di vita circa l’aspetto che è il limite fisiologico del liberismo, cioè che l’economia non è di per sé sufficiente (appunto perché la libertà non è riducibile a proprietà privata, la quale è necessaria ma non sufficiente per la libertà). Non a caso, il fraintendimento è puntualmente avvenuto da allora e fino ad oggi, nonostante che gli scritti al riguardo dello stesso Einaudi siano espliciti ed inequivoci.

 

Tale dato sperimentato fa capire che tutti gli aspetti descrittivi della libertà sono inseparabili. Da quelli spirituali, al come trasmetterne l’idea, ai criteri per consentire di realizzarla, al realismo  nel valutarne i risultati in ogni luogo ed epoca. Perciò vanno declamati ma ancor più è indispensabile praticarli. Nel praticarli va peraltro tenuto conto che la vita politica delle relazioni reali tra i cittadini naviga nel mare della diversità. E che dunque è irrealistico pretendere una pratica assolutamente pura. In ogni attimo esistono di continuo valutazioni difformi tra i cittadini sul cosa richieda realizzare la libertà. Valutazioni che tendono a conciliarsi dopo aver sperimentato le scelte fatte, ma che assai spesso sul subito divergono. Non tanto perché non vi sia consenso sul concetto  di libertà, ma perché, siccome realizzare la libertà concerne il futuro per sua natura, il come farlo attiene al ramo delle previsioni circa la scelta adottata. E dunque contiene necessariamente margini di incertezza sul risultato.

 

In sintesi, mentre Croce è disattento al come promuovere la maturazione individuale su larga scala,  talvolta Einaudi propende a supporre che l’incertezza sul risultato possa non esserci: quando per realizzare la libertà ama adottare il criterio di scegliere la libertà esistente in una ben definita società di uomini liberi da lui stesso immaginata (quella degli uomini comuni bisognosi di un ordinamento economico libero). Solo che supporre che vi sia un solo modello di società di uomini liberi, contraddice il criterio di libertà. Insomma, nel mondo reale permane l’incertezza su come realizzare la libertà. E’ stato questo tipo di propensione a portare Einaudi a dare un giudizio negativo su Giolitti che vedeva gli italiani come erano e non pensava abbastanza al modo di farli divenire come avrebbero potuto essere (“non possedeva le qualità necessarie per attuare l’elevamento delle masse che era nell’aria e che egli professava ed intendeva far proprio” e faceva compromessi eccessivi visto che “la politica è fatta di compromessi, ma non di calata di brache”). Eppure la valutazione dei risultati del periodo giolittiano è assai positiva per  grandissima parte dei liberali e non solo per loro. Tant’è che perfino lo stesso Einaudi, negli anni ’50, riconobbe che i compromessi di Giolitti erano stati fecondi (e del resto l’epoca giolittiana è stata uno dei pochissimi periodi della storia italiana in cui si è realizzato quel Buongoverno che Einaudi ritiene la vera incarnazione del compito dello Stato liberale).  In ogni modo, dal balenare in Einaudi di una simile posizione piuttosto teorica in contrasto con il criterio reale di libertà, ci viene la riprova che quello della libertà non è un libro sacro da adorare ma una pratica di vita continua, stabile quanto ad obiettivo e in prospettiva, ma cangiante nella forma e nei tempi.

 

 

10c- Einaudi e Keynes. Einaudi apprezzò molto la capacità di scrivere di Keynes ma quanto all’economia – e fino al 1946 quando Keynes scomparve a neppure 63 anni – ebbe con lui un frequente  rapporto critico dal tono delle dispute accademiche in tema di rispettive concezioni. Ambedue erano liberali, quindi individualisti, sia per le dinamiche economiche sia per le politiche del convivere tra diversi (di Einaudi è cosa nota, di Keynes mi limito a ricordare la sua esplicita dichiarazione “l’individualismo, se può essere purgato dei suoi difetti e abusi, è la migliore salvaguardia della varietà della vita che emerge precisamente da questo campo ampliato di scelte, la perdita del quale è la perdita più grande dello Stato totalitario omogeneo”). Ambedue attribuivano rilievo alle esperienze passate (Einaudi ne fa il fulcro della sua dottrina economica, ma anche Keynes ha scritto alla fine degli anni ‘30 “ onoriamo più di prima le conquiste dei nostri predecessori e della civilizzazione cristiana e le leggi fondamentali di condotta che essi hanno stabilito in un mondo selvaggio”). Ambedue sostenevano il governo diffuso (l’uno, si è visto, reputava le autonomie regionali “condizioni necessarie per rinsaldare l’unità nazionale”, l’altro affermava che ”il nostro compito deve esser quello di decentralizzare e devolvere, ovunque sia possibile, senza sminuire il principio della sovranità di ultima istanza del parlamento”). Ambedue non erano contrari all’intervento pubblico in economia e sul fatto che, in certe circostanze, il mercato non possa riequilibrarsi da solo.   Ma sostenevano un approccio assai diverso al cosa fare in quest’ultimo caso. Un approccio più tradizionale Einaudi, sempre propenso all’innovazione Keynes (“soprattutto a parole” diceva Einaudi). Le differenze sono parecchio tecniche e per addetti i lavori ma hanno  un’essenza comprensibile per chiunque, dal momento che ambedue curavano molto la forma in cui diffondere il proprio punto di vista, adoperando termini discorsivi alla portata di ogni lettore. L’essenza della diversificazione è sul tipo di regole che occorrono e sul come arrivarci.

 

Per chiarire il dissenso, si può partire da quanto Keynes scrisse negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale (era un componente di rilievo nella rappresentanza inglese alla Conferenza di pace di Parigi)  sulle conseguenze economiche delle indennità di guerra eccessive imposte dai vincitori. Avrebbero portato la Germania al dissesto economico ed avrebbero provocato una seconda grande guerra. Questa tesi (che, quando divenne pubblica, Einaudi scrisse di condividere)  è stata confermata dalla storia. Il distinguo con Einaudi sorse sulla considerazione economica che se ne poteva trarre. Keynes ne concluse che l’imposizione di un’eccessiva austerità, magari per ragioni etiche, finisce per deprimere la domanda e l’occupazione, e quindi produce un risultato opposto a quello voluto. Einaudi invece sostenne che una simile deduzione non fosse generalizzabile. Di fatti, non era corretto estenderla da una situazione creatasi per una calamità tangibile – quale la guerra che aveva fatto saltare le normali regole di mercato – ad una situazione ordinaria, ove è indispensabile preservare le abituali regole di funzionamento del mercato (dato che al mercato non si possono imporre dall’esterno le regole per governarlo). Il dissidio si basa perciò sul riconoscere come e quando  si deve intervenire per evitare che il mercato non funzioni più.

 

Per Keynes il pericolo principale, a livello di società e quindi di mercato, consiste nel “ supporre che l’atto di un individuo, con cui egli si arricchisce senza portar via apparentemente nulla da alcun altro, deve anche arricchire la comunità nel complesso; cosicché  un atto di risparmio individuale conduce a un parallelo atto d’investimento”. Ragionando così “si fa apparire come identiche due attività essenzialmente differenti. …Che ci sia un nesso che unisce le decisioni di astenersi dal presente consumo con le decisioni di provvedere a un futuro consumo tramite un investimento; mentre i motivi che determinano quest’ultimo non sono collegati in alcun semplice modo con i motivi che determinano il primo”. Ne consegue – visto che per far funzionare il mercato gli investimenti devono essere in misura sufficiente da mantenere il pieno utilizzo dei mezzi di produzione – che occorre evitare  vi sia capitale inutilizzato.

 

Keynes afferma che il capitale risparmiato resta inutilizzato da parte del risparmiatore a seconda delle attese complessive, del reddito ottenibile, del tasso monetario di interesse e dell’efficienza marginale del capitale. Per riuscire a stimolare tali fattori, è necessario far sì che venga sempre sollecitata la propensione ad investire. La via è usare, per gli investimenti, risorse fornite dalle banche o da istituzioni pubbliche attivando così un maggior utilizzo dei mezzi di produzione e insieme ristabilendo il funzionamento del mercato con il rialzo dei prezzi. Dal  momento che il maggior impiego è sorretto dalla condizione di robusta domanda globale (creata in tal modo), non è rilevante il come venga utilizzato il risparmio fino ad allora inoperoso o quello delle risorse investite, bancarie o pubbliche. Tanto, al livello dei consumi non si creano dirigismi  e funziona il libero mercato dei consumatori. Il che innesca un clima economico  tranquillo, in altre parole il quadro adatto per attirare il risparmio già preesistente e per  rendere possibile accantonarne di nuovo. E ciò fino al ripristino del pieno utilizzo dei mezzi di produzione.

 

Einaudi prima di tutto ritiene che il risparmio inoperoso sia un concetto assai discutibile. Sia perché “l’esistenza di fondi disponibili tesoreggiati non deve farci supporre che di risparmio nel mondo ce ne sia a bizzeffe”. Sia perché quando esiste il risparmio inoperoso, non è per un blocco psicologico dei risparmiatori, ma perché nel mercato non sussistono condizioni favorevoli ad investire.  Per farle rinascere non serve limitarsi a  mutare problema da porsi. “Al problema della scelta, da parte di chi ha già deciso di risparmiare, fra il conservare il risparmio sotto forma di moneta o sotto forma di beni reali, si sostituisce il problema fra il risparmiare e il consumare; e poiché tutte le alternative possibili nel caso del risparmio sono fatte ugualmente spiacevoli [da un disordine nel sistema dei prezzi], si finisce di preferire il consumo al risparmio”. Per far rinascere le condizioni adatte ad investire,  occorrono riforme strutturali, che eliminino le bardature quali le imposte troppo elevate, le spese improduttive, i consorzi imprenditoriali per tenere alti i prezzi, la propensione dei sindacati a mantenere i salari a livelli che ostacolano le nuove assunzioni. Ed occorre accettare che la crisi elimini gli imprenditori variamente incapaci (“Se non siano ancora stati cacciati via se non in parte, non si guarisce la malattia; ma la si alimenta. Non l’euforia della carta moneta occorre; ma il pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori, l’applicazione inventiva dei sopravvissuti”). Einaudi sottolinea poi che espandere la domanda di consumi mediante deficit pubblici porterebbe all’inflazione e al bisogno di finanziare la bilancia dei pagamenti con debiti verso l’estero.

 

Per tutto questo Einaudi ha scritto che senza risparmio non si possono fare investimenti. Perché il risparmio è reddito non consumato, vale a dire la parte dei frutti della propria iniziativa e del proprio lavoro non destinati ai consumi per vivere e a quelli per soddisfare le spese di piacere (da qui la ragione del tassare, oltre al reddito, i consumi – seppure in modo differenziato per distinguerne la destinazione – con l’obiettivo di spingere ad evitare che  essi  assorbano del tutto l’ammontare netto dei frutti prodotti). Allora il capitale risparmio è concepito quale garanzia di libertà del cittadino nella scelta di come investire le risorse di cui  dispone per farle produrre (di conseguenza l’impegno indefesso di Einaudi contro tutte le forme economiche che propendono a comprimere il risparmio nel produrlo e nel conservarlo).

 

Con questa impostazione è decisivo mantenere le condizioni perché il risparmio resti attivo negli impieghi, a cominciare dalla stabilità della moneta. Inoltre c‘è un altro aspetto. Per Einaudi, quando esiste davvero una capacità produttiva inutilizzata, non si deve confondere quella efficace (da recuperare con investimenti del governo anche a debito) da quella inefficace perché frutto di scelte errate (che con il ricupero si vorrebbe al momento nascondere). Insomma “nel momento presente….. non par dubbio che il consiglio debba essere di risparmiare, di ridurre il piede di casa, di essere guardinghi e prudenti nell’investire. In passato ad agire così, secondo le norme tradizionali della prudenza, bene si operò e si riuscì a guarire l’ammalato. Perché oggi si dovrebbe cambiar metodo?”.

 

Proprio quest’ultima considerazione è illuminante. Einaudi non negava l’esistenza dei problemi insiti nelle crisi, ma diffidava delle terapie dei cambiamenti avventati che favorissero investimenti a scapito del risparmio ed  innescassero l’inflazione, giudicata il massimo disordine del mercato dei prezzi. Già negli anni prima della seconda guerra mondiale, proprio economisti sostenitori della concezione economica einaudiana, rilevavano che la lettura da lui   fatta della proposta di Keynes, non teneva conto di alcuni aspetti. A cominciare dalla effettiva frequente esistenza di una notevole  quantità di capitali non utilizzati. Quando esistono, se si inventasse un nuovo processo tecnico-economico tale da assicurare al capitale inoperoso un profitto sicuro, i capitali si precipiterebbero,  dando inizio ad effetti espansivi sul mercato, reali e non monetari. Fuori di metafora, potrebbe svolgere un ruolo analogo immettere risorse di banche o di istituzioni, al fine di attivare il processo descritto sopra che rimette in moto il mercato e risolleva i prezzi. E dunque, era la conclusione di quegli einaudiani, i passaggi necessari della struttura di Keynes sono compatibili con il sano rigore monetario di Einaudi.

 

Soffermarsi sul confronto Einaudi Keynes, serve per chiarire alcuni aspetti irrisolti nella posizione dell’uno e dell’altro. In materia di occupazione, Einaudi medesimo –  oltre al continuo richiamare che essa veniva ridotta da norme giuridiche e pratiche sindacali che ingessavano il mercato – riconosceva il suo contrarsi nella fase iniziale dei provvedimenti sul credito miranti a ridurre l’inflazione (come verificatosi nell’atto da lui compiuto quale Ministro del Bilancio nel ’47). Ma lo riteneva un male necessario come premessa di un nuovo equilibrio di mercato, allo stesso modo del fallimento degli imprenditori incapaci. In aggiunta, va osservato che Einaudi non approfondì davvero l’aspetto della disoccupazione  derivante dalla scoperta di nuovi macchinari e tecniche produttive. Scoperta che, oramai da tempo, aveva un ritmo spesso più veloce, talvolta anche molto, della capacità del sistema economico dell’inventare nuove modalità di impiego del lavoro sul mercato.

 

Keynes, da parte sua, focalizzandosi sul pieno utilizzo dei mezzi di produzione (al fine di risolvere il nodo immediato e incombente, stante che “nel lungo periodo saremo tutti morti”), dava centralità al tema occupazione e aveva ben colto il punto della “disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera che procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera”. Però la soluzione da lui proposta del riattivare il mercato dall’esterno – spingere per finanziare a debito il pieno utilizzo dei mezzi di produzione esistenti, umani innanzitutto e non solo –, si prestava ad essere fraintesa e venir usata in chiave dirigista (spostando attenzione e impegno dal mercato dei cittadini al sostenere il potere civile di chi, persona o gruppo, elargisce il credito e lega  i cittadini ed ha il potere di scegliere).

 

Tutti e due cercavano di risolvere il rapporto tra risparmio e investimenti. Per Einaudi la chiave sono il prezzo  e il saggio di interesse reale, per Keynes sono le aspettative del risparmiatore e il saggio di interesse monetario. Ne consegue che per Einaudi la cura è  il rigore di bilancio che sostenga la stabilità monetaria perseguita dalla Banca centrale, ammettendo l’intervento pubblico solo per opere di pubblica utilità, mentre per Keynes la cura è l’aumento della domanda globale mediante gli interventi pubblici anche in deficit. Le due cure – rispetto alla chiarezza del fine dichiarato e condiviso di promuovere la libertà del cittadino – avevano alcuni aspetti più deboli quanto ad efficacia. Inoltre, Einaudi riteneva necessario formare delle classi dirigenti capaci di svolgere una funzione generale di indirizzo e  Keynes presupponeva che i tecnici pubblici fossero in grado stabilire quali interventi fare e in quale momento. Anche qui, i detrattori preconcetti del liberalismo, hanno accusato Einaudi di conservatorismo disattento a gran parte dei cittadini, e Keynes di essere un sostenitore della tecnocrazia. Su tutti questi aspetti hanno giocato le distorsioni delle due rispettive proposte fatte dagli ambienti espressione delle culture dei movimenti non liberali. Come si è visto prima, da decenni si tenta, con insistenza crescente, di far passare Einaudi per liberista quando lui ha mostrato di non esserlo  nei suoi scritti e nei suoi comportamenti. E si vuole interpretare Keynes  come l’iniziatore del governare inflazionistico  e sostenuto dalla crescita del debito nonché dalla pratica dirigista, al contrario dei suoi intenti chiaramente espressi.

 

Ambedue sono vittime, in quanto liberali, di coloro che non vogliono accettare i criteri dinamici e duttili da loro proposti per risolvere i rapporti economici nel convivere. In sintesi, non li vogliono accettare perché tali criteri consistono nell’affidarsi alle scelte e alle iniziative del cittadino individuo prima di tutto. Le culture dominanti nella seconda metà del ‘900, quella popolare cattolica e quella socialista, per mentalità  istintiva, hanno interpretato le idee di Einaudi e di Keynes come se avessero l‘obiettivo  di porsi quali dottrine definitive dell’economia. Una interpretazione assai lontana dal vero. Essendo liberali, Einaudi e Keynes hanno puntato, con le rispettive proposte, a rendere più libera la vita quotidiana del cittadino almeno in quel determinato periodo storico. Un obiettivo complicato da centrare in pieno, appunto in considerazione delle varie caratteristiche della libertà di cittadini diversi e del trascorrere del tempo. Ma i rispettivi contributi sono stati molto fecondi, finché le culture illiberali, anche sfruttando le parti meno incisive delle proposte di Einaudi e di Keynes, non hanno tentato di eternizzarli in una formula statica ed a loro estranea.

 

I due marchi – di Einaudi (il principio del Buongoverno) e di Keynes (il pieno utilizzo dei mezzi produzione) – sono  intrinsecamente variabili con i luoghi e con l’epoca, quanto ai modi per realizzarli. Non sono possibili politiche automatiche e ripetitive.  Nessun determinismo, immaginabile solo da chi vede la vita imperniata sull’alternativa vincere o perdere e sull’invidia. Del resto, Einaudi e Keynes, a parte le accuse infondate loro rivolte ­– a Einaudi di essere liberista più che liberale, a Keynes di essere  dirigista più che  liberale – hanno indicato strade complementari e non contrapposte.  Il loro divergere nel vedere il cardine economico sul confronto dei prezzi (Einaudi) oppure sulla quantità dei mezzi in gioco (Keynes) è una distinzione piuttosto che una divergenza reale, nel senso che il meccanismo dei prezzi presuppone che il mercato funzioni, mentre la quantità dei mezzi è un presupposto per far esistere il mercato. Da qui la complementarità dei due grandi liberali. Solo una visione rigida – perciò illiberale – può pensare di ridurre la realtà o ad un meccanismo sempre funzionante nei modi stabiliti oppure ad una totale mancanza di meccanismo di cui si devono ricreare da zero le condizioni operative.

 

 

11- L’insegnamento einaudiano.  L’opera di Einaudi e le sue polemiche  sono strumenti assai utili per riflettere sugli intrecci complessi, oggi frenetici ai limiti del caos, che la realtà rinnova sempre. Quegli intrecci vanno almeno districati, se non sciolti, per preservare nel tempo un equilibrio civile tra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica.

 

Già dallo stile di scrittore, Einaudi ha costantemente innescato i suoi ragionamenti politico culturali circa la libertà, con la descrizione in dettaglio della vita di ogni giorno del cittadino normale, che opera come sente pensando a risolvere i problemi abituali dell’esistenza. Così, Einaudi insegna in modo poliedrico che la libertà del singolo è alla base di una società libera, che una società libera si fonda su uguali diritti dei cittadini e che gli ordinamenti devono rendere massima la capacità di comunicare e di intraprendere dei singoli. Dunque il liberale, in politica, deve adoperarsi su più fronti per costruire percorsi aperti che preservino da rischi pericolosi. Quelli rappresentati da chi vorrebbe riscoprire il pauperismo, oppure da chi emarginerebbe le persone inutili nell’ottica economicistica, oppure da chi pensa la libertà solo per gli eroi solitari capaci di mantenerla nella propria coscienza in ogni circostanza, oppure da chi si illude di trovare la libertà affidandosi acriticamente all’autorità di qualcuno piuttosto che all’apporto di tanti altri.

 

Ogni volta che c’è da decidere, un punto centrale è ricordare che il metodo liberale dell’agire nel solco della rotta sulla libertà del cittadino, non usa le teorie di varia natura ideologica o religiosa, che perseguono il dover essere. Il metodo liberale opera sempre mediante il vincolo dei risultati potenzialmente indotti nei fatti concreti della realtà, dal decidere una certa azione. E questo perché il metodo liberale, in ogni occasione, è attento a ciò che l‘esprimersi umano produce materialmente come risposta alle sfide del vivere tra individui.

 

Quello che effettivamente è accaduto e  accade, prova che sono considerevoli per struttura le difficoltà di percezione immediata delle idee politiche liberali e delle proposte conseguenti. Ma che, nell’epoca recente, esse si sono acuite dopo la caduta del muro di Berlino (1989). I fraintendimenti di cui sono stati vittime Croce, Einaudi, Keynes, sono principalmente il manifestarsi volontario della vasta area dei non liberali. Sono fraintendimenti che si ripresentano ogni volta, soprattutto in Itali. Ancora in questo caso, dopo la caduta, i non liberali hanno dovuto  prendere atto  della forza delle idee liberali nell’adeguarsi alla realtà. Ma non potevano condividerle, poiché quelle idee praticano per natura la duttilità che rifiuta di ingannare i cittadini tramite l’emozionarli con la promessa utopica (che è il sistema prediletto dai non liberali). Quindi i  non liberali, per mimetizzarsi, hanno adottato il vezzo di chiamare liberale tutto , a partire dagli atti e dalle politiche che non solo non sono liberali ma che non di rado sono addirittura  illiberali. Questa è stata la furbesca metamorfosi dei gruppi dirigenti non liberali che hanno governato in quegli anni mediante evoluzioni formali nei nomi e nelle formule per celebrare, sotto la patina liberale, il proprio potere al riparo dal far decidere davvero il cittadino (qui sta il raggiro).

 

Il distorcere la realtà del liberalismo non è però bastato a salvare quei gruppi dirigenti. Alla fine l’opinione pubblica dei cittadini, constatato il perdurare di risultati del tutto negativi, ha detto basta e si è ribellata. Dando una forte rappresentanza in parlamento ai populisti nonché alla destra sovranista e antieuropea. Allora i non liberali, imperterriti, hanno pensato di poter restaurare il loro potere perduto dando la colpa del loro malgoverno all’aver applicato idee liberali. E’ una menzogna, dovuta o alla loro ignoranza o alla loro volontà di raggiro. Fatto sta che gli attacchi al liberalismo degli ultimi anni sono risibili.  Egemoni non erano state e non sono le idee liberali. Egemoni sono state le élites di governo oligarchiche che hanno imbavagliato i cittadini con politiche disattente agli individui, al mercato vero, al funzionamento parlamentare e alla mentalità d’operare effettiva praticata dalle burocrazie statali. Politiche ispirate  per lo più sia ai privilegi  delle strutture esistenti sia al mondialismo del dover essere e del bene comune stabiliti dalle medesime élites. Quanto al nuovo corso parlamentare, l’egemonia delle élites è in disarmo (ed è molto preoccupata). Però resiste perché è favorita dalla mancanza di esperienza e dalla scasa qualità dei nuovi. Da anni, nel Parlamento italiano, non aleggiano le idee liberali.

 

La situazione stava a questo punto quando, all’inizio 2020, il Covid19 ha dato il colpo fatale alle pretese di restaurare le vecchie concezioni di come esercitare la funzione pubblica.  La pandemia non poteva essere prevista quanto all’esatto momento dell’arrivo, ma la sanità pubblica  doveva essere pronta ad affrontare una qualche eventualità emergenziale del genere (sempre incombente in potenza). Si è visto che pronta non  era (senza responsabilità degli ultimi trenta mesi di governo, salvo quella di non aver corretta la linea). Ma si è visto anche – ed è ancor più grave – che l’intera struttura pubblica non è stata in grado di correggere il proprio modo di funzionare. Si è visto che i servizi pubblici  non svolgono il ruolo per cui esistono, ma non si pensa a ridisegnarne l’impianto o almeno ad oliarne i meccanismi esistenti. Si è visto che le Regioni intendono la loro autonomia come diritto di comportarsi da stati in miniatura e sono incapaci di concepire il loro ruolo in un quadro unitario della Repubblica strutturata su più livelli. Si è visto che le burocrazie antepongono il fruire dei loro privilegi all’esercitare la loro professionalità d’istituto e hanno anche l’ipocrisia di incolparne il governo di turno.

 

In altre parole, si è constatato che l’Italia non sa ricostruirsi all’insegna del valorizzare gli apporti individuali diffusi dei diversi cittadini.  Si continua a parlare della necessità di rilanciare l’impegno solidale della comunità mentre la pandemia è un tipico problema della salute e dei comportamenti di ogni individuo nel suo essere specifico. Non si capisce che il Covid19 è l’ennesima riprova di come, per vivere, sia indispensabile da un lato aumentare la consapevolezza di come sia decisivo l’agire di ciascuno rispettando i vincoli della realtà circostante (ad esempio, nel caso, le prescrizioni sanitarie), dall’altro accrescere la  conoscenza scientifica, che permette di interagire con quanto accade nel mondo.  Né si coglie  il perché del balzo fatto dalla ricerca della scienza sanitaria nell’ultimo periodo: potenziando la ricerca e non esaltando modelli rigidi. Il senso della ricerca è appunto applicare il lavoro dei singoli ricercatori nell’esaminare la realtà in termini sperimentali, vale a dire con spirito critico, con rispetto dei fatti, e disponendo delle risorse indispensabili. Non c’entra il dover essere della comunità.

 

In Italia, invece, si continua a fare confusione. Non perché, come scrivono certi giornalisti, la pandemia abbia sospeso la politica. Ma perché, nonostante la pandemia, prosegue la tendenza a identificare la politica nella gestione del potere invece che considerarla una riflessione-confronto riguardo le soluzioni da scegliere e centrata sul proporre ai cittadini cosa scegliere.  Inoltre si da spazio ad una pseudo maggior considerazione per la scienza, trasformata però in una sorta di mitizzazione mediatica dei personaggi disponibili ad esibirsi. Senza preoccuparsi se tali personaggi si comportano davvero quali scienziati dediti a diffondere il sapere. Si pretende che la consapevolezza del cittadino – che è imperniata sul senso critico ­­­­– possa rafforzarsi con l’aderire a manifestazioni-evento prodromo di conformismo emotivo e ci si ostina a mantenersi lontani dalla riflessione critica e conoscitiva.

 

Ancora una volta, la responsabilità del clima distorto è in massima parte dei mezzi di comunicazione, i quali, nel complesso, non svolgono più il loro ruolo informativo (che è dar notizia degli avvenimenti) ed invece diffondono una realtà romanzata (sull’intero orizzonte dell’informare, dai temi del come convivere a quelli dell’ambiente) e si spingono non di rado a dissimulare servizi trasmessi dietro corrispettivo. Quest’ultima trasformazione è particolarmente negativa perché, recidendo il filo del giudizio dei lettori sul prodotto mediatico (manifestato con l’acquistarlo), riduce assai la loro influenza nel determinare la funzione qualità del prodotto informativo. E togliere qualità al prodotto informativo, favorisce il dominio di un potere non responsabile.

 

Un simile quadro porta a condizioni di massimo  svantaggio per le idee liberali. E nello specifico per quelle di Einaudi, che ragionano sul libero esprimersi di ciascuno per rendere possibile il mantenere le migliori condizioni del loro rapportarsi nelle rispettive diversità. Il  che  rende concreto il sussistere della libertà.  Perché privato di un’informazione ampia sugli avvenimenti del momento, il cittadino non può conoscere abbastanza quanto sta accadendo in quell’epoca e in quel luogo. E siccome le condizioni della libertà evolvono al passare del tempo anche nello stesso luogo, senza la conoscenza del presente non si possono aggiornare le condizioni di libertà nel convivere.

 

Nel suo Buongoverno, Einaudi elenca le dieci condizioni che ritiene  fondamentali per realizzarlo:  “l’indipendenza della magistratura ; l’autonomia delle università; la libertà di stampa; l’abolizione del prefetto e l’autonomia dei comuni, dei collegi posti attorno al centro più grosso e delle regioni; la federazione europea; l’abolizione di ogni vincolo dirigista; la repressione di ogni tentativo delle libere leghe operaie e padronali di creare monopoli del lavoro; la repressione dei monopoli, cartelli e trust nel mercato delle merci; la stabilità della lira in attesa di una moneta unica europea stabile; l’abolizione delle imposte che turbano la creazione della ricchezza e l’adozione di un sistema di imposte sui consumi, sul reddito, sulle successioni con metodi non inquisitori che saranno strumento di avvicinamento fra le classi sociali; la creazione di imprese pubbliche solo quando la socializzazione risulta essere il mezzo migliore per conseguire il bene comune e non quando lo Stato (o l’ente locale) si rende complice del latrocinio a danno del pubblico; piani regolatori che non siano fatti di linee segnate sulla carta, ma di strade, marciapiedi, illuminazioni, fognature, chiese, case comunali, giardini e parchi aperti a tutti e costruiti con spese pubbliche”.

 

Ora, il cuore del rispetto di tali condizioni è l’esercizio della libertà di ogni individuo diverso nelle relazioni con i suoi simili . E, insegna Einaudi, la libertà può essere esercitata solo attraverso la lotta tra le idee e la discussione degli uni con gli altri, sulla base del conoscere davvero i fatti concreti. Si discute per capire ciò che è vivo e ciò che è morto delle tradizioni. Su ciò che è meglio rispondere alle sfide che si ripropongono di continuo nel vivere insieme. Su quale strada possa evitare il prevalere delle concezioni illiberali comunque protese, su qualsiasi questione e ad ogni livello democratico, a non riconoscere il valore del metodo del confrontarsi mediante il giudizio individuale per esercitare la sovranità in ogni consesso territoriale, che sia all’interno di uno Stato oppure tra i diversi Stati.

 

Per illustrare l’importante pregio del  discutere, Einaudi pronunciò  parole molto efficaci nel suo discorso di insediamento come Presidente della Repubblica. “Nelle vostre discussioni, signori del parlamento, è la vita vera, la vita medesima delle istituzioni che noi ci siamo liberamente date; e se v’ha una ragione di rimpianto nel separarmi, per vostra volontà, da voi è questa di non poter partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte, torto e ad accedere, facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi.

 

In conclusione, il presupposto del discutere comprende anche l’essere informati sugli avvenimenti in corso. Che però non sussiste quando i mezzi di informazione non svolgono il loro ruolo del dare notizie veritiere e del render note le varie soluzioni alternative proposte dalle parti politiche. Inoltre il presupposto viene ostacolato  dal fatto che la logica dei concetti  esposti nel presente articolo non viene digerita (e perciò stesso rifiutata, specie nell’immediato), da chi non ha la cultura liberale. In questo senso, la dice lunga il necrologio celebrativo di Einaudi scritto all’epoca da un docente  che con lui aveva avuto stretti rapporti universitari nel settore economico e che era un socialista di prima linea: “ E’ difficile classificare la posizione di Einaudi, visto che lui stesso rifiutò l’idea di essere incorniciato in una precisa scuola di pensiero”.

 

Leggere i fatti reali stravolgendoli,  fa capire senza equivoci che il mondo dei non liberali, perfino quello attrezzato, giunge a distorcere la realtà pur di non usare il termine “liberale”: il suo scopo è rimuovere il concetto per cui  il metodo liberale è valido nell’attivare il cittadino individuo. E perciò quel mondo equivoca di continuo (da troppi anni) su chi è davvero liberale nei principi e nei comportamenti: tanto da far passare Einaudi come un liberista e non come un liberale. Il motivo è che la cultura di questo mondo non liberale, infarcita dell’emotività racchiusa nella speranza utopica,  lo rende inabile al comprendere la variabilità dell’individuo , della libertà e del tempo che passa (con stizza degli stessi non liberali nel constatare che il metodo liberale è  valido effettivamente nel corrispondere allo svolgersi degli eventi nel mondo). I liberali devono averne consapevolezza. E, nel ricordo di Einaudi (ammoniva di non avere complessi di inferiorità), proseguire la lotta applicando il loro metodo per conoscere e per proporre di deliberare norme ed interventi civili adatte al momento. Verificandone i risultati al passar del tempo.

 

Estratto dal Numero Speciale Supplemento al num.105 di LIBRO APERTO  (pagg. 150-179)

 

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